Ogni qualvolta mi capita di tornare in valle Camonica nei miei occhi appare l’immagine di quella cartina appesa sul muro del tinello della casa dei miei genitori che riporta il territorio bergamasco e bresciano durante il regno Lombardo Veneto. Ebbene, tutta la valle Camonica era parte della provincia di Bergamo. Confesso che l’idea di una provincia bergamasca estesa da Treviglio fino al passo del Tonale ha sempre suscitato in me grande fascino. Con l’avvento del Regno d’Italia le cose tornarono secondo gli antichi ordinamenti e Brescia riprese il controllo del territorio camuno. Uniche eccezioni i comuni di Costa Volpino e Rogno che, storicamente legati a Lovere, rimasero in provincia di Bergamo. Va tuttavia ricordato che le rispettive parrocchie, insieme a quella di Lovere, fanno parte della diocesi di Brescia.
Quest’oggi ci rechiamo a Rogno, per conoscere ed omaggiare l’ultimo lembo di terra bergamasca nel distretto camuno. Mete prescelte il monte Alto e la cima Pora, per un itinerario alternativo rispetto a quelli frequentatissimi che salgono dalla val Borlezza. A guidarci, le antiche mulattiere che la gente del posto utilizzava per raggiungere i pascoli in quota. Il legame tra le popolazioni della valle e questi monti è antico. Ancor oggi il monte Alto (1721m) si trova in comune di Costa Volpino, mentre la cima Pora (1880m) è territorio di Rogno. Gli impianti sciistici del monte Pora sono invece nel comune di Castione della Presolana. Anomalie amministrative di un territorio posto a cavallo tra due vallate estremamente diverse: i pendii del versante camuno sono ripidi e impervi, mentre quelli che scendono in val Borlezza sono dolci e gradevoli.
Raggiunto l’abitato di Rogno prendiamo la deviazione per la località San Vigilio (790m). Il fondovalle sonnecchia ancora avvolto nell’ombra, mentre sopra di noi risplende la chiesetta di San Vigilio baciata dal sole del mattino. Raggiunta la piazzetta del borgo, ci portiamo al sagrato della chiesa: eretta sullo sperone roccioso su cui sorgeva un antico fanum (recinto sacro) pagano, regala splendidi panorami sul Sebino e la valle Camonica. A questo tempietto pagano San Vigilio deve il suo nome antico, Fano. Costruita probabilmente nel XV secolo, la chiesa era aperta ai quattro venti, senza porte, e vi si celebrava una sola volta l’anno, il lunedì di Pasqua. Nel 1580 San Carlo Borromeo ne ordinò la sistemazione imponendo la celebrazione una volta la settimana. Nel 1683 fu elevata a parrocchia. Nonostante oggi sia domenica e i rintocchi delle campane ricordino l’imminente celebrazione, è ancora chiusa, peccato!
Risaliamo in auto e percorriamo un breve tratto fino alla piazzola di atterraggio dell’elicottero, dove posteggiamo. Una fontanella consente di riempire le borracce, operazione importante perché non si trova acqua lungo la salita. Siamo nel cuore della valle dell’Orso, immersi in un ambiente scosceso e selvaggio dove il bosco è protagonista assoluto. Purtroppo anche qui si notano ampie zone devastate dal famigerato bostrico, il micidiale parassita dell’abete rosso.
Imbocchiamo il sentiero CAI n°559 diretto al rifugio Pian Palù. Dapprima su strada cementata poi per sterrato si risalgono gli erti pendii, avendo l’accortezza di mantenere la sinistra ad ogni bivio stradale che si incontra. L’aria è frizzante e i raggi del sole faticano a penetrare le fronde, sicché rimaniamo al fresco a lungo. L’unica persona che incontriamo è un fungaiolo di ritorno da una cerca poco fortunata. I recenti temporali hanno sradicato facendoli piombare sulla strada un paio di grossi abeti, che ci impegnano in ardite manovre di scavalcamento. La salita prosegue faticosa e monotona, fortunatamente i compagni di gita si rivelano ottimi affabulatori.
Di tanto in tanto sbucano dal bosco alcune baite, tutte curate e ben ristrutturate. Superiamo la cappelletta della località Ronchi (1330m) e arriviamo a lambire il crinale del monte Covolo. Consiglio la deviazione per la cima seguendo la traccia che percorre il crinale in direzione sud-est. Con un percorso quasi pianeggiante e dopo qualche litigio con i cespugli, in pochi minuti si raggiunge la panoramicissima punta Covolo (1406m). Il Sebino appare meraviglioso davanti a noi, mentre il fiume Oglio si getta nel lago lasciando una lunga scia torbida, segno inequivocabile della turbolenza dei recenti acquazzoni. Per il medesimo motivo il colore dell’acqua vicino alle coste assume un’insolita tonalità verdognola.
Torniamo sui nostri passi e riprendiamo la strada che ora procede con pendenze più ragionevoli fino a sbucare dal bosco nei pressi dei pascoli di pian de la Palù (1590m). Alla nostra destra appare l’omonimo rifugio, che già brulica di gente. In corrispondenza dello scollinamento imbocchiamo il sentiero che conduce alla cima del monte Alto (1714m). Risaliamo i bei pratoni in cui giovani abeti rubano spazio agli antichi pascoli. Alle nostre spalle emerge distinta l’elegante mole della Presolana, mentre in secondo piano appaiono le cime della valle di Scalve imbiancate dalla prima neve autunnale.
Poco sotto la cima incontriamo Franco, appassionato cacciatore dalla spiccata loquacità intento ad addestrare i suoi cani: «la selvaggina è sempre meno e molte specie non sono più cacciabili. Abbiamo liberato alcune starne per allenare i cani. Ci definiscono cacciatori ma in realtà siamo “cinofili podisti armati”!». Franco si rivela molto affabile e le chiacchiere procedono spedite: «Sono originario di Costa Volpino e qui sul Pora ci vengo da quando avevo cinque anni. Erano tutti pascoli e non c’era un albero. Nelle malghe d’intorno si contavano più di 700 mucche. I pastori erano principalmente della valle Camonica e salivano al Pora da Angolo Terme passando per il colle Vareno».
Considerata la sua familiarità con il luogo, ne approfitto per chiedere conferma sull’origine del nome Pora. Franco conferma quanto sapevo per sentito dire da mio padre: la montagna è sempre stata chiamata Pura in dialetto, cioè «paura». Questo perché i violenti temporali che si abbattono su questa cima sono caratterizzati da numerosi fulmini. La carica elettrostatica che si accumula nell’aria fa letteralmente rizzare i capelli come quando si prova una fortissima paura. Quando i cartografi del Regno iniziarono ad aggiornare le mappe geografiche pensarono bene di italianizzare i nomi delle località. Non conoscendo il dialetto locale lavorarono di fantasia e così Pura è diventato Pora. Sorte analoga è toccata anche al dirimpettaio bresciano monte Guglielmo, il cui nome originale era Gölem (dal latino culmen, «colma», una sommità non appuntita) ma italianizzato nell’improbabile nome di persona Guglielmo. Franco fornisce anche un’altra ipotesi del perché si chiamasse «Pura»: «secoli fa la notte quassù era buissima. Le uniche luci che si potevano intravedere erano quelle delle quattro case di Castione. Per il resto buio pesto e tanta paura».
Salutiamo Franco, nuovamente impegnato a seguire i rapidi spostamenti dei suoi cani, e raggiungiamo la cima del monte Alto. Sulla sommità non troviamo la classica croce ma un geolabio con cui ci divertiamo a riconoscere i monti d’intorno. Il panorama è strabiliante: il lago protagonista indiscusso con il monte Guglielmo a fare da sentinella, gli Appennini che oggi paiono vicinissimi, le Orobie con la Presolana in primissimo piano quasi a sminuire le sagome dell’Alben, dell’Arera, del Diavolo di Tenda e del Redorta. In questa giornata così tersa è quasi un peccato che il monte Pora nasconda la vista dell’Adamello.
Decidiamo così di fare una capatina sulla sua cima per completare il panorama. Scendiamo al rifugio Magnolini (1610m) dove fervono i preparativi per il pranzo domenicale che si preannuncia affollato. È tutto un andirivieni di escursionisti e biciclette. Non seguiamo la strada ma ci divertiamo ad attraversare, con qualche su e giù, gli splendidi pratoni in direzione del pian del Termen (1610m), nodo strategico degli impianti di risalita. I due laghetti per l’innevamento artificiale delle piste sono quasi pieni e suscitano molta curiosità. Il più grande è dotato di una piattaforma galleggiante che nei mesi estivi accoglie alcune sdraio per un relax totale.
Risaliamo le piste di sci e con un ultimo piccolo sforzo siamo in vetta (1880m). Abbiamo fatto bene! Il gruppo dell’Adamello si mostra nella sua grandiosità e il ghiacciaio è tornato a risplendere di un bianco purissimo. Anche la prospettiva sulle montagne scalvine e la val Camonica merita la nostra attenzione. Là in basso si intravede persino uno spicchio del lago Moro.
Le pendenze sciistiche favoriscono una repentina discesa e in pochi minuti eccoci nuovamente al pian del Termen. È quasi mezzogiorno e i tavoli del ristorante sono già apparecchiati. Sopprimiamo l’istintivo richiamo e optiamo per un pranzo a fine gita. Imbocchiamo così la strada che lambisce il laghetto piccolo, tenendo la sinistra al bivio successivo. Stiamo rientrando nella valle dell’Orso, nel versante opposto rispetto a quello seguito in salita. La strada perde quota rapidamente addentrandosi nel bosco. Nel primo tratto si notano ancora i danni causati da una tromba d’aria che nel 2020 ha abbattuto numerosi abeti invadendo completamente la carreggiata. Fortunatamente la percorribilità è stata ripristinata questa primavera (2023). Il fondo cementato agevola il cammino ma le pendenze importanti ci costringono quasi a saltellare.
Superate agilmente le baite in località Plaza (1315m), scendiamo fino a raggiungere il bivio a quota 1040m. A segnalarne l’ubicazione è una santella “voto” della prima guerra mondiale eretta dai fratelli Bendotti. Qui abbandoniamo la strada principale e deviamo a destra per riportarci sul versante opposto della valle e tornare all’auto. Un significativo languore accomuna i nostri animi, così ci precipitiamo a San Vigilio dove stamattina avevamo messo nel mirino il ristorante Gli Spiazzi. Nonostante l’orario non più opportuno (manca poco alle 14) veniamo accolti con molta cordialità e coccolati con squisite prelibatezze che allietano i nostri esigenti palati. Mentre pasteggiamo mi balena un’idea strampalata: «La giornata è meravigliosa e ci troviamo in zona: perché non fare una capatina digestiva al lago Moro?». Detto, fatto. Poco dopo ci ritroviamo sul pedalò in mezzo al lago Moro, riassaporando quella piacevolissima atmosfera vacanziera che pareva dimenticata. Una meraviglia!
P.S. L’escursione qui descritta è lunga 15 km con poco più di 1000m di dislivello positivo, calcolare quattro ore e mezzo di cammino. Se si sceglie di salire anche la cima Pora occorre prevedere 2,5km e 250m di dislivello in più (45 minuti).
Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli