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Meta ha limitato la visibilità dei contenuti politici: siamo davvero vittime inconsapevoli?

Articolo. Dallo scorso aprile è arrivata anche in Italia la decisione del colosso di limitare la visibilità delle storie e dei Reel a sfondo politico e sociale. Alcuni creator e testate giornalistiche hanno denunciato questa decisione come una forma di censura. Ma cosa cambia realmente?

Lettura 4 min.

Partiamo dalle basi. Instagram ha diverse sezioni progettate per aiutare gli utenti a scoprire nuovi contenuti e profili. Le due sezioni principali oltre al «Feed» sono «Esplora» e «Reels». La prima è un’area dove gli utenti possono scoprire nuovi contenuti e profili al di fuori della loro cerchia di seguaci, mentre la seconda è dedicata ai video brevi, simile a TikTok. Gli utenti possono creare e condividere clip video di breve durata, arricchiti con musica ed effetti speciali. Il «Feed» principale combina i contenuti dei profili seguiti con quelli suggeriti da Instagram.

Dal 28 aprile, i post a tema politico-sociale non sono più promossi in «Esplora», «Reels e nei suggerimenti del «Feed». Continuano ad apparire nel «Feed» principale solo se provenienti da profili seguiti, ma con una visibilità ridotta. Gli algoritmi di ranking, che determinano l’ordine di apparizione dei post nel «Feed» in base al numero di «Mi Piace» e alle interazioni, limitano ulteriormente la visibilità di questi post. Questo cambiamento, di fatto, non impedisce a partiti, leader o giornali di pubblicare notizie, ma ne restringe la distribuzione ai soli follower, riducendo la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio.

Parliamo di una modifica introdotta senza il consenso esplicito degli utenti, né una notifica preventiva, cosa che solleva interrogativi sulla trasparenza e sull’autonomia degli utenti nell’uso delle piattaforme social. La scelta è comunque reversibile, in quanto è possibile annullare il provvedimento dalle impostazioni della piattaforma. Ma si tratta davvero di una minaccia al pluralismo dell’informazione?

I social non sono democratici

Innanzitutto, consideriamo il fatto che i social network non sono spazi democratici di espressione per gli utenti, ma piattaforme il cui funzionamento è disciplinato da precise norme e retto da società con interessi milionari, la cui principale fonte di guadagno sono i nostri dati e le inserzioni. A conferma di ciò, vi è la decisione del CEO di Meta di cambiarne la policy: Instagram, Threads e anche Facebook non sono più luoghi in cui fare informazione.

Spesso, sia Instagram che Facebook introducono delle modifiche alle funzionalità e all’interfaccia senza chiederci il permesso: quando accettiamo i termini e le condizioni della piattaforma, infatti, accettiamo anche che alcune decisioni vengano prese senza consenso esplicito, qualora queste si rendano necessarie per l’esecuzione del contratto tra l’utente e l’azienda. Gli aggiornamenti alla piattaforma e l’aggiunta di nuove funzionalità possono dunque essere considerati parte del servizio offerto. Pensiamo per esempio alla necessità per i social di Meta di introdurre nel feed la predominanza di contenuti video da scrollare per stare al passo con TikTok.

In questi ultimi giorni, sta facendo discutere la decisione di Meta di utilizzare i dati personali degli utenti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale senza ottenere il consenso esplicito. La nuova politica di privacy di Meta, che entrerà in vigore il 26 giugno, permetterà all’azienda di utilizzare le foto e le didascalie pubbliche degli utenti. Fortunatamente in Italia grazie al Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) dell’Unione Europea è possibile opporsi compilando un apposito modulo.

Ma perché Meta può prendere decisioni senza il nostro consenso, quando entra in gioco una materia complessa come la privacy? In alcuni casi, le aziende possono trattare anche i dati personali senza una manifestazione consensuale degli utenti, invocando l’interesse legittimo, come previsto dal GDPR. Queste attività includono il miglioramento della sicurezza, l’analisi delle prestazioni della piattaforma, o altre attività che possono essere giustificate come benefiche sia per l’utente che per l’azienda. Si dà il caso che l’implementazione di sistemi di intelligenza artificiale sui social rientri proprio tra queste ultime.

Cosa facciamo per informarci?

Probabilmente il principale aspetto su cui riflettere riguarda il fatto che le piattaforme social sono una fonte di informazione passiva. La maggior parte del tempo che trascorriamo sui social non cerchiamo attivamente le notizie o le informazioni, ma riceviamo i contenuti selezionati dagli algoritmi delle piattaforme. Gli algoritmi analizzano il comportamento online, come i «Mi piace», le condivisioni, i commenti e il tempo trascorso su determinati contenuti, per decidere cosa mostrare nei «Feed».

Uno degli effetti collaterali della passività è la creazione di bolle informative. Il rischio, cioè, è quello di imbattersi sempre in contenuti simili a quelli con cui l’utente ha già interagito, cosa che limita l’esposizione a opinioni diverse e rafforza le convinzioni esistenti. Se un utente è interessato a temi ambientali, per esempio, e interagisce spesso con contenuti su questo argomento, l’algoritmo di un social network come Instagram mostrerà automaticamente più post, articoli e video relativi all’ambiente nel suo «Feed», senza che l’utente debba cercarli attivamente. Di conseguenza, l’utente riceve un flusso continuo di informazioni rilevanti ai suoi interessi, ma potrebbe non venire esposto a notizie su altri argomenti importanti.

Ciò sembra essere in contrasto con il Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea che ha riconosciuto l’importanza dei social nell’ecosistema informativo contemporaneo, ponendo l’accento su come piattaforme quali Instagram, Facebook e Twitter influenzino profondamente la sicurezza online, la formazione del dibattito pubblico e l’opinione pubblica.

Anche la politica è diventata pop

Quello che è certo è che i nuovi media hanno rivoluzionato l’accesso all’informazione politica e la partecipazione attiva dei cittadini. Le persone hanno oggi accesso a una gamma sempre più ampia e variegata di opzioni di intrattenimento e informazione, sia tramite la televisione tradizionale che attraverso piattaforme digitale. Questi mutamenti hanno influenzato le modalità di condurre le campagne elettorali.

Durante le campagne elettorali, come abbiamo appena visto in questi giorni di elezioni Europee e Amministrative, Internet consente ai candidati di bypassare i media tradizionali e di inviare messaggi direttamente al pubblico senza l’intermediazione dei giornalisti. I leader dei principali partiti politici hanno iniziato a postare video su TikTok per comunicare coi giovani. Ciò che si crea è una sorta di “campagna permanente”, ovvero una comunicazione caratterizzata dall’incessante sforzo di conquistare il consenso dell’elettorato, un’attività ormai quotidiana che non si limita più alle settimane precedenti le elezioni.

Ecco perché Meta è corsa ai ripari. È molto più facile puntare sull’intrattenimento che esporsi al rischio di diffusione di fake news o di manipolazione dei dati degli utenti per condizionare le elezioni.

In questo contesto emerge una nuova dinamica nel rapporto tra politica e comunicazione: i politici sono spinti a comunicare in modo più accessibile e coinvolgente, adattandosi alle preferenze e agli interessi della cultura popolare. Il confine sempre più sfumato tra politica e cultura popolare – come dimostrano la proliferazione di formati come l’infotainment e il politainment e il ruolo sempre più centrale delle emozioni – ha conseguenze significative sul modo in cui la politica viene percepita, discussa e partecipata nella società contemporanea. Non a caso, proprio alle Europee nei giorni scorsi è stato eletto Fidias Panayotou , ventitreenne di Cipro che di professione fa lo YouTuber (al suo canale sono iscritti 2,2 milioni di utenti). La notizia è che si è candidato qualche mese fa senza un programma chiaro, senza aver mai votato, postando solo contenuti che hanno a che fare con imprese strane, per esempio ammanettarsi insieme a cento sconosciuti.

Sì, da un lato le limitazioni ai contenuti politici potrebbero contrastare col pluralismo dell’informazione. Forse, però, la domanda principale che dovremmo porci è: sono più le informazioni nelle quali ci imbattiamo “per caso” o quelle che cerchiamo attivamente?

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