Avrete sicuramente letto in questi giorni della studentessa statunitense di giornalismo che è andata a Firenze ed è rimasta delusissima sia dal rapporto con le sue coinquiline, sia dal fatto di non ritrovarsi immersa in una sorta di remake di «Mangia, Prega, Ama» in cui affascinanti ragazzi italiani la chiamano «bella» mentre passa per strada, le vecchiette cucinano benissimo mentre dispensano perle di saggezza, ci si muove tutti in Vespa e la gente trascorre le giornate a discutere sulla qualità del prosciutto mentre sorseggia del vino.
“Dribblando” senza pietà le discussioni sul fatto che questa lamentela sia stata pubblicata sulle pagine di una testata come Insider, sulle capacità di analisi di una persona che pensa di provocare reazioni aggressive negli italiani indossando Nike e felpe oversize o sulla trasformazione di Firenze in una città vetrina a quasi esclusivo uso e consumo dei turisti in cui i fiorentini devono fare i figuranti per attirare altri soldi, c’è secondo me un tema interessante in questa storia. Un tema che in qualche modo si lega alla vicenda, altrettanto assurda ed esilarante, della famiglia finlandese che dopo essere arrivata in Sicilia attratta dal clima e dal patrimonio culturale ha fatto armi e bagagli ed è tornata indietro. Questo forse dice qualcosa su quanto dovremmo cercare di adeguarci a standard educativi migliori, ma anche sulla percezione fallata che internet, la cultura pop e i social network hanno fornito dell’Italia.
Fa strano anche pensare che l’Italia, in un’epoca dove si presta grandissima attenzione a come le varie culture vengono rappresentate, onde evitare di offenderne i valori e le usanze, sia ancora mostrata come una specie di presepe, un tableau vivant fatto dei soliti stereotipi che ci portiamo dietro da «La Dolce Vita» e «Vacanze Romane». Per vedere a che punto siamo perdete qualche minuto del vostro tempo per guardare «Love in the villa», film di Netflix. La stessa Netflix attentissima a creare prodotti che siano inclusivi e privi di rozzi luoghi comuni dipinge Verona come un luogo assurdo, chiassoso, pieno di gente che gesticola, urla, mangia, al limite del “mafia-pizza-mandolino” con cui gli italiani sono stati etichettati per anni.
Ma cosa c’entra questo con uno spazio che parla di tecnologia? Ci arriviamo. Perché alla fine tecnologia e società sono due mondi profondamente connessi. Lo sono sempre stati e lo sono ancora di più oggi che la tecnologia è nelle nostre tasche, costantemente collegata ai nostri interessi, ai nostri, bisogni, alle ansie e a ciò che vediamo del mondo.
Salute mentale e utilizzo degli smartphone
È notizia di queste settimane che il Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti ha pubblicato un sondaggio che fatto tornare al centro il tema della salute mentale dei più giovani e l’utilizzo degli smartphone. Questo sondaggio ha confermato un peggioramento delle condizioni mentali degli adolescenti che era già stato indicato in altri studi e che riguarda coloro che hanno frequentato le scuole superiori nel periodo tra il 2011 e il 2021.
La correlazione tra smartphone e salute mentale non è un legame facile da provare. È un dibattito che va avanti da anni con estrema cautela, perché la salute mentale è un tema complesso, legato a tantissimi fattori ambientali e sociali che non possono essere ridotti all’uso degli smartphone . Uno dei problemi principali di queste ricerche è che oggi è praticamente impossibile trovare qualcuno che faccia da gruppo di controllo, ovvero che non abbia mai usato uno smartphone.
Inoltre, non possiamo non tenere in conto anche la possibilità che oggi abbiamo consapevolezza del fenomeno soprattutto perché nei più giovani è molto più forte rispetto al passato l’idea che sia assolutamente normale parlare dei propri problemi.
Tuttavia, anche se non escludiamo gli altri fattori, sono molti gli studi attendibili che individuano negli smartphone – anche se sarebbe forse più corretto dire nell’utilizzo dei social network e di internet attraverso gli smartphone – una variabile importante per la nostra salute mentale.
Quel che è certo è che gli smartphone, quando hanno cessato di essere uno status symbol per ricchi, in questi anni si sono diffusi molto di più tra le persone giovani e solo in un secondo momento tra quelle più adulte. Così come è certo che internet una volta era uno spazio circoscritto alla propria scrivania mentre oggi ci segue in tutto ciò che facciamo, tanto che il mondo reale è diventato lo spazio in cui stacchiamo da internet e non viceversa. Ovviamente questa è solo una parte di un discorso più ampio sugli aspetti negativi delle nuove tecnologie, in cui è importante anche capire come vengono controbilanciati da quelli positivi: se internet e i social ci hanno reso tutti un po’ più tristi e arrabbiati, a quante persone invece hanno cambiato la vita in meglio? Quanti hanno trovato supporto, aiuto, connessioni, magari perché impossibilitati a muoversi e uscire?
Quella realtà che ci raccontano i social
In ogni caso, andando al di là degli aspetti positivi, sono stati più volte evidenziati gli effetti deleteri che i social network hanno sul nostro stato d’animo. Vuoi per il continuo giudizio degli altri, vuoi per come guardiamo le loro vite. Se passi la tua esistenza pensando che la vita degli altri sia fatta solo di serate divertenti, viaggi e momenti preziosi, inizi inevitabilmente a credere che la tua faccia schifo. O che ci sia qualcosa che ti stai perdendo mentre agli altri sembra dovuto.
E qua torniamo al punto iniziale. Certo, la studentessa di giornalismo che ha scritto il pezzo su Firenze probabilmente avrebbe avuto un’esperienza infelice anche arrivando con basse aspettative, ma forse è stata anche illusa da tutti quegli account di travel blogger e influencer che condividono immagini patinate, estetizzate, di un’Italia che finge di desiderare la “vita lenta” quando nessuno vuole vivere effettivamente in un paesino di poche anime con zero prospettive culturali e tutti si ammassano in stanze milanesi in cui un posto letto costa come una villa in campagna.
È il grande paradosso dei social network in cui dovremmo raccontare la vita, ma guai a farlo in una forma che non sia estetizzata, digeribile e in qualche modo interessante per gli altri. Ogni tristezza dev’essere bandita, a meno che non sia la narrazione del tuo personaggio. Gli angoli brutti della città non generano like, a meno che non sia per scandalizzare col tema del “degrado”.
La realtà è quella cosa che ci troviamo di fronte quando dobbiamo affrontare i nostri bias cognitivi e i pregiudizi che abbiamo su un determinato contesto. Pensate a una grande polemica di questi giorni: i video di borseggiatrici e criminali vari nella metro milanese e romana. Se vedessimo solo quelli saremmo portati a pensare che siano la normalità, che succeda solo quello, che le metropolitane sono posti al limite delle distopie post-nucleari di «Mad Max». Ma per quanto senza dubbio chi vive in prima linea i contesti di degrado sia maggiormente esposto alla criminalità, le statistiche ci dicono che il numero dei reati è stabile, se non in calo.
E quindi ecco che l’Italia diventa questo posto bellissimo in cui vivere, dove tutto va bene (a patto che tu sia una ricca ragazza americana), dove le persone sono gentili, perché questo ti hanno insegnato i film, questo hai percepito dai social, dove le persone creano un collage delle proprie vite e lo chiamano «realtà».
La soluzione per risolvere la distorsione della realtà sui social network non esiste, anche perché stiamo ancora studiando il fenomeno e per quanto ci siano alcuni fattori che legano il nostro stato d’animo al modo in cui li usiamo, sarà molto difficile trovare una correlazione fisica come quella tra l’alcol e la cirrosi. Però sarebbe già sufficiente arrivare a un punto di equilibrio, anche perché la soluzione indicata non è quasi mai quella del proibizionismo.
Forse, coltivando migliori relazioni sociali, anche i viaggi in Italia potrebbero avere un sapore migliore.