Ve li ricordate i televisori 3D? Qualche anno fa, sull’onda del successo di «Avatar» e con l’arrivo di nuove tecnologie dedicate, sembrava che di lì a poco tutti avremmo visto i film nei nostri salotti indossando occhiali con lenti polarizzate. Vennero anche prodotti schermi per computer e portatili che supportavano questa tecnologia. Sembrava di trovarsi di fronte al nuovo grande passo avanti nel mondo dell’intrattenimento casalingo.
E poi? Ci siamo resi conto che tutto sommato passare il tempo deputato al nostro relax indossando scomodi occhiali non ci interessava più di tanto, che questo sbandierato 3D aggiungeva poco o niente alla visione, anche perché non molti film sfruttavano bene questa possibilità (di James Cameron ce n’è uno) e che succede se hai un nucleo familiare numeroso o ospiti a casa? Mica puoi tenere pronti sei o sette occhiali 3D, con quello che costano. Oggi nessuno ne parla più. Perché non è sempre detto che un avanzamento tecnologico sia poi effettivamente parte di un vero e proprio progresso e diventi effettivamente qualcosa che poi utilizziamo.
E questo ci porta al Metaverso
Negli ultimi mesi, soprattutto da quando Mark Zuckerberg ha annunciato la nascita di Meta e ha definito quella che sarebbe stata la strategia a lungo termine della sua compagnia, la parola metaverso è entrata di prepotenza nelle discussioni e nei comunicati stampa, spesso a sproposito e per definire progetti che non hanno niente a che fare con questo concetto. Per molti quella di Zuckerber è stata una mossa pensata soprattutto per distogliere l’attenzione dai problemi di Facebook, sia quelli legati alla privacy sia alla progressiva emorragia di utenti che si allontanano da una piattaforma percepita soprattutto come catalizzatore di cattiverie. Da questo punto di vista si può dire che la mossa ha funzionato, almeno finché le notizie delle migliaia persone licenziate in queste ore da Meta non occupato nuovamente le prime pagine.
Ma torniamo al Metaverso. La parola nasce nel 1992 grazie a Neal Stephenson che la utilizza in «Snow Crash». Un libro che attinge dalla corrente letteraria del cyberpunk, per raccontare un mondo in cui gli Stati Uniti sono stati smembrati da una economia capitalistica che ha trasformato il territorio in una sorta di agglomerato di franchise, in cui anche la mafia è diventata una multinazionale. In questo mondo asservito al denaro il Metaverso è uno spazio virtuale tridimensionale in cui si può camminare liberamente, una sorta di realtà alternativa in cui i poveri accedono da terminali pubblici e hanno avatar poco definiti mentre i ricchi possono contare su modelli dettagliati e hanno accesso a club esclusivi.
A ben guardare, il fatto che si sia scelto di prendere la definizione di un romanzo cyberpunk in cui il metaverso è l’ennesimo spazio di oppressione e disuguaglianza sociale doveva farci capire che il concetto non partiva con i migliori auspici.
Col tempo la parola è stata sporadicamente utilizzata per definire alcune realtà prevalentemente legate al mondo dei videogiochi, come «World of Warcraft» e altri giochi di ruolo online, o a «Second Life», forse il più famoso tentativo di metaverso, che ebbe un boom di attenzioni e investimenti nella prima metà degli anni 2000. Qualcuno forse si ricorda il video della canzone di Irene Grandi «Bruci la città» interamente girato su «Second Life», un altro brano di Paola e Chiara ma soprattutto Di Pietro che si compra un’isola virtuale e ci fa una conferenza virtuale per poi abbandonare tutto dopo poco tempo. Superata la fiammata di notorietà «Second Life» non è morto, vivacchia ancora grazie a uno zoccolo duro di utenti e gente che costruisce oggetti e case virtuali. Parliamo di circa 200.000 utenti giornalieri di media e un giro di affari per chi ci lavora di 80 milioni di dollari l’anno. Tutto questo senza grandi proclami, senza comunicati stampa e senza aziende famose che annunciano di investirci.
Ma torniamo, di nuovo, al Metaverso. Dopo l’annuncio di Zuckerberg la parola è esplosa, chiunque avesse in qualche modo a che fare con il mondo della tecnologia o se la ritrovava in tutti i comunicati stampa o doveva in qualche modo averci a che fare per catturare l’attenzione di potenziali investitori e curiosi. Persone che fino al giorno prima avevano rudimenti di sviluppo e modellazione 3D improvvisamente si facevano chiamare «architetti del metaverso», improvvisamente tutti sembravano pronti a farci un sacco di soldi, grazie anche alla conseguente ascesa del concetto di NFT, ovvero l’utilizzo della blockchain per stabilire la proprietà di oggetti virtuali come immagini, modelli 3D o appezzamenti di terreno immaginario (su Eppen abbiamo raccontato la storia di Carlo Capitanio).
Per mesi abbiamo visto aziende investirci, celebrità annunciare di essere pronte a «entrare nel metaverso», qualsiasi cosa volesse dire, con i loro avatar e le loro esperienze. Milioni di dollari spesi per creare dal nulla un interesse e un fascino verso realtà come «Decentraland», «The Sandbox», «Horizon Worlds» e il risultato finale è che… il metaverso per ora non interessa a nessuno.
Nelle ultime settimane sono emersi documenti classificati del Wall Street Journal secondo cui gli spazi virtuali di Zuckerberg sono per lo più mondi vuoti in cui le persone non tornano dopo aver dato un’occhiata e dove persino i dipendenti non vanno volentieri. E dove sicuramente non andranno tutte le persone che Facebook ha licenziato in queste ore, magari anche per contenere i soldi, parliamo di circa 40 milioni di dollari, investiti in questa nuova utopia.
Qualche settimana prima a finire sotto analisi è stata l’utenza di «Decentraland». Da una parte i dati dell’aggregatore «DappRadar» parlavano di 38 utenti attivi giornalieri, con picchi di 675 persone, che nel caso di «The Sandbox» diventavano circa quattromila. I gestori della piattaforma hanno ribattuto sostenendo che i dati fossero sbagliati, che in verità la popolazione media di «Decentraland» fosse di 8000 utenti attivi al giorno, ma il problema è che anche se fosse vero l’ultimo dato saremmo comunque di fronte a un pubblico molto piccolo. Per capire la differenza Facebook è visitato ogni giorno da poco meno di tre miliardi di utenti, per tacere delle 200.000 persone che ancora visitano «Second Life».
Come mai ci troviamo in questa situazione nonostante i soldi spesi?
La risposta più semplice è che i soldi non portano automaticamente pubblico , soprattutto se non c’è il contenuto. Posso spendere tutti i soldi che vogliono pubblicizzando il mio spettacolo ma se riempio una sala e lo show non vale la pena difficilmente arriveranno altre persone. Allo stato attuale le esperienze offerte dal metaverso sono assolutamente inconsistenti. Spesso si tratta semplicemente di passeggiare in una specie di centro commerciale virtuale con una grafica degna di un gioco di dieci anni fa.
Perché dovrei stare là dentro se un qualsiasi gioco online e non mi offre esperienze più esaltanti? Anche se volessi creare dei videogiochi o esperienze online potrei farlo su «Roblox», senza spendere un euro (e infatti «Roblox», se vogliamo includerlo nei metaversi, è una realtà che funziona).
Poi c’è la questione tecnologica, ovvero l’accesso al metaverso. Per molte persone non è semplicissimo capire come fare per provare le esperienze più semplici, figuriamoci spendere dei soldi in un costoso visore per la realtà virtuale. È un po’ lo stesso problema che per anni hanno avuto, e a volte continuano ad avere, i videogiochi, che infatti sono esplosi definitivamente come mercato quando sono arrivati sugli smartphone.
Infine, dobbiamo tenere di conto dell’usabilità. Il Metaverso si basa su un’IDA (Internet Download Accelerator) di internet e connessione che mutuiamo dagli immaginari cyberpunk alla Gibson o «Il Tagliaerbe», uno spazio in cui non visitiamo Amazon ma entriamo in un negozio virtuale per fare acquisti, oppure guardiamo un trailer in un cinema virtuale. È una prospettiva affascinante ma la realtà dei fatti è che tutto questo dopo un po’ ci stanca, è macchinoso, e decisamente meno efficiente rispetto a cliccare su un trailer di YouTube o visitare Amazon.
Il metaverso viene visto come un modo per rincorrere la nuova utenza e tutto quel pubblico che non è attratto a Facebook, alla televisione e ai media tradizionali. Ma quel pubblico a oggi non sembra in alcun modo interessato a un progetto creato a tavolino da speculatori e multinazionali, che oltretutto pare avere un impatto ambientale abbastanza evidente, in cui non c’è niente di interessante se non grafica vetusta e scarsità di contenuto. Verso il Metaverso, in particolare quello di Zuckerberg, c’è stato fin da subito un misto di repulsione e presa in giro, una sorta di rigetto post-capitalista. In fondo perché credere ancora a chi non era stato in grado di salvaguardare i nostri dati e ci aveva reso tutti più aggressivi online?
Vuol dire che il Metaverso è un totale fallimento? No, anche perché a tendere è molto probabile che la contaminazione tra la nostra realtà e quella aumentata o virtuale abbia luogo. Manca però quella singolarità che ha generato il boom degli smartphone dopo l’iPhone: tecnologie al giusto prezzo, facili e comode da usare che cambiano repentinamente il paradigma comunicativo. In questo momento il concetto di metaverso è troppo avanti, troppo lontano, è come cercare di vendere un gioco di ruolo online negli anni ’70, con quel tipo di rete e di tecnologie.
Pensiamo alla realtà virtuale, che arrivò alla fine degli anni ’90 sull’onda dei movimenti post cyberpunk e fallì miseramente perché i concetti erano troppo avanti per la tecnologia, col Metaverso sta succedendo esattamente la stessa cosa e non importa quanti miliardi le multinazionali siano disposti a bruciare o a regalare a chi, in questo momento, sta capitalizzando su una parola priva di contenuti.
Quindi sì, oggi nel metaverso non c’è nessuno, ma solo perché la speculazione è arrivata prima del contenuto, a differenza dei social network, dove il contenuto ce l’abbiamo messo noi, gratis, e i soldi sono arrivati dopo.