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Intel in crisi. Cosa cambia per l’hi-tech e per le persone comuni

Articolo. Da leader dei chip a crisi profonda: -16,6 miliardi nel terzo quadrimestre 2024 e azioni dimezzate rispetto a gennaio. Ha perso il primato nei chip e nelle schede video a favore di TSMC, NVIDIA e AMD. Una fusione con Qualcomm potrebbe creare un monopolio sui processori, rallentando innovazione e alzando i costi.

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Il 31 ottobre, Intel ha annunciato perdite per 16,6 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2024. Una cifra sufficiente a mandare in bancarotta il grosso delle aziende sulla faccia della Terra. Il valore azionario dell’azienda si è praticamente dimezzato dall’inizio di quest’anno: a fine gennaio si assestava sui 49,50 Dollari, ora non supera i 25. Nel 2021, ogni azione del Team Blu- così chiamato in virtù del colore distintivo di tutti i suoi prodotti e del suo logo - valeva quasi 70 Dollari. Il tracollo azionario della compagnia è andato di pari passo con quello del suo valore totale, che è recentemente sceso al di sotto dei 100 miliardi di dollari. Il tutto in un periodo in cui le Big Tech crescono: NVIDIA ha superato i 2.000 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, Apple ha recuperato più del 20% del suo valore da inizio anno, mentre lo stock di Microsoft ha fatto registrare un +182% nell’ultimo quinquennio.

Molti esperti di settore hanno definito la crisi di Intel come “irreversibile”, nonostante i tentativi dell’azienda di risollevarsi. Altri invitano la politica americana ad intervenire: Intel sarebbe semplicemente «too big to fail», riprendendo una locuzione resa famosa dai salvataggi bancari avvenuti durante le crisi del 2008 e del 2011. Il fallimento di Intel, in effetti, sarebbe un terremoto economico e rischierebbe di mettere in discussione la leadership tecnologica americana su scala mondiale. Ma come siamo arrivati a questo punto?

Cos’è Intel, e perché il suo futuro dovrebbe importarci

Definire Intel una pioniera dell’elettronica e dell’informatica sarebbe riduttivo. L’azienda è stata fondata nel lontano 1968 da Robert Noyce e Gordon Moore: è a Intel che dobbiamo, tra gli altri, il primo microprocessore della storia, lo standard PCI e i connettori USB, nonché le architetture dei Server Multi-Processore (SMP), senza le quali i datacenter per l’IA forse non esisterebbero. Per la verità, se non ci fosse stata Intel i PC avrebbero una forma ben diversa da quella che tutti conosciamo: oggi, l’azienda è famosa per i suoi processori - gli Intel Core che probabilmente si trovano sotto la scocca del vostro desktop o laptop - ma produce anche schede video, chip grafici, componenti di rete, chipset per schede madri e per server, memorie e via dicendo.

Facciamola semplice: avete un PC in casa? Molto probabilmente al suo interno ci sono componenti prodotte da Intel o realizzate sulla base di licenze e brevetti di Intel. Dentro i suoi uffici è stata scolpita la legge fondamentale che governa lo sviluppo tecnologico, ovvero la cosiddetta Legge di Moore. Prendendo il suo nome dal co-fondatore della compagnia Gordon Moore, la Legge dice che «il numero di transistor in un chip è destinato a raddoppiare ogni 18 mesi». In realtà, questa è la formulazione attuale della legge, perché all’inizio la previsione di Moore era fin troppo ottimistica: secondo lui, il raddoppio sarebbe avvenuto in maniera naturale ogni 12 mesi. Questa ipotesi rimase valida fino agli anni Ottanta, quando divenne evidente che tassi di sviluppo così sostenuti e prolungati erano semplicemente impossibili da mantenere.

Oggi, in molti credono che la Legge di Moore sia ormai sorpassata, cioè che l’aumento della densità di transistor dei chip non possa continuare alla velocità prevista dal cofondatore di Intel. Fermiamoci un attimo, perché giunti a questo punto qualcuno potrebbe vedere la Legge come un semplice feticcio per ricercatori e informatici. In realtà ha delle ricadute pratiche molto importanti. Aumentare la densità di transistor dei chip significa produrre microprocessori ancora più micro, riducendo cioè l’area delle componenti elettroniche a parità di potenza (e quindi permettendo alle aziende di inserire chip ovunque senza grande ingombro), ma anche aumentare le prestazioni di un processore a parità di area, mettendo sul mercato PC, smartphone e server via via sempre più potenti.

Essa, inoltre, fornisce una buona indicazione sul livello di sviluppo delle catene produttive, perché per produrre chip più densi servono macchine più complesse e sistemi di raffreddamento avanzati, ma anche catene di approvvigionamento globalizzate. In tal senso, il fatto che il mondo sia in pari (o meno) con la Legge di Moore è un indicatore del livello di interconnessione economica globale e di trasferimento delle conoscenze tra Paesi diversi. Per un’azienda o per un gruppo di aziende (la Silicon Valley, le compagnie Hi-Tech cinesi, quelle di Taiwan o quelle dell’UE, per esempio), essere “in volata” davanti alla curva significa trovarsi alla guida del progresso, ovvero essere in possesso di un monopolio tecnologico che rende i loro prodotti più appetibili e ricercati sul mercato.

Per anni, Intel è stata perfettamente in linea con la Legge di Moore. Ma si è dimenticata del resto. Focalizzandosi solo sull’aumento della densità dei transistor dei suoi processori, ha largamente sottostimato un settore in enorme crescita: quello delle schede video, che è stato monopolizzato da una rivale storica del Team Blu, Advanced Micro Devices (AMD), e da NVIDIA. Di recente, Intel ha provato a rimettersi al passo, ma ha fallito miseramente.

Il caso vuole però che le architetture alla base delle schede video per PC siano anche perfette per addestrare i modelli basati sull’Intelligenza Artificiale: così, mentre NVIDIA e AMD non ci hanno messo molto a convertirsi dalla produzione di schede video per i PC a quella degli acceleratori per l’IA, Intel è rimasta indietro, creando un gap apparentemente incolmabile rispetto alle concorrenti. Ma almeno ci sono i chip… giusto? Sbagliato. Da qualche anno, ormai, Intel ha perso il suo ruolo di prima compagnia al mondo per quantità prodotta di chip e per tasso di innovazione sui nodi produttivi. Il sorpasso di Taiwan Semiconductor Manufactoring Company (TSMC), che oggi produce il 90% dei microprocessori venduti su scala globale, è stato un colpo quasi mortale. Il produttore taiwanese - il principale motivo per cui la Cina tiene gli occhi fissi sull’ex-Provincia ribelle - oggi è più avanti di Intel nello sviluppo dei nuovi nodi produttivi, quelli al di sotto dei due nanometri, e rifornisce clienti del calibro di NVIDIA, Qualcomm e, soprattutto, Apple.

Il lungo declino di Intel

Queste sono solo due delle cause della crisi di Intel, ma sono anche le più profonde. Poi ci sono fattori più contingenti, ma non meno gravi. Fino a qualche anno fa, per esempio, Intel dominava incontrastata nel mercato dei processi per i PC consumer - quelli venduti nei negozi di elettronica, insomma. Oggi le cose stanno diversamente. Nel 2020, Apple ha lanciato i primi processori Apple Silicon, progettati internamente e assemblati da TSMC: fino al 2018, invece, tutti i Mac usavano dei chip Intel. Così, il Team Blu si è perso una grossa fetta di mercato, soprattutto negli Stati Uniti. Al contempo, AMD è diventata una concorrente credibile e temibile per Intel, dopo essere stata per quasi vent’anni il fanalino di coda nel mercato delle componenti hardware: oggi, tante fasce di pubblico, a partire dai videogiocatori, preferiscono le soluzioni di AMD a quelle della rivale.

Anche Qualcomm è entrata nel mondo dei processori per PC: l’azienda di San Diego, che vanta un quasi-monopolio sui chip per smartphone (iPhone a parte), ha lanciato nel 2024 i suoi Snapdragon X, processori per laptop appositamente pensati per l’IA e dotati di architettura Arm. Senza scendere troppo nei tecnicismi, sappiate che nel mercato dei chip esistono due architetture: Arm e x86. Quest’ultima è quella che Intel e AMD hanno utilizzato finora. La prima, invece, è stata adottata da Apple nel 2020 e da Qualcomm nel 2024, ma anche NVIDIA potrebbe seguire a ruota il prossimo anno. Storicamente, i chip Arm su PC sono sempre stati visti con un certo scetticismo, ma con l’arrivo dell’IA le cose sono cambiate rapidamente: l’architettura Arm, infatti, è molto più potente ed efficiente nella gestione dei carichi di lavoro legati all’Intelligenza Artificiale, e Microsoft (l’azienda che sviluppa Windows e che si trova all’apice della ricerca sull’IA) ha iniziato a preferirla apertamente alle tradizionali soluzioni x86. Un altro smacco per Intel, insomma.

E ci si è messa anche la stessa Intel a combinare guai: le ultime generazioni di processori per PC sono state un flop in termini di riscontro commerciale, a causa di prestazioni ben al di sotto delle aspettative. Il business delle memorie è stato abbandonato nel 2023 in una tornata di tagli, mentre quest’anno si è deciso di fare lo stesso anche per le schede video. Il settore dei server è stato messo da parte per quasi una decade per concentrare le risorse sullo sviluppo dei processori per PC, ma così facendo l’azienda ha messo tutte le uova in un solo paniere, riducendo la diversificazione e aumentando i rischi. Quando Intel ha iniziato a perdere terreno nel “suo” mercato, il castello è crollato rapidamente. “Rapidamente” significa in meno di un anno: che l’azienda non navigasse in buone acque lo si sapeva già dai tempi della pandemia, ma il 2024 è stato un annus horribilis.

Da leader del mercato, Intel è scivolata indietro di tante posizioni: il volume d’affari, per ora, resta enorme, ma la traiettoria è discendente in un momento in cui tutti gli altri crescono. Mentre gli analisti parlano di una possibile bancarotta, il Team Blu ha varato un piano straordinario di ristrutturazione, giudicato però insufficiente dagli esperti. Questi ultimi suggeriscono che la compagnia potrebbe scindersi in due, vendendo le sue Fab, cioè la produzione di chip, e tenendosi solo lo sviluppo delle loro architetture, rivolgendosi poi a TSMC per la loro realizzazione. Intel ci sta pensando, e intanto ha messo in pausa i lavori per le Fab europee (un paio in Germania e Polonia, una, forse, in Italia).

Una strategia di ristrutturazione e ridimensionamento potrebbe aver senso: Intel ne uscirebbe tagliuzzata, ma almeno non morirebbe. Ma ci sono altri due attori da considerare. Il primo è la Casa Bianca. Washington vuole che Intel resti in forze per ragioni geopolitiche: il colosso di Santa Clara produce i chip utilizzati dall’esercito americano e garantisce la continuazione dell’industria tecnologica americana anche in caso di una (sempre più probabile) invasione cinese di Taiwan. Le fabbriche di TSMC, d’altro canto, si trovano vicino a Taipei; quelle di Intel sono quasi tutte negli Stati Uniti. Per questo, il governo americano potrebbe finire per salvare Intel dalla bancarotta sfruttando il CHIPS Act, legge varata dalla Casa Bianca nel 2022 che prevede finanziamenti a pioggia (anzi, sarebbe più corretto dire «come se piovessero») per le aziende ad alto tasso di tecnologia della Silicon Valley. Da mesi si sa che Intel dovrebbe essere la maggior beneficiaria di questi aiuti, ma la loro entità e la velocità di erogazione restano tutte da definire.

A complicare le cose ci si è messa l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che più volte ha criticato il CHIPS Act e che ora ha il potere di abrogarlo. Il secondo attore da considerare è invece il mercato stesso. Mentre Intel agonizza, le rivali non stanno a guardare: AMD e NVIDIA capitalizzano sul vantaggio tecnologico accumulato per spingere i loro prodotti, ma ci sono anche compagnie come Qualcomm e Arm che guardano minacciosamente a Intel e puntano apertamente a un’acquisizione della compagnia. L’offerta di Arm pare essere già stata rifiutata, mentre quella di Qualcomm è ancora sul tavolo. Il che significa che i vertici del Team Blu la stanno considerando attentamente.

Se Qualcomm si “mangia” Intel

E se Qualcomm e Intel dovessero fondersi? Sarebbe un profondissimo scossone nel mondo della tecnologia, specie di quella di consumo: dall’operazione nascerebbe un vero e proprio colosso della produzione di processori. Come abbiamo già detto, Intel, per quanto in crisi, detiene una fetta enorme nel mercato delle CPU per PC, mentre Qualcomm è di fatto già monopolista nel settore dei processori per smartphone Android ed è entrata giusto qualche mese fa - con tiepidi risultati commerciali, questo va detto - anche nel mondo dei chip per laptop.

Un merger tra le due creerebbe un maxi-conglomerato le cui soluzioni hardware finirebbero sotto la scocca di quasi tutti i dispositivi elettronici in commercio - fatti salvi quelli di Apple e di pochi altri marchi che si affidano ad AMD o MediaTek per i loro chip. Vero è che la Silicon Valley e l’hi-tech asiatico ci hanno abituati agli oligopoli (Apple-Samsung, iOS-Android, Windows-Mac, NVIDIA-AMD, e potremmo continuare), ma qui si andrebbe ben oltre, con la formazione di un monopolio de facto sui processori e, dunque, sulla potenza di calcolo per gli applicativi tradizionali, IA esclusa. Le ripercussioni sarebbero due.

La prima, più evidente, è che Qualcomm e Intel, insieme, potrebbero fare il bello e il cattivo tempo e settare l’asticella dei prezzi dei processori a loro piacimento, causando maggiori spese per le altre aziende e per i consumatori. Il secondo è che la presenza di un solo player schiacciante nel mercato, con capacità finanziarie e di investimento nettamente superiori a chiunque altro, potrebbe azzerare la spinta all’innovazione e alla ricerca, mandando definitivamente in pensione la Legge di Moore e riducendo la velocità dello sviluppo tecnologico non solo per la Silicon Valley, ma per l’umanità intera.

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