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I social network, il corsivo e tutte le barbarie linguistiche che fingiamo di dimenticare

Articolo. Da qualche tempo sui social e in particolare su TikTok e tra i più giovani, sta spopolando un nuovo modo di scrivere e parlare: il cörsivœ. Tra l’indignazione di chi decreta la morte della lingua italiana e chi si diverte a prendere in giro il fenomeno c’è una via di mezzo: cercare di oltrepassare le dicotomie

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Lo spettro dei social network incombe, fin dalla loro nascita, sulla comunicazione e la agita, preoccupa i media tradizionali, anima le discussioni degli intellettuali, li invecchia, attira il clickbait delle testate che vogliono far notizia e le surclassa dall’alto di (o forse sarebbe più corretto dire dal basso?) una comunicazione orizzontale che se ne fa beffa, in un gioco di inseguimenti e valutazioni che ci lascia tutti sconfitti.

Ho 27 anni e TikTok mi fa sentire tremendamente boomer. Una piccola digressione per chi, come me non è nato negli anni Duemila è qui di dovere. Si tratta di un social network che ha come modalità prevalente di interazione lo scrolling di video in cui i protagonisti sono giovani, più giovani di me di minimo dieci anni che si chiamano content creators .

La popolarità di TikTok non è un dato che mi sorprende: i social sono in continua evoluzione, soprattutto perché i giovani cercano sempre nuovi spazi in cui affermare la propria identità e la propria indipendenza, lontano da occhi «indiscreti». Finché non arriva il parente di turno col solito commento «AMORE DELLA ZIA SEI BRAVISSIMO» e con la solita e immancabile risposta del teenager di turno che non tarda ad arrivare «TORNATENE SU FACEBOOK».

L’obiettivo di queste piattaforme, in ogni caso è sì, di sorprendere anche l’utente più esperto, attraverso l’implementazione di funzioni, che siano anche semplicemente dei cambiamenti di layout, inducendolo a sperimentare una sensazione di novità, di voglia di impratichirsi che lo porti a non annoiarsi e conseguentemente a non voler uscire dalla piattaforma. E i giovani, nella loro ontologica condizione di massa ancora informe e plasmabile, sono i soggetti privilegiati su cui testare e alimentare quotidianamente questa teoria.

In questo articolo, però, ho deciso di mettere da parte lo scetticismo le considerazioni etiche e i giudizi di valore per calarmi nel POV (acronimo che indica il punto di vista che riecheggia nei video su TikTok) della Generazione Z.

Il cörsivœ parlato: una definizione semi-seria

Parlare in corsivo, anzi in cörsivœ significa esprimersi attraverso una storpiatura delle vocali che nasce per deridere alcune cadenze del Nord Italia e in particolare la cadenza esasperata di una certa tipologia di ragazze milanesi. Il termine più emblematico di questo trend è amïo, variante “corsiva” di amo, abbreviazione di «amore», usato spesso come appellativo tra amiche.

L’ideazione di questo trend su TikTok è stata ricondotta ad una ragazza, Elisa Esposito, che in pochi mesi ha raggiunto una popolarità stratosferica e oggi tiene addirittura dei corsi per insegnare il corsivo parlato (non si sa bene a chi).

La stessa è divenuta bersaglio di critiche a seguito della diffusione di un video nel quale si cimentava nella lettura in corsivo dell’incipit de «La Divina Commedia» per poi non sapere neanche chi fosse l’autore dell’opera.

Ecco allora che è cominciata la gogna social. Perché le critiche ci piacciono, ci fanno sentire migliori, facendo dimenticare agli adulti di quando andavano in giro a parlare utilizzando l’alfabeto farfallino (l’alfabeto che raddoppiava ogni vocale con l’aggiunta di una «f» nel mezzo).

E come scordarsi di quando nel 2008-2009 i messaggi sul diario (cartaceo) erano pieni di «k» che sostituivano il «ch» il non che diventava «nn», figli della necessità di risparmiare caratteri nell’invio degli sms, una comunicazione che venne poi traslata anche sui social e che mi vide adottarla con un certo imbarazzo, pur di stare al passo con i miei coetanei. Quando poi, l’invio dei messaggi divenne gratuito, c’era ancora qualcuna delle mie amiche che continuava (e continua anche adesso) a perpetrare questa barbarie linguistica adducendo la scusa del risparmio di tempo. Ancora oggi me la immagino mentre svolge attività improbabili e spericolate, contrarie al suo temperamento, coi secondi minuziosamente risparmiati a scrivere «xké» invece che «Perché». In questo caso, dunque, è proprio il caso di domandarselo: perché?

Il punto, come dicevamo all’inizio, sta nel volersi qui astenere dall’esprimere giudizi di valore, per riflettere su come sui social network il grado di pertinenza e di rilevanza dei fenomeni quali abbreviazioni, troncamenti e adattamenti sia molto più elevato. Ma a essere rilevante non è tanto l’esistenza di una lingua dei social network, quanto, piuttosto, l’effetto di trascrizione che essi producono, incentivando il passaggio dall’oralità alla scrittura.

Usi popolari, gergali, dialettali, settoriali, informali e discorsivi: i social, in particolare, consentono di osservare e documentare pratiche discorsive che in passato restavano confinate nella memoria e nei racconti delle generazioni più anziane, mentre oggi basta fare una velocissima ricerca in rete.

Tutte le forme di conversazione mediate da dispositivi elettronici e telematici (chat, e-mail, sms, post, tweet, messaggi diretti, ecc.) hanno da sempre manifestato la tendenza a imporsi non tanto nella forma scritta ma piuttosto come trascrizioni di battute orali. L’uso del punto fermo a conclusione di un messaggio è infatti considerato antipaticamente perentorio, dando vita a due poli opposti: o viene omesso del tutto per evitare incomprensioni oppure, quando l’effetto desiderato è proprio l’enfasi, lo si menziona a chiare lettere: «punto».

Ciò che emerge dunque è una non neutralità dei social come mediatori di queste tendenze con la messa per iscritto che ne consente la visibilità e la conservazione e che genera una doppia rappresentazione intesa sia in senso letterale che come rappresentanza. In sostanza è come se gli si concedesse uno status di ufficialità nella lingua, molto più saldo di quanto avveniva in passato. A tutto ciò si aggiungono le logiche algoritmiche che alimentano questi sistemi, unite a dispositivi di aggregazione quali gli hashtag e di conteggio quali i trend topic che accelerano ancora di più tali processi.

La diffusione delle mode lessicali, dei neologismi (ricordiamoci di «petaloso»), dei tormentoni, dei modi di dire viene potenziata dalla trascrizione che si opera sui social portando ad una accelerazione di questi processi che non a caso vengono definiti in termini di viralità.

Insomma, la morale della storia, è che internet è il regno dell’oblio, in cui tutte le mode spariscono ma mai del tutto, portate a galla da un potente strumento di ricatto morale e psicologico, riassunto in una funzionalità introdotta da qualche anno e della quale si può cogliere la volubilità fin dalla sua denominazione: «Accade oggi».

Ma cosa direbbero Dante e Manzoni del cörsivœ?

Quando nel mondo regna sovrana l’anomia c’è una e una sola ancora di salvezza per il genere umano, o meglio per quella fetta di persona che si reputa superiore e vuole salvarsi dal male nel mondo: l’appello ai classici.

Eppure, basterebbe un po’ umanizzarli per ricordarsi di come Dante scrisse la «Divina Commedia» mentre era in esilio, mandando all’inferno tutti quelli che gli stavano antipatici e Manzoni fu un letterato che riscrisse la sua opera più celebre diverse volte, pur di giungere ad un ideale di perfezione linguistica che lo portò a «sciacquare i panni in Arno».

Certo è che se da un lato le tecnologie diventano sempre più intelligenti e fanno le cose al posto nostro, dall’altro lato della medaglia e dello schermo, sembra che la macchina più funzionale e congeniale a adattarsi a tale sistema sempre più avanzato sia un umanoide sempre più stupido. Così il pollice assertivo, si sostituisce alla risposta testuale, le reaction, recentemente introdotte anche su WhatsApp, diventano delle risposte. Ma se mi metti «mi piace» al mio messaggio cosa vuol dire? Che sei d’accordo con me? Che per te è ok? Che vuoi chiudere la conversazione o che non vuoi proprio aprirne una?

I social network sono il luogo dell’oblio ma anche il fertile terreno nel quale si alimenta la banalità, l’infondato, l’ignoranza. In un primo momento l’idea di un accesso democratico alle informazioni ci ha illusi che in rete il senso comune si sarebbe basato sempre più su opinioni sempre meno smentite dalla ricerca scientifica. Questo avrebbe dovuto permetterci di scartare più facilmente anche le superstizioni, le cospirazioni, le idee malsane e le credenze infondate, in teoria. In pratica siamo ancora preda dello stesso tipo di stupidità che ci dominava prima dei social.

È sempre successo di fronte alle novità e succede ancora di più con le novità che riguardano i social network e i comportamenti che sembrano incentivati – se non addirittura generati – dalla rete e dai social, che proprio per effetto della loro opacità, cioè della poca chiarezza sulla loro origine, vengono ostracizzati. Il corsivo è dunque solo uno dei tanti esempi che si potrebbero citare.

Del resto, le profilazioni degli utenti, la commercializzazione illecita dei dati personali, sono diventate talmente pervasive da essere in grado di intervenire sulla formazione del senso comune, fino al punto di influenzare l’esito delle elezioni politiche. Ce la prendiamo con gli algoritmi, coi poteri «forti». Ma perché scegliamo di aderire alle loro logiche? Perché ci consegniamo ad essi? Siamo forse stupidi o ingenuamente imprudenti? Basterebbe essere più razionali per scongiurare questi fantomatici danni prodotti dai social?

Ciò che è evidente è che la maggiore accessibilità alle informazioni, alle nozioni e alla conoscenza, non ha diminuito la nostra stupidità, l’irrazionale tendenza a creare fazioni divise tra «pro» e «contro», anzi si può dire che il tasso di ignoranza sia addirittura aumentato. Ci fidiamo dei titoli sensazionalistici, non approfondiamo, non verifichiamo l’attendibilità delle fonti.

Allora, forse, il nocciolo della questione sta alla base: la rete, come complesso intricato di informazioni rese accessibili, non ha mai dato informazioni esaustive su di sé. Anzi, internet è il mondo del pressappochismo nel quale si afferma che tutto è il contrario di tutto, senza risoluzione alcuna. Come possiamo dunque selezionarlo come fonte attendibile, soprattutto per accreditare la rete stessa?

La lingua è un prodotto sociale che come tale muta e si evolve col tempo. E sicuramente tra qualche tempo ci saremo dimenticati del corsivo parlato. Nel frattempo, però, nessun boomer impegnato nella critica ai linguaggi che si diffondono sui social ammetterà che recitare il ruolo del ligio difensore della lingua italiana rappresenta l’unica moneta di accesso a questo nuovo mondo.

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