Mi è capitato spesso di sentire frasi del tipo: «Eh sarebbe bello avere una ciclabile in questo quartiere ma non c’è spazio» oppure «In quella città è facile muoversi in bici ma lì avevano spazio per costruire le ciclabili, qui non si può». E ancora, alcuni lettori di questa rubrica hanno commentato le inchieste sulla ciclabilità pubblicate in questi mesi su Eppen dicendo «iniziamo a realizzare strade e infrastrutture efficienti poi si potrà pensare a costruire le ciclabili».
Insomma, sembra abbastanza diffusa l’opinione secondo la quale nel nostro contesto urbano ci sia poco spazio da destinare alle due ruote o che, comunque, investire su itinerari ciclabili non sia prioritario rispetto all’urgenza di migliorare la viabilità delle quattro ruote. In realtà, non è che non ci sia spazio fisco da destinare alle biciclette e ai pedoni: è che lo spazio disponibile è occupato in maniera preponderante dalle auto. Si possono realizzare piste ciclabili e infrastrutture per la mobilità leggera, ma questo richiede una ripianificazione di tutte le infrastrutture di trasporto – strade, marciapiedi, ciclabili, tramvie – e ancor prima una critica alla cultura autocentrica che caratterizza la società in cui viviamo.
Proviamo dunque ad analizzare in che modo i diversi veicoli occupano le nostre città e a valutare quale ruolo possa assumere la bicicletta come mezzo di trasformazione degli spazi urbani.
Lo spazio della bici e quello dell’auto
Già nel 1973 lo scrittore viennese Ivan Illich nel suo saggio «Energy, vitesse et justice sociale», tradotto in italiano con «Energia e equità» o «L’elogio della bicicletta», osservava che «la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un’auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un’unica vettura. Per portare 40mila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono tre corsie se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili e solo due corsie se le 40mila persone vanno da un capo all’altro pedalando».
Nel 1991 un fotografo di Münster, in Germania, riproponeva lo stesso confronto in maniera ancora più esplicita, mostrando lo spazio necessario per spostare 60 persone con tre tipologie di veicoli diversi: l’automobile, l’autobus e la bicicletta. Il celebre «Waste of Space», divenuto nel tempo un vero e proprio manifesto contro lo spreco di spazio pubblico, è stato riproposto in diversi contesti. Qui riportiamo la versione “bergamasca”, realizzata nel 2019 a Redona, quando in via Leone XIII vennero disposte 48 automobili, 1 autobus, 60 «BiGi» e 60 persone.
Il confronto è evidente: la superficie occupata da un’automobile con a bordo 1.25 persone (questa è la media in Italia) è sproporzionata rispetto a quella occupata da un autobus, una bici e un pedone. In particolare, al posto di un’auto si possono facilmente posteggiare 10 biciclette, che diventano venticinque se si considerano i veicoli in movimento (le bici a 15 km/h e l’auto a 50 km/h), o quaranta persone. Pertanto, una mobilità urbana dominata dalle quattro ruote è assolutamente inefficiente dal punto di vista dell’occupazione del suolo pubblico.
È passato mezzo secolo dalla pubblicazione del saggio di Illich e le automobili continuano a intasare le nostre città. L’Italia è il secondo Paese europeo per tasso di motorizzazione (663 auto ogni 1000 abitanti) e la provincia di Bergamo si discosta di poco con 634 auto ogni 1000 abitanti. Nel capoluogo bergamasco sono immatricolate più di 75mila vetture; se le disponessimo tutte quante in un mega parcheggio coprirebbero un’area di circa 190 campi da calcio. Per un paragone rapido, la superficie totale del verde urbano (parchi, cimiteri, giardini scolastici, aiuole..) ammonta a circa 300 campi da calcio.
Questo per dare un’idea della portata del fenomeno a livello cittadino, pensiamo cosa significhi a livello regionale, nazionale e mondiale. A noi sembra scontato che le strade siano realizzate per il transito e la sosta dalle auto, ma da questa breve analisi risulta evidente come, almeno in città, sia abbastanza assurdo destinare un’enormità di spazio a degli oggetti a quattro ruote (che per il 95% del tempo sono fermi) quando ci sono varie alternative molto meno ingombranti.
Le strade per le auto sono spazi escludenti
Un altro aspetto da considerare è che un’organizzazione della mobilità cittadina basata sull’automobile (per lo più vuota visto che il numero medio di passeggeri supera di poco l’unità) esclude gran parte della popolazione dallo spazio pubblico, a partire dai minorenni, dagli anziani, dai disabili e da tutti coloro che non guidano. In questo senso il pedagogista Francesco Tonucci nel saggio «La città dei bambini» (1996) ha definito le strade dei modelli urbanistici occidentali come degli spazi tarati intorno all’adulto, maschio, lavoratore e automobilista.
Basti pensare a come è strutturata una tipica strada cittadina: due corsie per le automobili (una per senso di marcia), il marciapiede (a volte su entrambi i lati della carreggiata a volte solo su uno) e ogni tanto la pista ciclabile (di solito un solo senso di marcia). Laddove c’è poco spazio la pista ciclabile è la prima che manca, seguita dal marciapiede; la gerarchia è evidente: prima l’auto e poi il resto. Le strade non sono luoghi che il pedone può fruire ma solo attraversare (prestando attenzione) e costeggiare.
Negli ultimi anni in molte città italiane, tra le quali Bergamo, sono stati fatti diversi interventi volti a rendere la mobilità più sostenibile e in particolare sono state realizzate nuove piste ciclabili tracciando linee tratteggiate a bordo carreggiata (le cosiddette bike lines) e ampliando i marciapiedi di modo che possano ospitare anche le due ruote. Questi interventi vengono spesso presentati con toni trionfalistici: «Nuovo tratto ciclabile in via Tal1» (100 m), «Allargamento del marciapiede in via Tal2» (50 cm), «Completamento dell’attraversamento ciclopedonale in via Tal3» (installazione di un semaforo a chiamata), quasi come se fosse in corso una rivoluzione della mobilità cittadina.
In realtà gli ampliamenti effettuati, pur favorendo la mobilità sulle due ruote, non sono sufficienti a riequilibrare la sproporzione tra spazi dedicati alle auto e spazi dedicati alla mobilità leggera e, soprattutto, non mettono in discussione la cultura autocentrica dominante: le automobili scorrazzano indisturbate e gli altri utenti (pedoni, monopattini, bici..) continuano a dividersi il (poco) spazio disponibile cercando di calpestarsi i piedi il meno possibile.
Per una riappropriazione degli spazi urbani
Per rendere davvero sostenibile la mobilità delle nostre città, servirebbe innanzitutto mettere in discussione il ruolo primario dell’automobile, effettuando una riorganizzazione complessiva del traffico urbano secondo principi di maggior inclusività, equità ed efficienza in cui le persone (pedoni e biciclette) riprendono possesso degli spazi pubblici.
Questa riorganizzazione della mobilità urbana è stata effettuata con successo in molte città europee a partire dagli anni Settanta, grazie a politiche basate sulla riduzione del numero di parcheggi, sulla pedonalizzazione di interi quartieri, sulla realizzazione di piste ciclabili e sul potenziamento del trasporto pubblico. In stati come l’Olanda, il Belgio la Danimarca, la Svizzera, la Spagna il traffico automobilistico è decisamente diminuito lasciando il posto a biciclette, tram, metro e pedoni che ora occupano le strade, rendendo i quartieri ambienti più sicuri, salubri e inclusivi.
D’altronde a noi pare ovvio che le strade siano dei luoghi destinati al transito delle auto, ma fino all’inizio del secolo scorso erano soprattutto un posto in cui mangiare, passeggiare, incontrarsi, fare acquisti, giocare e divertirsi; insomma, degli spazi per vivere.
Dovremmo recuperare almeno un po’ di questi spazi e lo possiamo fare a colpi di pedale, perché come sosteneva Marc Augè, l’antropologo francese mancato da pochi mesi, «la bicicletta è il simbolo di un’utopia urbana in grado di riconciliare la società con sé stessa».