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René Giavazzi, il videogame designer è chi «non ha mai smesso di inventare giochi»

Intervista. Tra immaginazione e senso pratico, il compito del videogame designer è quello di costruire il mondo in cui andranno a immergersi i videogiocatori. René Giavazzi, videogame designer bergamasco, ci ha spiegato questa professione

Lettura 4 min.

Pad alla mano, console accesa, inizia la partita. Il nostro eroe deve salvare la principessa dalle grinfie di un drago malvagio e dai suoi sgherri, che potranno essere sconfitti solo saltando sulle loro teste. Nel corso dell’avventura, oggetti magici ci renderanno invulnerabili per qualche secondo o in grado di rompere muri altrimenti invalicabili. Una struttura narrativa abbastanza nota nel mondo videoludico, che al suo interno comprende già alcune delle regole base che il giocatore si troverà ad affrontare, tra cui il metodo con cui sconfiggere i nemici, la ricerca di power up o collezionabili per ottenere nuove abilità. A occuparsi di creare e bilanciare tutti questi elementi è la figura del «videogame designer», uno dei ruoli chiave dello sviluppo videoludico.

Per capire meglio le dinamiche di questa professione abbiamo fatto due chiacchiere con René Giavazzi, videogame designer di origini bergamasche attualmente in forza a Milestone, azienda videoludica italiana e uno dei punti di riferimento a livello internazionale nel mercato dei racing game.

GT: Quale è stato il tuo percorso di studi per diventare videogame designer?

RG: Ho frequentato il liceo artistico a Bergamo, la facoltà di Informatica musicale alla triennale in Statale a Milano e poi la magistrale in Informatica, sempre alla Statale di Milano. Sono tre percorsi che possono sembrare molto diversi tra di loro e poco legati a quello che è il mondo videoludico, con il liceo artistico legato al lato pittorico e scultoreo, l’informatica musicale legata ovviamente al mondo della musica e poi la magistrale in informatica che tratta sistemi informatici ad ampio spettro. In realtà, la cosa positiva che ho trovato è che queste tre realtà mi hanno aiutato molto a formare la mia mente da game designer, proprio perché materie così diverse fra di loro vanno a rappresentare quello che è effettivamente un videogioco, cioè la via di mezzo tra una forma d’arte e un’opera ingegneristica.

GT: Come descriveresti il tuo lavoro?

RG: Allora, parlare di game design al di fuori della classica definizione di «ideazione di regolamenti e meccaniche di gioco» è molto complesso: si potrebbe parlare per ore. Prendendola in maniera filosofica, potrei dirti che in realtà quando siamo bambini tutti noi siamo game designer, perché la prima cosa che fa un bambino piccolo quando prende in mano un qualsiasi oggetto è inventarsi un gioco. Il ruolo del game designer non è altro che non smettere mai di inventare giochi, cosa che invece crescendo tendiamo a smettere di fare. Di solito il giocare e il creare vengono visti come una cosa estranea all’immagine di adulto, ma anche al di fuori del mio ambito lavorativo è proprio questo atteggiamento nei confronti del gioco a permettere di mantenere quella creatività e quel pensiero laterale che è sempre utile. Nel caso della mia professione, permette di guardare le cose da un punto di vista diverso, strano, divertente, assurdo, per riuscire a creare un’esperienza con delle regole e poi generare emozione in chi gioca.

GT: Come ti sei appassionato ai videogiochi?

RG: Gioco fin da bambino per merito di Tetris, perché è stato il mio primissimo videogioco. Molto semplice e di concetto, mi ha portato alla passione per il gaming e al voler migliorare il mio punteggio e la mia tecnica di gioco. Tetris è una sfida con te stesso e, esattamente al pari dei cabinati da sala giochi, ti mette alla prova. Io poi sono passato alle home console con il Sega Master System 2, fin dagli anni 80 e inizio degli anni 90. Da qui si riesce a intuire più o meno quanti anni ho, anche se non te lo dirò mai (ride, ndr)… Su quella console ho passato le mie prime serate, pomeriggi – anche nottate in realtà – seduto per terra insieme a mio fratello minore, entrambi a gambe incrociate davanti al tubo catodico, come le scene classiche che si vedono nel film. Ricordo che mi piaceva passare la mano sullo schermo per sentire il suono causato dalla carica elettrostatica. Forse mi sono rovinato la vista, chi lo sa. Questo è stato il mio inizio, poi sono passato da tutte le varie generazioni degli anni 90, dal Sega Saturn, tutte le Playstation e così via fino a oggi.

GT: Come vedi oggi il tuo lavoro per i giovani che vi si stanno approcciando? Ci sono delle differenze rispetto a quando hai cominciato tu?

RG: Negli ultimi anni sono cambiate molte cose, a cominciare dall’istruzione dei game designer stessi, poiché sono nate tante accademie che formano gli studenti appositamente per diventare dei game designer o dei game programmer, ovvero le due figure che solitamente sono centrali nella creazione e nello sviluppo del videogioco e su cui si basano i vari game artist, audio e tutte le altre figure che collaborano allo sviluppo. Dal canto mio, credo che la mia formazione mi aiuti maggiormente proprio nel contatto con i game artist legati al lato grafico e sonoro, appunto perché conosco già il loro lavoro e posso intuirne le problematiche, però ciò non toglie che tutte queste scuole, almeno secondo me, stiano formando ottimi game designer. Rispetto al passato ci si sta finalmente accorgendo che questo lavoro esiste e che può dare da mangiare, anche se in Italia è ancora un lavoro che fanno in pochi…

GT: Che consiglio daresti a una ragazza o a un ragazzo desideroso di cominciare questa carriera?

RG: Dipende dal livello da cui parte. Mettendo che la persona in questione parta da zero e non sappia assolutamente nulla di videogiochi, ma volesse fare il videogame designer, la cosa indispensabile è giocare tanto e a tanti generi diversi, cercando di farlo con un occhio critico. Anche quando ci si approccia a un gioco già conosciuto per rigiocarlo per l’ennesima volta, è importantissimo cercare di guardarlo “smontandolo”, cercando di capire perché è stata fatta una determinata scelta, perché sconfiggere un dato “boss” dà un determinato premio invece di un altro. Insomma, l’obiettivo è cercare di capire la motivazione dietro alle scelte fatte dagli sviluppatori. Questo è quello che succede anche quando uno vuole imparare a fare film e comincia a guardare tanti film pensando a quali trame sono state usate e perché i personaggi si comportano in un determinato modo. Con il passare del tempo, verrà naturale appassionarsi ad ambiti specifici come la programmazione, il design dei personaggi, le trame, l’aspetto estetico o l’intelligenza artificiale e, da questo punto in poi, poco alla volta si può cominciare una vera formazione presso una scuola o una prima produzione amatoriale. Per fortuna, oggi programmi dedicati alla creazione di videogiochi come Unity, Unreal Engine e mille altri sono molto economici, se non addirittura gratuiti. Basta avere tanta curiosità.

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