I confini mi affascinano da sempre. Più precisamente mi sono sempre crogiolata su una certa idea di soglia, quale spazio sicuro all’interno del quale posizionarsi per osservare le cose. Sarà per questo che fin da quando ero piccola ho sempre creduto di riuscire a esprimere più compiutamente me stessa e la mia interiorità attraverso la scrittura. Trasferire i miei pensieri sul foglio mi dava e mi dà ancora la sensazione di potermi osservare dall’esterno e mettere in ordine ricordi, paure e speranze.
Ma se prima c’erano i quaderni e i diari segreti (che di segreto avevano solo l’appellativo dato che neanche mi impegnavo più di tanto per nasconderli), poi sono arrivati i social network ed è diventato tutto più complicato. Ho sempre utilizzato Facebook come una sorta di diario aperto, perché come avveniva per i predecessori cartacei, quello che conta per me nella scrittura era la sensazione di poter tirare fuori tutto ciò che mi passa per la testa, potendo contare sulla protezione di un ambiente che mi offriva in aggiunta anche la possibilità di espormi ad un pubblico.
Poi un giorno ho postato una citazione di uno scrittore americano che utilizzava la metafora di una casa in fiamme, per descrivere un blocco interiore. A cinque minuti dalla pubblicazione ho ricevuto una chiamata apprensiva dei miei familiari: temevano fosse scoppiato un incendio.
Siamo tutti attori “social”
“Se non tentassimo mai di mostrarci un poco migliori di quello che effettivamente siamo, come potremmo migliorarci o svilupparsi interiormente traendo spunti dal mondo esterno?”. Così parlò Ervig Goffman sociologo canadese che prendendo in prestito le categorizzazioni della drammaturgia affermava che gli individui nelle interazioni possono essere considerati degli attori che recitano in un teatro e intendeva sostenere che il sé si sviluppa sulla base di come le persone pensano di essere giudicate dagli altri.
A livello di rete il concetto di “maschera” può essere traslato alle interazioni che l’attore intrattiene online e alla tendenza ad indossarne una a seconda delle situazioni, per poi mantenere lo stesso tipo di comportamento anche nelle successive interazioni offline. In questa realtà dai confini labili e mutevoli, gli individui hanno bisogno di narrare la propria vita a sé stessi e agli altri, per sperimentare la sensazione di sentirsi unici e al tempo stesso compresi. Il prodotto che ne viene fuori è un io relazionale, il quale più che come sostantivo per dare conto di questo continuo processo di costruzione, dovrebbe diventare un verbo: selfing.
L’Io si neutralizza dando vita ad una nuova forma di individuo. Disintegrato nella moltitudine che incarna un universo nel quale le persone si vivono come utenti, folle, pubblici, consumatori. Questo sfioramento liminare, ovvero la sensazione di vicinanza e di intimità che si prova nei circuiti della rete (in alcuni casi anche senza incontrarsi mai di persona), non dà vita ad un marasma indistinto, come avveniva coi mass-media, ma realizza quella che viene definita “intelligenza collettiva”, nella quale l’individualità si esprime in modo comunitario, non come una tendenza che annulla le differenze in un’ottica di omologazione, bensì in un’ottica di riappropriazione delle forme culturali attraverso un approccio “glocale”.
Pensiamo ad esempio alla diffusione di forme di consumo culturale come quelle riconducibili alle piattaforme di streaming che risentono dei contesti specifici in cui si insediano.
Una fusione che tiene conto della proliferazione di merci e ideologie a livello globale e di come queste vengono vissute in contesti sempre più localizzati, nei quali la percezione delle differenze dipende dall’incremento delle possibilità attraverso cui queste si esprimono. E dunque se già Niklas Luhmann affermava che la modernità può essere letta come uno sviluppo della società di pensare e discutere su sé stessa, si tratta di andare ad analizzare il modo in cui questa si evolve attraverso questi spazi fluttuanti, di transito.
In questi contesti però l’aleatorietà dell’Io non assume una connotazione negativa: i legami si trasformano in “connessioni” che oltrepassano i vincoli di parentela o di vicinato e la prossimità diventa una vicinanza che si esprime nella comunicazione. Ne sono una prova la profondità delle relazioni che si sperimentano nell’anonimato. In concomitanza la virtualità è il potere delle cose di rinunciare alla loro dimensione di materialità per assumere su di sé i significati simbolici di cui sono portatori.
Dunque l’identità che fine fa?
Capire chi siamo noi e chi sono gli altri è una questione pratica senza la quale l’umanità non avrebbe ragion d’essere: identificare gli altri ci permette di fare ordine e di capire come interagire con loro. Ma è anche e soprattutto una pratica puramente riflessiva, in quanto classifichiamo le cose e le persone per relazionarci ad esse a partire dalla percezione e dalla definizione di come sentiamo di essere nel nostro intimo.
Ma come cambia l’esibizione dell’identità, il “chi siamo?” sui social? Ne avevamo già parlato nell’articolo precedente. L’aspetto affascinante dei social network è rappresentato dal fatto che essi non sono semplicemente contenitori all’interno dei quali scriviamo cose. Più precisamente, se li osserviamo dall’esterno (e ci osserviamo dall’esterno) essi appaiono come delle residenze curate che raccontano le nostre vite e la nostra quotidianità e potrebbero addirittura essere paragonati alla funzione che il cervello svolge per la memoria.
Inoltre, le caratteristiche dei profili che includono foto, liste di amici, interessi musicali, la propria biografia e la possibilità di utilizzare immagini sono potentissimi indicatori di identità. Uno degli elementi che determina il successo degli ambienti online è la possibilità di esprimere identità molteplici, oltre alla tendenza delle persone in rete ad esaltare determinati aspetti del proprio carattere e del proprio aspetto a discapito di determinati elementi che inevitabilmente non possiamo occultare nel mondo offline.
La novità rispetto al passato è la distanza fisica unita alla ricchezza della comunicazione e della performance online tra chi si esibisce e la propria rete di connessioni. Attribuire una maggiore rilevanza all’esperienza “diretta” significa in definitiva ammettere la natura sfuggente e aleatoria anche del sé offline, un costrutto che scaturisce da un accordo sociale simile a quello che determina il valore delle banconote che altro non sono se non pezzi di carta.
A pensarci bene, infatti, perfino il nome che ci viene assegnato all’anagrafe col quale ci “facciamo chiamare” è frutto di una convenzione sociale che suggerisce che ci sia una persona dietro al corpo fisico che stiamo percependo. Allo stesso modo funzionano le identità che si creano online: sono come delle facciate che vengono utilizzate per muoversi nel mondo. A volte come una sorta di replica di quella offline e altre senza alcun legame con esse – dunque la traduzione involgarita di Facebook, ad esempio, non dovrebbe essere “faccialibro” ma “facciatalibro”, o addirittura “mascheralibro”, seguendo quanto abbiamo detto sopra.
Le tecnologie influenzano l’identità, l’intimità e la riflessività nella misura in cui vengono utilizzate per presentare personaggi e aspetti di sé inediti che difficilmente si esprimerebbero al di fuori. Più che concepire on e off come due contesti separati, già dicevamo la scorsa volta che la realtà oggi è onlife: dunque sarebbe più opportuno chiedersi quale sia il contesto che collassa nell’altro. E da qui ripartire.
“Esattamente come le molecole di un fluido, gli individui non hanno stabilità alcuna, essi scorrono, si urtano, creano aggregati fugacissimi, istantanei, vivono di contatti precarissimi, si scivolano addosso per qualche microsecondo.” (Umberto Pagano)