Scalve deriva dalla radice preistorica kav cioè taglio, fessura, che successivamente si è evoluta nel verbo latino scalpere ovvero tagliare, incidere. Effettivamente, osservando il territorio, si può notare che ogni torrente ha profondamente scavato il proprio alveo rendendo le valli profonde e di difficile accesso.
Settembre è il periodo ideale per questo itinerario perché il clima fresco garantisce cime sgombre dalle nubi e panorami superlativi (…e il rifugio Tagliaferri aperto). Vilmaggiore deriva dal latino Vicus maior , villaggio maggiore, che ai tempi dei romani costituiva il nucleo abitato più importante della valle, contrapposto al vicino e più piccolo Vicus minor. Vilmaggiore era sede di un presidio romano come ancor oggi testimoniano la presenza di una torre e i resti di antichi fortilizi. Con la caduta dell’impero romano le armate longobarde calarono in valle di Scalve (V sec. d.C.) e da allora iniziò la predominanza di Vilminore su Vilmaggiore.
Raggiungiamo il paese di primo mattino, quando il borgo sonnecchia ancora. Facciamo una sosta alla bella fontana con due vasche di pietra e riempiamo le borracce. Consiglio di partire dalla chiesa, a quota 1086m (sosta a pagamento), dove ha inizio il sentiero CAI n° 412 diretto al pizzo Tornello. È da evitare la partenza dalla località Mulino (1050m), poco oltre la chiesa, perché il sentiero è impraticabile a causa degli alberi abbattuti da una tromba d’aria lo scorso mese di giugno.
Il sentiero del Tornello non concede tregua: le pendenze sono sempre sostenute e richiedono un buon grado d’allenamento e vivaci argomenti di conversazione. Si risale la valle del Tino in un fitto bosco di conifere, per fuoriuscire nei pressi dei ruderi della baita Cascinetti, a quota 1719m. Il panorama inizia ad aprirsi regalando scorci sulla Presolana e sulla vallata, mentre dinnanzi a noi appaiono le arcigne cime silicee che fanno da testata alla valle del Tino.
Giunti a quota 1830m si presenta un bivio: quella di destra è la via più veloce per il Tornello salendo diretta al lago di Varro; quella di sinistra è una variante che effettua un ampio giro transitando per la baita di Varro e il lago di Cornalta. I due sentieri si ricongiungono al lago di Varro.
La giornata è splendida e non abbiamo fretta, così optiamo per la variante, decisamente più selvaggia e panoramica. Superiamo una pietraia dove i segnavia sono poco evidenti, per puntare dritti verso la baita di Varro, identificabile da una bandiera tricolore ben visibile dal basso (2030m). La baita, ristrutturata ad opera del CAI Valle di Scalve, è rinserrata tra roccioni e funge da bivacco sempre aperto. Raggiungiamo la baita in concomitanza con il risveglio di una famigliola di Vilminore che ha scelto di trascorrere la notte proprio qui…come dar loro torto? La quiete regna sovrana mentre la Presolana è protagonista indiscussa dell’orizzonte. All’interno ci sono sei posti letto, un tavolo e l’immancabile stufa per scaldarsi e cucinare. Una scritta ammonisce: «la legna non va sprecata ma va anche portata».
Il sentiero prosegue alle spalle della baita e in un quarto d’ora raggiungiamo il lago di Cornalta (2181m), magnifico specchio di origine glaciale dalla forma allungata. Le sue placide acque riflettono perfettamente le cime d’intorno. Mi avvicino a riva per tastare l’acqua: «ehi ragazzi, la temperatura è ottima, ci attendono ancora almeno sei ore di cammino, propongo uno splash». Detto, fatto! In un attimo ci troviamo a fare compagnia alle trote che saltano a pelo d’acqua. Il sole è già caldo e non c’è vento, così, senza asciugarci, ci rivestiamo pronti per l’attacco finale al Tornello. Dal lago la cima è ben visibile e non si può certo dire che sia vicina. Fortunatamente la “puciatina” ci ha profuso la tempra necessaria per affrontare le rampe finali. Risaliamo la costa sulla destra del lago e in breve eccoci al cospetto del lago di Varro (2236m): un tondo quasi perfetto, limpido e di un colore che varia dal verde all’azzurro a seconda dell’intensità della luce solare. Anche le sue acque sono invitanti ma, la maggiore profondità e le dimensioni, rendono il bagno più ardito.
Dal lago di Varro si risalgono prima alcune balze erbose poi una pietraia fino a sbucare presso una sella posta tra il monte Tornone e il Tornello. Nonostante il nome, il monte Tornone è cento metri più basso del Tornello, ma salirlo è più complicato perché richiede il superamento di alcuni passaggi di roccia. La sella (2512m) si affaccia sulla valle del Vò: in basso si intravede Schilpario con la splendida corona calcarea del pizzo Camino. La cima del Tornello è lì, sopra di noi. Continuiamo a salire fino ad intercettare il bivio con il sentiero CAI n° 430, diretto al rifugio Tagliaferri. Un ultimo sforzo ed eccoci in vetta (2687m). Dalla croce si gode di una vista meravigliosa a 360 gradi: ai nostri occhi si presentano tutti i monti delle Orobie orientali, maestosi e severi, mentre laggiù in fondo, ecco l’inconfondibile piramide dell’Adamello con il suo ghiacciaio che finalmente risplende di bianco. Scrutando verso Nord si intravede il rifugio Tagliaferri, nostra prossima tappa, e poco più a Ovest, si identifica il percorso che seguiremo in discesa lungo la valle del Gleno.
Tornello deriva dal termine preistorico mediterraneo tor, inizialmente attribuito a cosa rotondeggiante poi a collina, monte. Il primitivo senso di collina è rimasto solo nella toponomastica, mentre le lingue moderne hanno continuato il senso metaforico, quello di girare, utilizzandolo in termini quali tornare, torneo, tour (giro). In effetti la cima del Tornello appare più come una docile sommità tondeggiante, in contrasto con le cime d’intorno molto più aguzze e rocciose.
Dopo le foto di rito torniamo sui nostri passi fino al bivio con il sentiero n°430 e ci incamminiamo verso il rifugio Tagliaferri. Inizia un lungo traverso che, per comode balze rocciose levigate dai ghiacci di 10000 anni fa, conduce all’agognato rifugio (2328m), il più alto della bergamasca.
L’ora è perfetta per gustare un buon piatto. Ad accoglierci Marco, giovane studente di Vilminore, che rivela un’affabilità e una cortesia non comuni. Approfittiamo della loquacità per scambiare due parole: è studente dell’ultimo anno di elettronica a Lovere, nonché giovane promessa dello sci alpinismo agonistico. Faccio due rapidi calcoli: «la strada è molto lunga, alloggi a Lovere in convitto?» e Marco con grande naturalezza: «no, faccio avanti e indietro da Vilminore tutti i giorni. Un’ora e venti ad andare e altrettanto a tornare». Mi piacerebbe che ad ascoltare ci fossero i miei studenti cittadini! Tra un piatto e l’altro ci confrontiamo sulle gite scialpinistiche della zona. Per curiosità gli chiedo i tempi di percorrenza di alcuni itinerari e Marco rivela crono da atleta d’élite. Rimaniamo ancora più sorpresi quando, al momento del conto, di sua iniziativa, il ragazzino diciottenne offre un giro di grappino a noi veterani … complimenti Marco!
Ripartire con la pancia piena è sempre molto impegnativo, fortunatamente l’ascesa al passo di Belviso è breve e il grappino mette il giusto grado di buonumore per alleggerire le fatiche. Così, con il sorriso e accompagnati da scorci meravigliosi sul lago di Belviso, raggiungiamo il passo (2518m). Dinnanzi a noi i contrafforti rocciosi del monte Gleno, mentre in basso si apre, infinita, la valle del Gleno. Siamo sul sentiero CAI n° 321 che seguiamo in discesa ancora per un breve tratto fino a confluire nel sentiero n° 410 che percorre tutta la vallata. La valle del Gleno è costituita da tre balze intervallate da altrettanti pianori pascolivi che ospitano le baite d’alpeggio. Superata agevolmente la prima balza, transitiamo vicino alla minuscola baita alta di Gleno (2088m). Il sentiero ora affronta la seconda balza, decisamente più rocciosa, ma il tracciato è stato abilmente ricavato tra le rocce rendendo facile il percorso. Raggiungiamo così l’ampio pianoro che ospita al baita di mezzo di Gleno (1818m). Sbirciando alla nostra sinistra, si notano, a quota 1950m sopra un piccolo pianoro, i ruderi del rifugio Bissolati, costruito dal CAI di Cremona nel 1922 ma andato distrutto da una valanga nel 1925.
Dopo aver percorso il lungo e piacevole pianoro, affrontiamo la terza balza che, con impatto emotivo crescente, ci introduce allo scenario drammatico dei ruderi della diga del Gleno (1517m). Ci fermiamo in silenzio mentre le nostre menti tornano ai racconti della tragedia del 1 dicembre 1923. È struggente il contrasto tra il placido laghetto a monte della diga e il mastodontico sbarramento con la sua agghiacciante ferita.
In corrispondenza della spaccatura della diga imbocchiamo il sentiero CAI n° 411, diretto a Pianezza. È molto suggestivo il primo tratto pianeggiante che si insinua tra le pareti rocciose del pizzo Pianezza. Sotto di noi il torrente Povo scorre profondo e impetuoso tra le rocce. È curioso sapere che il torrente Gleno, raggiunta la diga, cambia il nome e diviene Povo.
Dopo il tratto pianeggiante tra le rocce, una ripida e sassosa discesa conduce a Pianezza. Giunti a quota 1345m (in località Fonc ), poco prima del piccolo borgo, il sentiero si innesta su una strada forestale in corrispondenza di un piccolo spiazzo. Svoltiamo a sinistra seguendo l’indicazione «pieve». Camminiamo per un paio di chilometri (ci attende solo una breve salita a cui segue una lunga discesa su strada cementata) passando per le baite della località Ronchi fino alla chiesetta di San Pietro, a quota 1075m (alias Tempio del Donatore). La presenza di una chiesa dedicata al santo apostolo è segnalata fin dal XII secolo ed era la pieve di tutto il territorio scalvino che allora comprendeva anche Valbondione. Le pievi erano le chiese dei borghi rurali in cui era possibile ricevere i sacramenti, senza obbligare i fedeli al lungo viaggio in città per recarsi in Duomo. Non erano unicamente luoghi di culto bensì anche punti di riferimento per la collettività, i cui rappresentanti si riunivano al loro interno per deliberare riguardo alla vita comunitaria. Nel 1664 si rese necessaria la costruzione di una nuova e più ampia chiesa, per la cui realizzazione si procedette con la demolizione della pieve di san Pietro per il riutilizzo dei materiali. A ricordo dell’antica pieve rimane solo una colonna di serizzo rosso. La chiesetta attuale, costruita nel 1785 in ricordo dei morti della peste del 1630, dopo un’accurata opera di restauro ad opera delle associazioni AVIS e AIDO, è gestita dai donatori volontari del territorio.
Dalla chiesetta scendiamo sulla strada asfaltata che seguiamo a sinistra per pochi minuti fino a tornare a Vilmaggiore.
P.S. l’escursione qui descritta è lunga 23km con 2050m di dislivello positivo. Non ci sono tratti tecnici ma, considerata lunghezza e dislivello, è adatta ad escursionisti esperti ed allenati. Una buona soluzione potrebbe prevedere il pernottamento presso il rifugio Tagliaferri, così da spezzare in due parti l’itinerario. Con le opportune soste calcolare circa dieci ore di cammino.
Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli
Il video è di Carlo Cella