I mesi invernali sono il periodo migliore per godere di paesaggi e panorami che i monti affacciati sulla pianura sanno regalare. Proprio quando neve e ghiaccio rendono insidiose le alte vette, ecco che le montagne “cittadine” sfoggiano il meglio di sé. Quest’oggi ci rechiamo a Erve (559m), il più piccolo comune della valle San Martino, posto ai piedi del Resegone in posizione alquanto defilata.
Meta odierna è il monte Magnodeno, cima meno prestigiosa del nobile Resegone, ma ugualmente affascinante. Per i bergamaschi è una montagna poco conosciuta, mentre per i lecchesi rappresenta una classica gita fuoriporta. Ci troviamo in provincia di Lecco, in un territorio che fino al 1992 apparteneva alla provincia di Bergamo. Il nome Erve è da far risalire al termine gallico êrf, che significa «campo». La strada che sale da Calolziocorte regala già una prima emozione: dopo aver serpeggiato tra le eleganti dimore adagiate sulla collina di Rossino, si dirige spavalda incuneandosi nell’orrido del torrente Gallavesa, lo attraversa passando, a mezza altezza, a sbalzo sul precipizio.
La carrozzabile, un capolavoro di ingegneria di inizio Novecento, tolse dall’isolamento Erve, che fino ad allora era collegata alla civiltà da lunghe e perigliose mulattiere. Poiché non si può sostare lungo la strada per ammirare la forra, l’unica possibilità è di percorrere a piedi la provinciale sbirciando sul precipizio. Occorre tuttavia prestare estrema attenzione al traffico veicolare, perché la carreggiata è piuttosto stretta. Un tempo esisteva un sentiero attrezzato che si addentrava nella gola percorrendo l’alveo del torrente, ma una decina di anni fa è stato dichiarato inagibile e smantellato.
Parlando di Erve, Giovanni da Lezze, nel testo del 1596 «Descrizione di Bergamo e suo territorio» racconta: «Il comun non ha beni né entrata alcuna … Quella gente è tutta povera per esser quel paese in loco sterile, che per tal effetto gl’huomini vengono ad habitar nelle terre più basse, non cavandosi il viver per tre mesi et li pochi che restano son lavoradori et brazenti». Il fenomeno migratorio ha da sempre caratterizzato questo territorio. Abbandonarono Erve principalmente boscaioli e carbonai, e chi scelse di rimanere poteva contare solo sulla pastorizia (soprattutto l’allevamento di capre per l’asprezza dei pendii) e i prodotti dei boschi (legname e castagne). Oggigiorno il turismo ha reso Erve un luogo di villeggiatura estiva molto apprezzato grazie alla natura incontaminata e alla purezza delle sue acque.
Trovo molto curioso ciò che il Maironi da Ponte riferiva riguardo a Valderve (questo era il nome in uso tra i bergamaschi) nel 1819: «Sussiste tradizione che in una roccia presso appunto Valderve esistesse una miniera d’oro, abbandonata poscia pel troppo scarso suo prodotto». Di tale giacimento nessuno degli ervesi da noi incontrati ha saputo rendere conto… mistero!
La rigidità delle temperature e l’ora mattutina non invitano ad una passeggiata tra le vie di Erve ancora in ombra, pertanto ci dirigiamo lesti alla frazione Costalottiere (620m), nostro punto di partenza. La contrada è un nucleo compatto di case aggrappate al versante meridionale del monte Pizzetto, in posizione panoramica sulla pianura. Un nome così interessante attizza subito la mia curiosità, ma fatico a trovare riscontro tra i rari abitanti incontrati. Solo in un secondo tempo, scartabellando in Internet, riesco a scovare una risposta plausibile: dovrebbe trattarsi di un patronimico riferibile a «Costa di Lotario» ma non credo riferibile ai vari Lotario imperatori carolingi.
Ci addentriamo nelle strette viuzze del borgo, percorribili solo a piedi, e subito siamo proiettati in un’atmosfera d’altri tempi: belle abitazioni di pietra su più piani con balconi e terrazzini rivolti al sole, sottoportici, gradinate di sassi, portali ad arco e orticelli curati. Qua e là, sulle pareti delle case, spiccano alcuni interessanti affreschi a tema religioso di Antonio Sibella (1840-1900), pittore valdimagnino originario di Rota Fuori, che ha lasciato numerose testimonianze sia nel Bergamasco che nel Lecchese.
Ci portiamo nella parte alta della contrada dove un cartello indica il percorso per il monte Magnodeno. Il sentiero principale, contrassegnato da bolli gialli, sale nel bosco fino a raggiungere il monte Forcellino (1003m) e da qui in vetta al Magnodeno. È un percorso in ombra fino al Forcellino, perfetto nella stagione estiva ma, nel cuore di gennaio, preferiamo la variante del monte Pizzetto (869m), molto più assolata e panoramica. Questo percorso non è segnalato, ma il sentiero è riportato sulle principali app escursionistiche.
Proprio in corrispondenza del cartello che indica la via per il Magnodeno, anziché svoltare a sinistra e procedere in piano tra le ultime case della contrada, si risale sulla destra un sentiero che parrebbe finire appena dietro le case, mentre in realtà procede tra bosco e prato innalzandosi repentino. Si sale a piccoli tornanti costeggiando alcuni terrazzamenti privati, testimoni dell’operosità dei contadini ervesi, fino a raggiungere un erto pratone che ci conduce sulla sommità boscosa del monte Pizzetto. È bello intervallare l’ascesa con brevi soste volgendo lo sguardo a valle: il fiume Adda e la pianura accompagnano il nostro cammino.
Il sentiero che dal monte Pizzetto conduce al monte Forcellino procede in direzione nord lungo il crinale, costeggiando alcuni appostamenti di caccia. Per tale motivo sconsiglio questa variante nel periodo autunnale. Oggi invece di cacciatori nemmeno l’ombra. In breve raggiungiamo il monte Forcellino (1003m) dove ci ricolleghiamo al sentiero principale in corrispondenza di un tipico termenù, l’antico cippo di confine tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano.
Il sentiero esce dal bosco mantenendosi integralmente sulla dorsale, regalando scorci meravigliosi sul Resegone imbiancato. Noi bergamaschi non siamo avvezzi a questa vista, ma da questo versante il Resegone è davvero splendido! Sui pendii in ombra la neve si è ben conservata. Risaliamo fino a lambire un vecchio roccolo (1135m) in posizione invidiabile, trasformato in casetta con tanto di tendine ricamate alle finestre.
Poco sopra la casetta ci troviamo ad un crocevia di sentieri: chi vuole divertirsi su facili roccette risale dritto per il sentiero più breve, chi vuole rimanere al sole prende il sentiero sulla sinistra che attraversa il versante meridionale del Magnodeno per puntare alla croce da sud, chi invece desidera pestare un po’ di neve sceglie il sentiero di destra… ciascuno segue la propria indole, così ci dividiamo tra climby e snowy con appuntamento alla croce! Il sentiero “nevoso” (quello di destra) raggiunge il crinale nordest del Magnodeno e lo percorre fino in vetta (1231m). L’ultimo tratto presenta alcuni passaggi su facili gradini rocciosi, ben assicurati da solide catene, utili in caso di neve e ghiaccio.
La sommità del Magnodeno è un piccolo pianoro occupato da un bivacco dell’ANA di Lecco con tanto di tavolini e panche all’ombra di alcune betulle. Nel punto più elevato c’è una piazzola per l’atterraggio dell’elicottero. Da quassù si gode di un panorama superlativo: il Resegone calamita lo sguardo con l’aspetto severo dei suoi possenti torrioni, mentre la cresta della Giumenca pare un tentacolo minaccioso proteso verso di noi; lo sguardo plana sopra Lecco, svelata in ogni dettaglio, raggiungendo quello splendido ramo del lago di Como di manzoniana memoria; e poi ecco i monti del triangolo lariano, più in lontananza le Alpi svizzere e verso ovest i laghi brianzoli e a sud l’immensa pianura che oggi è visibile fino a raggiungere gli Appennini!
La croce è poco più in basso del bivacco, rivolta verso la Brianza. Da qui il corso dell’Adda risplende nella sua bellezza. Mentre siamo in contemplazione, sento tre giovani ragazze descrivere dettagliatamente il monte di fronte a noi, oltre il fiume, che pare promettere panorami altrettanto affascinanti. Chiedo lumi. La più pimpante delle tre risponde prontamente: «è il monte Barro, se non ci siete mai stati ve lo consiglio, è una vetta molto panoramica e divertente, noi siamo di Galbiate e la conosciamo molto bene» e comincia a fornirmi dettagli sul percorso più bello, che memorizzo immediatamente.
Il tempo di un caffè presso il bivacco e ripartiamo… rotolando verso sud. Il percorso scelto per la discesa (segnalato ed identificato dal numero 29) segue integralmente il crinale meridionale del Magnodeno, e dalla croce lo si può osservare in tutto il suo sviluppo fino all’elevazione più lontana, il monte Mudarga. Camminiamo baciati dal sole con scorci sempre più interessanti sui laghi e l’Adda. Il tragitto, apparentemente lungo, in realtà corre veloce e divertente.
Scendiamo a un’ampia sella dove ignoriamo una deviazione a sinistra che si addentra nella valle puntando diretta a Costalottiere. Affrontiamo invece una breve risalita che ci conduce al passo Tre Croci (1045m), una collinetta caratterizzata da tre croci, collocate dagli Alpini nel punto in cui i “paisan”, saliti quassù a fare erba e legna, avevano posizionato una serie di corde per calare a valle il raccolto.
Si procede sempre con piacevoli su e giù fino al Corno di Grao (1041m). Ora si rientra nel bosco per scendere con decisione alla località Zappello della Culmina, dove si trova il bivacco Mario Corti (921m), intitolato al celebre alpinista brianzolo scomparso nel 2010. Si tratta di una vecchia baita ristrutturata nel 1975 e adibita a punto d’appoggio per la salita al Magnodeno. Il bivacco è sempre aperto e al suo interno si trovano un tavolo con panca, alcune credenze e un piacevole camino, dove scaldarsi nelle fredde giornate invernali. Il bivacco non dispone di attrezzatura per il pernottamento. Nelle immediate vicinanze si trova un altro termenù. Ripensando al punto in cui sono stati collocati questo e l’altro cippo, a metà dei due versanti della valle, una riflessione giunge legittima: probabilmente gli antichi confini erano ideati sulla carta tracciando una linea retta, senza tenere conto della morfologia del territorio perché un confine che attraversa una valle risalendone i due versanti è cosa poco logica. Comunque, contrariamente a quanto potessi pensare, i territori del ducato di Milano si trovavano a nord dei cippi mentre quelli di Venezia a sud.
All’intaglio Zappello della Culmina abbandoniamo il sentiero 29 diretto a Maggianico e procediamo sempre lungo il crinale seguendo il sentiero della Valle 801, un tracciato che ripercorre i confini della valle San Martino.
Con un percorso quasi sempre in leggera discesa eccoci alla volta del monte Gavazzo (916m) e poi del monte Mudarga (912m), ultima cima di giornata. Entrambe queste sommità sono ricoperte dal bosco e non offrono panorami significativi. Il sentiero ora scende ripido il versante sudest del Mudarga fino a un bivio dove occorre tenere la sinistra. In breve si arriva al cospetto della croce di Vicerola (695m), posta su un terrazzino roccioso a sbalzo sulla parete che sovrasta il torrente Gallavesa. La croce si trova lungo l’antica mulattiera che collegava Erve a Somasca. Ancora pochi minuti e giungiamo alla frazione Saina, piccolo nucleo di case rurali poste di fronte a Costalottiere. Attraversiamo la frazione e imbocchiamo la strada asfaltata che, attraversata una valletta, ci riconduce al punto di partenza.
P.S. L’itinerario qui descritto è lungo 9 km con circa 800m di dislivello positivo. Calcolare tre ore e mezza/quattro di comodo cammino.
P.P.S. Il bivacco del Magnodeno è aperto ogni mercoledì e domenica con servizio di ristoro. Dimenticavo un ultimo suggerimento per evitare figure con i paisan: si pronuncia Magnòdeno e non Magnodéno!
(Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli)