Fede e social network stanno facendo prove di dialogo sempre più numerose e intense. Vuoi la pandemia che per un certo tempo ha tenuto chiuse anche le porte delle chiese, vuoi il cambio generazionale che si fa sentire insistente sempre più fra gli uomini e le donne che abbracciano la vocazione, considera infine le potenzialità della comunicazione via web, ed ecco perché si stanno moltiplicando gli esempi di profili, post, stories e video che ruotano attorno alla parola di Dio, ai suoi significati e insegnamenti.
Ultimo esempio in ordine di apparizione e rumors suscitato, quello di Don Alberto Ravagnani, giovane prete della parrocchia di Busto Arsizio in provincia di Milano, che con i 139 mila iscritti al canale YouTube e visualizzazioni che registrano decine di migliaia di utenti si è guadagnato il titolo di “prete youtuber”. Non è il solo esempio: Instagram e Tik tok sono mezzi sperimentati un po’ in tutto il mondo sia da preti che da suore, nel tentativo di portare spunti di riflessione sulla Fede il più lontano possibile e a un pubblico sempre più ampio possibile. Non solo iniziative singole, anche gruppi appartenenti a ordini e monasteri hanno provato a sperimentare - questo il termine più appropriato - le potenzialità dei social network, soprattutto nell’ultimo anno.
La nostra provincia non è esente da esempi simili, condotti principalmente su Facebook, social che forse per conoscenza o fascia d’età sembra essere il più apprezzato per avviare la strada di un dialogo religioso diverso dal solito.
Fra questi esempi ne abbiamo scelti tre, tre preti con ruoli differenti e un diverso modo di comunicare via web e la cosa più interessante che emerge è la necessità e il desiderio di essere formati sull’argomento. Sapere usare questi canali e, soprattutto, farlo bene, è una richiesta concreta fra chi vive la Parrocchia.
#solounminuto il format video di Don Andrea Pedretti
Il parroco di Roncola ha cominciato a realizzare questi brevi video su Facebook un anno fa, precisamente a marzo del 2020 con l’inizio della Quaresima. Li aveva interrotti quando la situazione sanitaria era migliorata, ma a settembre ha ripreso perché le persone gli chiedevano di ricominciare.
Don Andrea racconta: “Un anno fa mi sono chiesto ‘Come faccio a stare vicino alla gente?’ Proviamo così”. Questo è il motivo per cui sono nati questi brevi video: per Don Andrea la scelta di sintetizzare tutto in un minuto è una delle chiavi fondamentali del successo del suo format. Successo, esatto, perché questi brevi video nati per “provare”, funzionano indipendentemente dalla pandemia.
“Mi sono reso conto che con un piccolo intervento quotidiano sul Vangelo riesco ad essere vicino alla mia gente, ma non solo a chi crede- racconta Don Andrea, - So, perché mi scrivono e me lo dicono, che anche chi non è credente li guarda e li considera degli spunti di riflessione utili. Ho cominciato a metterli su Facebook, poi YouTube e Instagram e ora li mando anche via Whatsapp attraverso una lista broadcast ogni mattina”.
La risposta e l’interesse per questo strumento ci sono, indipendentemente dai confini della Parrocchia, come spiega: “È un impegno notevole. Praticamente mi ritrovo a registrare i video la sera prima e postarli la mattina, mentre sono ancora a letto, ma se salto un giorno le persone mi scrivono chiedendomi perché manca il video. C’è da dire, però, che non pensavo che potesse essere così forte. Ho iniziato senza aspettarmi niente, ma le visualizzazioni crescevano e capivo che il mezzo e il formato erano vincenti”.
“Ora ho bisogno di imparare - conclude Don Andrea, - Mi rendo conto che arrivo a un pubblico potenziale più esteso a quello della mia comunità, mi inserisco in un mondo pubblico dal quale è facile essere attaccati, per cui vorrei davvero poter fare un corso e capire, da chi è più esperto di me, come utilizzare questo strumento”.
Conoscere i meccanismi, generare empatia e trasformare il virtuale in reale
Don Cristiano Re è direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Sociale e del Lavoro, attualmente in servizio presso la parrocchia di Monterosso, ma soprattutto è un uomo di Chiesa attivo sui social da qualche anno.
“Per come la vivo io è uno strumento di comunicazione e nulla di più - racconta, - I confini ormai non si trovano più alla fine della carta, fin dove può arrivare la mia voce o legati a una presenza fisica. Non ho la pretesa di raggiungere chissà chi attraverso i social, ma ci sono spazi che nella realtà dei fatti sono meno virtuali di quanto sembra. Dipende dall’intensità che metti in un testo o che provi a consegnare nell’immagine che scegli”.
Questa idea di confine allargata è proprio ciò che rende il mezzo interessante e pericoloso a un tempo: “La vera sorpresa che hai è quando ti rendi conto che va veramente al di là delle tue aspettative. Spessissimo mi capita di andare in giro per l’ufficio pastorale sociale e incontrare persone che mi conoscono perché hanno letto ciò che ho scritto, così come mi capita che le persone mi scrivano perché hanno trovato in una parola o nell’immagine postata qualcosa che innesca un desiderio di contatto. Un’altra cosa molto bella è poter imparare dai miei ragazzi e collaboratori, facendo squadra e costruendo con loro un vero e proprio progetto di comunicazione”.
L’altro lato della medaglia però c’è. “Mi rendo conto che può diventare una specie di dipendenza. Ci sono moltissimi lati oscuri, ma è una cosa che conosci in partenza. Nel momento stesso in cui inizi a usare questi strumenti non puoi illuderti di non sapere che la piazza mediatica non la possiedi mai e che devi essere molto attento, perché hai la responsabilità delle parole che dici o non dici e delle immagini che posti o non posti. Uno dei lati più scuri da tener presente, secondo me, è come stai dentro tu a questo meccanismo. È uno strumento, non la vita e devi in qualche modo gestire l’invadenza che genera, scegliendo di autoregolarti e trovare dei momenti per distaccartene”.
E conclude: “Questo non significa non parlare mai di sé. È uno strumento che richiede anche un lato intimo e sincero per creare empatia. Per esempio, io ogni tanto metto un pochettino di me stesso. Lo so che lo sto dando in pasto a tutti e che può sortire degli effetti, ma scelgo di mettermi in gioco con un senso molto nobile del termine, mostrando a chi mi segue un pezzo dei miei affetti”.
Una piazza varia e colorata, in cui stare con leggerezza sapendo che la cultura è altrove
“Ho esitato molto prima di iscrivermi, ma non in ragione della mia condizione di prete. Era diffidenza nei confronti di una forma di esposizione di cui non conoscevo ancora bene le regole e di cui avevo solo parziali immaginazioni. Sono stati degli amici a invitarmi con sempre maggiore insistenza. Sicché ho accettato. Una volta dentro il gioco ho continuato a ritenere che non sia niente di essenziale, importante e indispensabile, ma ho scoperto che, secondo una certa scala, resta un modo per esercitarsi a stare in questa strana società vociante. Trovare i modi, i toni, i tempi. Vale anche per la vita vera. Puoi anche decidere di esiliarti dal mondo, ma se stai nella realtà, che trovi e non scegli, sei costretto a metterti alla prova sul come. I social prolungano questo inevitabile esercizio”. Questa è la considerazione sul tema di Don Giuliano Zanchi, vicario diocesano a Longuelo e direttore della Fondazione Adriano Bernareggi, presente su Facebook dal 2012, ma utilizzatore anche di Instagram e Twitter, che considera mezzi promozionali ancora prima che di comunicazione.
“Facebook serve soprattutto a rendere pubbliche cose che per ragioni di impegno richiedono di diventare pubbliche - spiega, - Senza i social nessuna iniziativa e nessuna istituzione potrebbero continuare a fare quello che fanno, sono anzitutto canali promozionali. Qualche volta cedo all’impulso di esporre contenuti che potrebbero essere considerati personali, come un libro letto, una mostra, la visita in uno studio d’artista, della musica. In effetti già questo sta su un confine che bisogna imparare a valutare bene. Per il resto non penso ai social come sedi di discorsi impegnati, per quelli ho altri modi: i libri, gli articoli, le conferenze. È uno spazio di comunicazione di cui bisogna accettare la leggerezza e di cui bisogna difendere levità. Porta con sé anche delle opportunità non trascurabili, come rimanere in contatto con persone lontane, seppure in forme che possono sembrare superficiali”.
Un luogo inevitabile, che ha il difetto di eccitare il risentimento, di diventare un pulpito su cui chiunque si sente investito di un’autorità, così ne parla Don Giuliano, che aggiunge: “Personalmente ho smesso di esprimere opinioni su Facebook perché è quasi impossibile evitare chi innesca la rissa, chi si esprime in modo sgradevole, chi ragiona per contrapposizioni. Parlo solo (o quasi) per immagini”.
Sui fenomeni più o meno recenti che accrescono la loro popolarità su YouTube et similari, invece, ha decisamente una valutazione più critica: “Temo non siano fenomeni passeggeri, ma credo siano anche molto equivoci. Il contenuto che sono convinti di servire, se si può parlare così della testimonianza credente, viene assimilato alla natura del mezzo con cui credono di promuoverlo. È una parola che certamente si afferma, ma al prezzo di neutralizzarsi, di dequalificarsi perché messa nel mucchio di una comunicazione indifferenziata, in mezzo alle foto dei gattini, le ricette di cucina, i meme, le canzoncine e tutto il resto. Tutto finisce nella lavatrice del varietà. Bisognerebbe imparare a predicare bene, a celebrare bene, piuttosto che vendere un prodotto confezionato dagli standard di queste vetrine mediali. La parola viva e il gesto vero sono insuperabili. Lì nei social si può stare, ma in altra maniera, e per altre ragioni”.