Camminare lascia il segno. Un segno fisico, tangibile, e appena appena doloroso. Perché a distanza di tre settimane da quei 170 km percorsi sotto il sole toscano, ancora mando messaggi a Camillo, amico di scampagnate e fidato consulente: «Le vesciche ai piedi non asciugano da sole, cosa devo fare?».
Mi piace pensare che da un viaggio non si torna mai se si continua a raccontarlo. Per questo lo faccio ora, senza l’aspirazione di suggerirvi come affrontare la Via Francigena nel migliore dei modi. Del resto, non credo che nessuna guida consigli di appendere venti mollette allo zaino per far asciugare i panni (ne bastano due, credetemi), oppure di risparmiarsi chilometri d’asfalto comodamente seduti nell’auto di una giovane coppia di innamorati.
Per «Via Francigena», o meglio «Vie Francigene», si intende un fascio di vie che storicamente collegavano i territori dominati dai Franchi (le attuali Francia e Germania) a Roma in epoca medievale. La direttrice principale – chiamata «Via Francigena di Sigerico» in onore dell’arcivescovo che nel X secolo la descrisse in un diario – corre da Canterbury a Roma e poi via verso Santa Maria di Leuca, per oltre tremila chilometri. Nel 2018, ho percorso il tratto che lega Lucca a Siena insieme ad un’amica, attraversando borghi storici come San Miniato, San Gimignano e Monteriggioni con le sue inconfondibili torri.
Quest’anno, invece, ho deciso di ripartire da Piazza del Campo e dirigermi a Viterbo. L’ho fatto insieme a mio padre che, dopo avermi accompagnato a Santiago di Compostela e lungo il Trilho dos Pescadores in Portogallo, probabilmente ha capito che camminare con sua figlia è ancora più bello di quando le insegnava ad andare in bici senza rotelle. Almeno, non c’è il rischio che faccia i capricci.
La partenza
Da Siena a Viterbo ci sono circa 167 km. Qualcuno divide a metà la tappa più lunga e impegnativa, i 32 km che uniscono San Quirico d’Orcia a Radicofani – una fortezza scura e austera, che svetta come un nido d’aquila sulla cima di una rupe e sembra non arrivare mai. Qualcun altro sceglie invece di unire in una sola le due tappe finali, sicuramente meno dure rispetto alle prime (ma forse perché si suppone che dopo cinque giorni si abbia ormai preso il ritmo?). Ognuno valuti a seconda del proprio allenamento e del tempo che ha a disposizione. Noi decidiamo di attenerci ai consigli della guida pubblicata da Terre di Mezzo e di affrontare il nostro “pellegrinaggio” in sette giorni.
La benedizione pre-partenza ce la dà Padre Antonio, che ci accoglie al Convento di San Clemente ai Servi di Siena con una sacchetta sulle spalle e un sorriso a trentadue denti. Non abbiamo ancora il volto provato dalla camminata – ci siamo fatti solo qualche ora in Flixbus – ma Padre Antonio ha già il consiglio che ci serve, anche se nel ripeterlo si mangia le vocali. «Sant’Agostino diceva “Canta e cammina”. Io vi dico, se fate fatica… Cant’ che t’ pass’».
Il cammino… e i camminatori
Le prime tappe, in realtà, le affrontiamo in silenzio. Siamo troppo impegnati a guardarci attorno: attraversiamo crinali percorsi da strade bianchissime, talmente bianche che quando il sole batte ci fanno male gli occhi. Le Crete Senesi sono quasi interamente coltivate a grano, la val d’Arbia e la val d’Orcia solcate da filari di cipressi. Gli insediamenti tra una tappa e l’altra sono sporadici, come lo sono i pellegrini che incontriamo lungo la strada, e con cui facciamo fin da subito amicizia. Perché ogni passo condiviso pesa meno.
Luca cammina svelto, senza fermarsi a scattare fotografie perché tanto le immagini le cattura mentalmente. Come quelle che ha conservato dall’ultimo viaggio in Kirghizistan, che non esita a descrivermi incantato. Bettina, tedesca “trapiantata” in Italia per amore, ha lasciato Siena per un’intensa due giorni di cammino. È cresciuta nella Germania dell’est, per cui le uniche canzoni che conosce sono «Bandiera Rossa» e «Bella Ciao». Le intona in un italiano un po’ stentato, mentre il sole picchia sulla via Cassia e illumina le goccioline di sudore. Roberta viaggia sola, senza aver prenotato nulla «perché tanto un posto si trova», mentre Claudia e Lorenza, bolognesi, si sono conosciute durante un trekking e non si sono più lasciate. E poi ci sono Walter ed Emiliano, che oltre a vivere a Bergamo leggono Eppen. Prometto loro poche chiacchiere – che se comincio non finisco più – e mi ritrovo ad ascoltare racconti di notti in naia, avventure cubane e nuotate nel Borneo.
Ricordo i volti dei miei compagni di cammino più che le affascinanti stradine lastricate di Buonconvento, l’imponente collegiata di San Quirico e i pici all’aglione, specialità culinaria toscana. Anche i volti dei sette ungheresi in bicicletta che ogni sera ritroviamo in ostello, guidati da un uomo altissimo che trasporta in auto i loro zaini.
Ad ogni passo un incontro, anche quando i piedi si imbattono in ostacoli imprevisti. Accade il terzo giorno, dopo aver superato il borgo di Bagno Vignoni, con la sua enorme piscina termale al centro della piazza. Un ponte sbarra la strada e siamo costretti a deviare sull’asfalto. La tappa è lunga – sono più di 32 km, gli ultimi in salita – e a papà non va di fare nemmeno un chilometro di provinciale. Pollice in su, aria di chi ha affrontato gli anni Ottanta senza vergogna, improvvisa un autostop. Non si ferma nessuno, ma poco più avanti di noi una coppia marchigiana sosta per fare qualche scatto davanti a un suggestivo viale di cipressi. Colpo di fortuna: un passaggio in auto, e siamo 5 km più vicini alla meta.
Affrontando l’infinita salita che ci porta a Radicofani, imparo che si cammina con la testa. Papà trasporta nello zaino un vasetto di mezzo chilo di arnica per cavalli, di cui vanta a chiunque le proprietà miracolose, io rivesto le vesciche con un doppio cerotto Compeed. Ma quando sulle spalle cominciano a pesare tre, quattro giorni di cammino, a nulla valgono i medicinali. La fatica si sente eccome e Walter, amico bergamasco, comincia a zoppicare a poco a poco. A non fermarci, è solo la voglia di guadagnarci la meta sulle nostre gambe. Così procediamo insieme, lentamente, i piedi che ringraziano ad ogni torrente, per ogni rigenerante pediluvio.
Ad Acquapendente, la Toscana lascia spazio al Lazio, le colline sconfinate agli oliveti e ai boschi, i vigneti del Brunello di Montalcino a quelli di Montefiascone, terra del vino Est!Est! Est!. Vorrei fare il bagno nelle acque del lago di Bolsena, che mi dicono essere addirittura potabili, ma non ne ho il coraggio. Preferisco attendere le più calde terme del Bagnaccio, punto di passaggio dell’ultima tappa, tra Montefiascone e Viterbo. Peccato che siano chiuse per lavori da gennaio…
La meta
Nel 2018, Piazza del Campo mi accolse con una pioggerellina dai tratti londinesi: leggera, ma talmente insistente da risultare fastidiosa. A Santiago di Compostela, nel 2019, la grandine lavò via la fatica a cinquecento metri dall’arrivo. E ancora, l’ultimo giorno di Trilho dos Pescadores, l’anno scorso, ci vide sfoderare all’improvviso un paio di mantelle impermeabili decisamente inadeguate. Forse è destino che dopo giorni e giorni di sole, ovunque mi trovi, alla meta di un cammino io ci arrivi con la pioggia. Con la pioggia e in infradito, perché i piedi gli scarponi non li sopportano più.
Viterbo è la «Città dei Papi», che ci accoglie maestosa con i suoi vicoli e il suo pittoresco quartiere di San Pellegrino, colorato in questi giorni da una «Festa di Primavera» con tanto di banda. Il nostro viaggio si interrompe in enoteca, insieme agli amici appena conosciuti e a mio padre, che ancora una volta ho riscoperto camminando.
So di non avervi descritto gli scorci scintillanti del lago di Bolsena, così belli da rinvigorire anche il viandante più affaticato, o l’emozione di calpestare il basolato romano della via Cassia, sulle cui rocce sono ancora visibili i segni lasciati dai carri. Lascio che le fotografie parlino da sé, e che qualcuno, incuriosito, si metta in marcia.
Ultima raccomandazione: se dormite in monastero, non fate troppo tardi la sera. Suor Rita non perdona.
(Tutte le foto sono di Marialuisa Miraglia)