I virtual influencer, spesso definiti erroneamente “robot”, si distinguono nettamente dagli umani: non hanno una forma fisica, ma esistono solo in forma digitale, olografica o, più in generale, virtuale. Sono costituiti da flussi di dati, non da cavi o componenti meccaniche. Non possiamo toccarli e i loro corpi non proiettano ombre, confinati alla dimensione degli schermi. Sono praticamente indistinguibili dagli influencer umani, poiché imitano perfettamente il loro comportamento, fondendosi con l’ambiente digitale. In effetti, spesso l’imitazione digitale supera l’originale. Oggi sui social network se ne contano a centinaia.
Abbiamo discusso di questo fenomeno con Davide Sisto - docente dell’Università di Torino e di Padova che si occupa da molti anni di tanatologia, cultura digitale e postumano - che lo scorso 17 settembre ha pubblicato un libro edito da Einaudi intitolato, per l’appunto, «Virtual Influencer».
«Sono creati da svariate società che si occupano di comunicazione di marketing e vengono gestiti, per quanto riguarda l’interazione con gli esseri umani, non dall’intelligenza artificiale ma dai team che collaborano con queste società. Sono costruiti a partire, tra l’altro, dal loro aspetto estetico da un mix, potremmo dire, di fotografie e tratti visivi estrapolati dalle immagini che tutti gli utenti condividono online. Quindi, è una specie di estrapolazione di figure, di immagini estetiche standard a partire dalle nostre condivisioni».
La più famosa delle virtual influencer, si chiama Lil Miquela, si presenta come brasiliano-statunitense, è stata creata con un grande espediente di storytelling. Il suo profilo è stato pubblicato su Instagram senza dichiarare la sua genesi artificiale nel 2016, ottenendo un impressionante seguito di pubblico. Poi, nel 2018, i suoi creatori hanno finto che il suo profilo fosse stato hakerato da una sua rivale, obbligandola a dire la verità: i suoi manager le hanno mentito, lei non è una persona reale ma è stata inventata a tavolino. Da quel momento Lil Miquela ha avuto un ulteriore surplus di notorietà, tanto che oggi conta due milioni di follower su Instagram. Nel 2018 è stata considerata dal Time come una delle 25 personalità più influenti di Internet, insieme a Donald Trump e Rihanna.
«Il mio interesse da filosofo nasce nei confronti del modo in cui le persone interagiscono con questi virtual influencer. MI interessa il fatto che i follower, sebbene sappiano che sono finti, (anzi proprio perché sanno che sono finti) stanno al gioco. I virtual influencer sono per la maggior parte, esteticamente bellissimi, affascinanti e via dicendo - però nel momento in cui dicono che sono finti, gli esseri umani che li seguono sono più, potremmo dire, sereni di relazionarsi con qualcosa di fatto inferiore all’essere umano perché non esiste, non è reale e una volta che non c’è connessione al web, o muore Instagram, svanisce nel nulla. Viviamo adesso, in una fase in cui gli influencer in carne e ossa stanno perdendo il loro appeal proprio perché le persone si rendono conto che i comportamenti che esibiscono sono tutto fuorché spontanei».
I virtual influencer, dichiarando di essere inautentici, paradossalmente dimostrano di essere autentici perché hanno confessato una loro debolezza, che diventa il punto forte, il punto cardine della relazione con gli utenti.
Reale, troppo reale
ll virtual influencer risponde alla fascinazione dell’essere umano di produrre artificialmente esseri simili a noi, ma che cosa cambia rispetto alle potenzialità generative dell’essere umano, che può generare esseri umani? «Quello che cambia è il fatto che costruisci delle persone burattini, da un certo punto di vista. I genitori quando mettono al mondo dei figli vorrebbero che questi fossero a immagine e somiglianza di sé. Commettono spesso questo errore, ma ciò non è possibile perché appunto la personalità dell’essere umano non è così manipolabile, controllabile. Invece i virtual influencer, così come tutti i tentativi che ci sono sempre stati nella storia dell’umanità di creare esseri artificiali, partono dal presupposto appunto che queste creature sono totalmente controllabili.
Nel libro menziono il classico esempio di Pigmalione nelle Metamorfosi di Ovidio, che proprio sta a indicare un uomo che è deluso dalle relazioni che ha avuto in passato e, di conseguenza, si costruisce la sua donna perfetta che è finta, e lui può gestirla come vuole. In fondo, i virtual influencer sono questa cosa qua, nel senso che sono completamente manipolati e gestiti dagli esseri umani. Per cui, non potranno mai emanciparsi dal controllo dell’umano, non potranno mai sviluppare una loro individualità e una loro indipendenza perché appunto non esistono. E questo è certamente l’elemento che affascina di più gli esseri umani, in un mondo in cui, per fortuna, non si può essere completamente possessori e manipolatori degli altri».
Deriva tecnologica o evoluzione inevitabile?
Sarebbe fuorviante affermare che i virtual influencer sono una deriva tecnologica, il più elegante antenato di Lil Maqueta nella storia si può rintracciare nel manichino Cynthia, creato negli anni ‘30 dallo scultore Lester Gaba. La sua figura è stata fotografata, vestita dai migliori stilisti, addirittura paparazzata, finché nel 1939, scivola da una poltrona frantumandosi in mille pezzi. In questo senso il non avere una connotazione fisica, è forse il vero vantaggio dei virtual influencer: «Quando ci proiettiamo, prolunghiamo noi stessi attraverso gli schermi, possiamo in qualche modo moltiplicare la nostra presenza fisica - tra virgolette, ovviamente, fisica - in mille posti differenti della rete. Quindi possiamo dire che ci sdoppiamo e possiamo essere appunto più persone in più social media, nei videogiochi ecc. Loro intercettano un po’ questa caratteristica, quella di avere una specie di carne digitale multipla che appunto si estende contemporaneamente in più luoghi. Questo, per esempio, è un aspetto che si lega anche agli spettri digitali dei morti, cioè al tentativo di riprodurre i morti in realtà virtuale o comunque nella rete, perché tutto ciò che noi produciamo online alla fine resta una volta che non ci siamo più. Ciò risponde ad un altro bisogno umano, quello dell’immortalità o comunque di una presenza eterna».
Accanto ai virtual influencer che sono costruiti fondamentalmente soltanto per il campo della moda che sono solitamente donne molto belle, aprendo il tema della sessualizzazione di queste influencer, ce ne sono diversi altri, come ad esempio Kami, che è la prima virtual influencer con la sindrome di Down, creata e gestita da utenti che hanno questa sindrome. Il suo compito fondamentalmente è quello di cercare di rompere dei tabù, dei pregiudizi, degli stereotipi, e cercare di spiegare ai follower, soprattutto quelli più giovani, cosa significa avere un cromosoma in più e cercare anche di mostrare che sono persone che possono svolgere nella vita attività come qualunque altro essere umano.
I virtual influencer intercettano l’attitudine che dagli albori dei tempi, porta gli umani a creare delle relazioni simboliche con chi non esiste. Un fenomeno che poi si è moltiplicato con lo sviluppo della televisione, con i nuovi mezzi di comunicazione del ’900, che spinge le persone a immaginare di avere delle relazioni con i personaggi delle saghe o con gli attori che le interpretano. «Il rischio è che, se si proietta eccessivamente la relazione su qualcosa che o non esiste o con cui non entriamo in contatto, si finisce per cadere in una forma di alienazione. Lo vediamo nei fatti di cronaca: personaggi VIP e personaggi pubblici spesso vengono perseguitati dai loro fan perché pretendono che ci sia una relazione anche se di fatto non c’è. E quindi questo aspetto può tranquillamente emergere anche con i virtual influencer. Anzi, questo aspetto negativo può essere un elemento su cui chi li gestisce può capitalizzare per trarne profitto».
Una specie che immagazzina dati
Da quando si è diffusa a macchia d’olio la connessione al mondo online, e soprattutto da quando disponiamo dei social media e degli smartphone, siamo diventati esseri che producono dati, che registrano documentano costantemente le proprie vite. Volendo, si può registrare la propria vita ininterrottamente e questo è certamente molto problematico, soprattutto perché non abbiamo la capacità materiale di gestire questa enorme quantità di informazioni.
Il fatto che tutti questi dati poi ci sopravvivono rende ancora più complessa la situazione, nel momento in cui non abbiamo più controllo su di essi. E sappiamo che uno dei momenti più fragili della nostra esistenza è quello legato alla perdita e al lutto. Di conseguenza la sopravvivenza dei nostri profili online può arrecare non pochi danni di natura psicologica ed emotiva alle altre persone. Ma qual è il futuro di questi ologrammi digitali?
Secondo le previsioni di mercato, i virtual influencer prenderanno sempre più piede. Ci sono anche molti interpreti e modelli della cultura digitale e dell’evoluzione digitale, che sostengono che in futuro avremo sempre meno relazioni con altri esseri viventi e sempre più relazioni con esseri creati artificialmente. L’ipotesi più plausibile è che sostituiscano, sul piano soprattutto del marketing, della moda e del commercio, gli influencer in carne e ossa.
«Questi virtual influencer – conclude Sisto - sono comunque gestiti da esseri umani. Potrebbero esserci, ad esempio, dei team di partiti politici molto abili a gestire e a condizionare emotivamente le persone sfruttando un virtual influencer, magari dall’aspetto estetico particolarmente attraente. E questo ovviamente è un pericolo enorme che va monitorato e va assolutamente impedito»