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Ritrovare se stessi: la disconnessione digitale come resistenza

Articolo. La fuga dal sovraccarico informativo e la ricerca di consapevolezza stanno ridefinendo il nostro rapporto con la rete. Si fa strada tra gli utenti il bisogno di ritrovare tempo per sé e un uso più intenzionale della tecnologia.

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Qualche giorno fa, mentre (manco a farlo apposta) scrollavo il feed di Instagram, mi sono imbattuta nella video-intervista di un ragazzo che raccontava di aver scelto di vivere “esclusivamente offline”. In pratica raccontava la sua scelta di cancellarsi da tutti i social, utilizzare un telefono di vecchia generazione che permette di effettuare chiamate e mandare messaggi e andare a vivere in una casa in montagna dalla sua compagna.

Nei giorni successivi, sempre su Instagram, sono incappata in un annuncio pubblicitario di un sito francese che mi invitava a fare il test della dopamina. L’ho iniziato per curiosità a compilare: il questionario a risposta multipla chiedeva con quanta facilità tendo a distrarmi, quanto è alta la mia tendenza a procrastinare, ecc. Non ho terminato la compilazione per pigrizia e perché sapevo che si sarebbe concluso con un invito all’azione che nel migliore dei casi avrebbe comportato una richiesta di contatto o di rilascio dei miei dati personali.

Una vita di ottant’anni con 46 ore di felicità

Mi sono chiesta però cosa significa “vivere online” e mi è tornato in mente un passaggio del libro «Solo bagaglio a mano» di Gabriele Romagnoli che ho letto di recente: «Intervistando 100 uomini che hanno vissuto fino all’età di ottant’anni, è emerso che hanno in media così speso la loro vita: 23 anni a dormire, 6 a bere e mangiare, 20 a lavorare, altri 5 aspettando un appuntamento, 4 a pensare, 226 giorni a lavarsi la faccia e i denti, 26 giocando con i figli, 18 a farsi il nodo alla cravatta e 46 ore di felicità. [..]. Una vita: 46 ore di felicità».

Il rapporto “Digital 2024” di We Are Social ha documentato che l’utente medio di Internet trascorre attualmente 6 ore e 40 minuti al giorno online.

Siamo immersi in un’epoca caratterizzata da una sovrabbondanza di stimoli: notifiche incessanti, feed che si aggiornano senza sosta e una valanga quotidiana di contenuti digitali che competono per la nostra attenzione. Questo ecosistema informativo non solo plasma il nostro modo di comunicare, ma incide profondamente anche sui nostri stati mentali ed emotivi.

Disconnessione digitale per fuggire da una soddisfazione effimera dei bisogni primari

Un numero crescente di persone sta reagendo a questa sovrastimolazione adottando pratiche di disconnessione digitale, manifestazioni di un desiderio collettivo di ritrovare una forma di equilibrio. Ma non solo. I social network non sono soltanto strumenti tecnologici, ma vere e proprie architetture sociali che soddisfano bisogni umani fondamentali. Nell’universo teorico del sociologo Zygmunt Bauman, queste piattaforme incarnano la logica della “società liquida”, offrendo connessioni rapide e fugaci che riflettono le dinamiche dell’era moderna.

Da un lato, i social rispondono al desiderio di appartenenza, permettendo agli utenti di costruire e mantenere reti sociali anche a distanza. Dall’altro, essi sfruttano il bisogno di riconoscimento, incentivando comportamenti orientati alla ricerca di approvazione attraverso like, commenti e condivisioni.

Chiamando in causa anche Pierre Bourdieu, i social media rappresentano a tutti gli effetti un’estensione del “capitale sociale”, una forma di risorsa che gli individui accumulano attraverso relazioni e connessioni. Questa dinamica, tuttavia, può trasformare in una competizione la definizione del proprio status all’interno dell’on-life, alimentata dalla visibilità e dalle performance online.

Sherry Turkle, esperta di psicologia e tecnologia, evidenzia come i social media creino un’illusione di intimità che può rivelarsi vuota nel lungo termine, mentre Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano, critica la “società della trasparenza” che questi strumenti promuovono, sottolineando come l’esposizione costante di sé possa erodere la profondità delle relazioni umane.

La progettazione di queste piattaforme si basa su algoritmi che ottimizzano il coinvolgimento, alimentando un ciclo di gratificazione intermittente che cattura e trattiene l’attenzione degli utenti. Ecco perché non c’è da stupirsi se, quando decido di scrivere un articolo sul digiuno da dopamina e cerco notizie su Google per documentarmi, “magicamente” mi compaiono degli annunci pubblicitari sui social che mi invitano a saperne di più.

Questa gamification del comportamento sociale, come sottolineato da Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, mina la capacità degli utenti di esercitare un controllo autentico sulle proprie scelte, trasformando ogni interazione in un’opportunità di monetizzazione per le piattaforme, di cui per fortuna però gli utenti stanno diventando sempre più consapevoli.

L’ascesa del dopamine fasting

Secondo Google Trends, l’interesse per il termine dopamine fasting (digiuno dalla dopamina, sganciando il cervello dalla sovrastimolazione) è aumentato di sei volte nel 2024. Il concetto di “digiuno dopaminergico” è nato negli Stati Uniti grazie al contributo dello psichiatra Cameron Sepah, che lo ha introdotto come tecnica basata sulla terapia cognitivo-comportamentale per affrontare comportamenti compulsivi legati a dipendenze. Tuttavia, nel corso del tempo, questa teoria ha subito interpretazioni distorte che hanno portato alla diffusione di pratiche discutibili. L’idea iniziale era semplice: limitare comportamenti dannosi per ritrovare un equilibrio nella propria vita.

Nonostante i presupposti scientifici, il concetto è stato rapidamente travisato. Alcuni hanno interpretato il dopamine fasting come una necessità di disintossicarsi dalla dopamina, una visione non solo erronea, ma anche pericolosa. La dopamina, infatti, è un neurotrasmettitore essenziale per il nostro organismo, coinvolto in processi vitali come la regolazione dell’umore, del sonno e della sensazione di piacere. Ne abbiamo parlato in una puntata precedente.

ll dopamine fasting è più che altro da intendersi come un fenomeno culturale. Molti neuroscienziati criticano l’utilizzo improprio della terminologia medica, evidenziando che il nostro cervello non funziona come un serbatoio di dopamina che si esaurisce o si ricarica. Tuttavia, al di là delle controversie scientifiche, è innegabile che questa tendenza rifletta un bisogno reale: quello di sottrarsi alla pressione incessante della stimolazione digitale.

L’impatto psicologico del sovraccarico informativo

Gli effetti del sovraccarico informativo sulla salute mentale sono ben documentati. Ricerche dimostrano che un’esposizione continua a stimoli digitali può aumentare i livelli di stress, ridurre la capacità di concentrazione e contribuire a disturbi come l’ansia e l’insonnia. Il fenomeno è amplificato dai social network, progettati per mantenere gli utenti connessi il più a lungo possibile grazie a meccanismi come lo scrolling infinito e le notifiche push.

Questa dipendenza da stimoli immediati è strettamente correlata alla cosiddetta “economia dell’attenzione”. Poiché le persone possono prestare attenzione a un solo contenuto alla volta, si è sviluppata una “battaglia” per catturare il nostro tempo. In questo contesto, il dopamine fasting emerge come una forma di resistenza personale, un tentativo di reclamare il controllo sulla propria attenzione e riscoprire il valore del tempo non mediato dalla tecnologia.

Un segnale di questa disconnessione è evidente anche nell’aumento del numero di persone che scelgono di cancellare o sospendere i propri account social. Su piattaforme come Reddit, thread dedicati al tema della “disintossicazione digitale” raccolgono migliaia di testimonianze di utenti che raccontano la loro esperienza. Alcuni riferiscono un senso immediato di sollievo e una maggiore qualità della vita, mentre altri sottolineano le difficoltà iniziali di adattamento, come la sensazione di isolamento o il timore di perdere opportunità sociali e professionali.

Tuttavia, è importante sottolineare che la semplice eliminazione dei social non è una panacea. Piuttosto, è uno strumento che, se usato consapevolmente, può facilitare un processo di riflessione più ampio sul rapporto con la tecnologia.

Numerose celebrità hanno scelto di abbandonare i social media, contribuendo a normalizzare l’idea che disconnettersi sia non solo accettabile, ma anche auspicabile. Ad esempio, l’attore britannico Tom Holland ha definito i social media «sovrastimolanti e soffocanti», decidendo di prendersi una pausa per tutelare la propria salute mentale. Analogamente, la modella Gigi Hadid ha lasciato X (precedentemente Twitter), definendolo un «pozzo nero di odio e bigottismo». Anche l’attrice Whoopi Goldberg ha abbandonato la piattaforma, affermando che era diventata troppo tossica per lei.

Una delle risposte a questa necessità di disconnessione è rappresentata dall’innovazione tecnologica stessa. Ad esempio, alcune applicazioni stanno cercando di ridefinire il modo in cui interagiamo con i social. Una delle più emblematiche è Hinge, un’app di dating progettata per cancellarsi da sola una volta che l’utente ha trovato una relazione soddisfacente, incoraggiando così connessioni autentiche piuttosto che interazioni superficiali. Questo approccio rispecchia un cambiamento culturale che punta a valorizzare la qualità delle relazioni, anziché la quantità.

Anche i giganti dei social network stanno cercando di adattarsi a questa tendenza. Instagram, per esempio, ha recentemente introdotto la possibilità di programmare i messaggi, una funzione che consente agli utenti di pianificare le proprie interazioni in modo più organizzato, riducendo il bisogno di essere costantemente connessi. Questi cambiamenti, sebbene piccoli, indicano una crescente consapevolezza della necessità di bilanciare il coinvolgimento con il benessere degli utenti. Se è vero che il dopamine fasting e la disintossicazione digitale sono reazioni a un problema sistemico, è altrettanto vero che affrontare il sovraccarico informativo richiede cambiamenti a livello individuale e collettivo.

Il successo del dopamine fasting e di pratiche simili, non risiede, quindi, tanto nella loro efficacia scientifica quanto nella loro capacità di rispondere a una domanda fondamentale: come possiamo vivere in modo più intenzionale e autentico in un’epoca dominata dalla tecnologia? La risposta, forse, non è nella fuga totale, ma in una relazione più equilibrata con gli strumenti digitali, in cui il controllo torni a essere nelle mani degli utenti.

In un certo senso, la disconnessione non è solo una pausa, ma un invito a ripensare radicalmente il nostro modo di vivere e interagire nel e con il mondo digitale. E, a giudicare dalla crescente popolarità di queste tendenze, è una riflessione che molti sono pronti ad abbracciare.

Dunque, disconnettersi o restare?

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