Questo anno e mezzo, difficile per chiunque, ha alimentato questo mio bisogno. Intorno alla fine del 2020 ho deciso che, appena le condizioni l’avrebbero permesso, sarei partito da casa, dalla provincia di Bergamo, per andare al mare. Il mare rappresenta l’apertura, la possibilità di lasciar correre lo sguardo fino all’orizzonte e, dopo mesi di confini ristretti, mi sembrava una buona meta.
Ho già fatto diversi cammini, soprattutto con l’associazione Repubblica Nomade, e so che partire da casa a piedi per raggiungere un posto dà una soddisfazione, un senso di possibilità, difficile da descrivere. E il cammino, grazie alla lentezza e alla fatica, permette di “unire i punti” sulla mappa, dando senso a ogni centimetro di territorio.
Ho passato i mesi invernali a decidere meta e percorso, quelli primaverili a programmarlo e studiarlo e infine a maggio, dopo la riapertura della possibilità di spostarsi fra regioni e alcuni impegni, sono partito. La mia meta, la mia Finis Terrae, sarebbe stata Camogli, una stupenda cittadina ligure a cui sono affezionato avendoci trascorso momenti felici della mia formazione di psicoterapeuta e di cammino; la mia partenza Brusaporto, dove ho vissuto a lungo e dove lavoro. Ho tracciato quindi la mia personale Via del Sale, come le vie che i viandanti utilizzavano per portare il sale, bene fondamentale, nell’entroterra e, viceversa, per raggiungere il mare.
Per la prima parte del percorso ho seguito il Serio, che ho avuto alla mia destra come compagno di viaggio per i primi chilometri. Un compagno dolcemente rumoroso, che mi ha regalato diverse sorprese inaspettate. La pianura ha diverse “maestose rovine del terziario”, come canta Michele Gazich nel suo disco intitolato appunto “La Via del Sale”, come centri commerciali abbandonati, in cui sopravvivono solo sale slot. Ma anche, nel caso del Serio in particolare, cave in disuso che sono diventate laghetti e riserve naturali più o meno riconosciute in cui la Natura torna padrona.
Ma un fiume dona vita anche quando “muore” in un altro senso: la pianura formata dal cambiare corso del Serio, conosciuta come “Serio Morto”, è infatti molto fertile.
In questo tratto di strada, fino all’incontro di Serio e Adda, quasi totalmente su ciclabili, sentieri e strade bianche, ho incontrato diverse persone che correvano, andavano in bici o portavano a spasso il cane, ma nessun camminatore lunga percorrenza. Ho incontrato anche qualche pastore errante, con piccoli greggi e mandrie e roulotte scassate. Tuttavia, su un guardrail di fronte a un piccolo santuario, qualcuno ha scritto “ROMA”, con una freccia. E mi sono sentito come a casa, su un percorso battuto. Esiste una differenza fra sentieri o strade pedonali che connettono punti e percorsi simili che invece sono utilizzati solo per la loro bellezza. Credo sia una differenza data dalla Storia, dalle tracce, talvolta invisibili e sepolte dall’asfalto, dei viandanti che hanno percorso coi loro passi la stessa via.
Superato l’Adda, il terzo giorno di cammino ho percorso la pianura padana fino ad attraversare il Po, e entrare così in Emilia, a Piacenza. Campi a perdita d’occhio, paesaggi che mi commuovono per la bellezza, ma anche il contrasto fra la mia lentezza e l’Alta Velocità della ferrovia e dell’A1 sotto cui passo. In tre giorni di cammino sono passato sotto tre autostrade e la ferrovia ad alta velocità.
Questo dà l’idea di quanto sia urbanizzata e percorsa rapidamente la pianura padana. Da camminante, da viaggiatore lento, mi chiedo: è necessaria tutta questa fretta? Verso cosa si corre, se la destinazione finale del nostro Viaggio la conosciamo? Si ha l’impressione di dover riempire la vita bulimicamente di tante cose o esperienze nell’illusione di poter non morire, forse, o di rimandare la fine.
Ma c’è molta più vita nell’intensità dei momenti che viviamo lentamente: il tempo diventa più denso. Se Kronos non varia la sua corsa, Kairòs invece rallenta con noi, e ci fa grandi doni! A volte si crede che “andando piano” si perda tempo. In questo cammino ho compreso che il tempo non è perso, ma preso, per dedicarlo a altro, per esempio parlare con qualcuno incontrato lungo la strada, o facendo l’ennesima foto al paesaggio.
L’arrivo a Piacenza mi mostra come le periferie si somiglino tutte, come spesso anche i centri cittadini: le stesse vetrine, gli stessi marchi lungo le “vasche” che, al netto di monumenti e architetture, rendono le città praticamente identiche in confronto alla mutevolezza dei paesaggi naturali.
Dopo Piacenza ho raggiunto il Trebbia (aiutandomi, in questo caso, a uscire dalla periferia con un bus), e al bel paese di Travo, da cui parte una delle Vie del Sale tracciate dall’associazione La Pietra Verde. Il loro lavoro mi ha reso più semplice la realizzazione del cammino, in quanto tracciare percorsi a distanza, che sia sulla carta o su mappe on line è difficile e a rischio di sorprese come sentieri che non ci sono più o mancanza di posti per dormire o mangiare (sì, perché il mio è stato un viaggio, non un’impresa, e io amo anche le esplorazioni enogastronomiche e dormire comodamente a fine tappa!).
Da Travo il paesaggio e la strada sono cambiati totalmente. Dalla pianura, all’Appennino. Da una leggera discesa di quattro giorni ai dislivelli montani. I momenti in cui si fanno sentire stanchezza e qualche dolore non mancano, ma fortunatamente riesco a sopportare e se la sera arrivo stanco, la mattina l’ottimismo e il mare sempre più vicino mi danno forza.
Salire dalle colline della val di Trebbia verso l’Appennino regala sorprese e meraviglia a ogni passo, fino al sussulto che ho quando, svoltato un angolo mi trovo di fronte, oltre la tabula rasa della Pianura Padana, scorgo tutto l’arco alpino, ancora innevato, spuntare sopra l’orizzonte. Conoscendo la vista degli Appennini, dalle nostre Prealpi o anche da Città Alta, trovarmi dall’altra parte, e contemplare quello spettacolo maestoso è stato qualcosa di stupefacente e numinoso.
Il mio cammino prosegue in alto, con due diversi panorami da ammirare: a sinistra le dolci pendenze del piacentino, a destra la pianura e le Alpi all’orizzonte.
La prima notte “montana” dormo in un albergo (inaspettatamente gestito da una donna di Castelli Calepio!) immerso nel verde e con una straordinaria biodiversità, di cui parlo a lungo con il cuoco. Una vallata particolare dove si trovano funghi, orchidee e farfalle rare, alberi di tutti i tipi, caprioli e cervi.
Sul crinale fra Emilia e Lombardia, lungo creste spartiacque e sentieri immersi nel verde raggiungo Capanne di Cosola, dove la “mia” Via del Sale incontra quella “classica” proveniente da Pavia e Varzi. Da qui, al confine col Piemonte e prossimi alla Liguria, la via prende il nome di Via del Mare, indicando anche la meta del mio cammino, che, iniziato seguendo un fiume, non può che finire in un mare.
Incontro più escursionisti, rispetto ai giorni passati trascorsi nella quasi totale solitudine, ma anche due gruppi di caprioli al pascolo, riuscendo a fotografarne uno (a distanza, e male, avendo solo il telefono) che, incuriosito da uno strano bipede, si è fermato a guardarmi.
Sono ormai in Liguria. Dopo sei giorni di cammino, e a tre dall’arrivo, vedo per la prima volta il mare, un angolino del golfo. Una vista, ma quasi una visione, che riempie e ricarica.
A Torriglia parlo con i proprietari dell’ultimo (o quasi) albergo rimasto: sono anziani e spesso faticano a star dietro ai flussi di escursionisti. Una volta lì c’erano molti più alberghi, ora solo il loro (che esiste da inizio ‘900), “sono tutte villette”. La gestione è genuinamente familiare, cucinano solo per gli ospiti cucina casalinga, si fermano a chiacchierare con me mentre guardano la televisione, di biciclette e di come cambiano i tempi. “Mi raccomando, scendi dopo le 7.15 per fare colazione, che prima non riesco a portarti la focaccia!”.
Il mio cammino si sovrappone poi con l’Alta Via dei Monti Liguri, parte di un itinerario europeo e del Sentiero Italia, che percorre tutte le catene montuose italiane.
Arrivo infine a Uscio, piccolo paese che vanta, a proposito di Tempo, una antica fabbrica di orologi da torre.
Ed eccomi all’ultima tappa. La vegetazione cambia, diventando macchia mediterranea. I panorami cambiano, vedo il mare sia alla mia destra che alla mia sinistra. La giornata è abbastanza grigia, così che cielo e mare si confondono e sembra che le navi stiano volando. Un’ultima visione prima di precipitare (vista la pendenza delle scale che collegano entroterra e mare ligure) a Camogli e inzuppare i piedi nell’acqua fredda, con sommo sollievo.
Da certi viaggi non si torna. Geograficamente, fisicamente si può rientrare a “casa”, al punto di partenza, ma è come se il viaggio, trasformandoci, continuasse nella vita.
Perché fare un viaggio a piedi? Per un voto, religioso o laico che sia, ma anche per mostrare a noi stessi che è possibile, per riassaporare il senso di possibilità. Perché a volte la felicità è a pochi passi: non nel senso che è vicina, ma sta in quei passi. E per ricordare al nostro corpo la lentezza, e un ritmo diverso.
Non sono un atleta, non ho fatto niente di eroico. Ci sono viandanti, pellegrini e sportivi che fanno percorsi molto più difficili e impegnativi di quello che ho fatto io. Ma questo mi ha dato sollievo: non mi sono sentito in competizione con nessuno, tanto meno con me stesso, quindi potevo prendermela comoda.
Non ero in competizione ma soprattutto nemmeno in fuga. Ci sono migliaia, forse milioni di persone che sono costrette a spostarsi, spesso a piedi e si trovano su percorsi ben più pericolosi e senza i documenti “giusti” in tasca. A loro va il mio pensiero conclusivo, a questa umanità migrante, in cammino, che si sposta per necessità o per il diritto di cercare un futuro migliore, o spesso solo un futuro possibile.