Si sono appena svolti i funerali di Giovanna Pedretti, ristoratrice la cui storia era balzata alle cronache per aver risposto a una recensione di un utente che si lamentava di aver mangiato accanto a una persona con disabilità e a delle persone omosessuali. Il caso ha fatto in pochi giorni il giro del web, e per web non intendo solo gruppi di discussione, profili social, ma anche e soprattutto la stampa locale e nazionale, che esaltava l’eroico gesto della donna. Con il suo commento, la donna invitava il presunto cliente a non far più ritorno nel suo ristorante, invocando la necessità di una maggiore tolleranza.
Il post aveva addirittura ricevuto il plauso della Ministra per la Disabilità Locatelli, che aveva scritto: «Grazie a Nello e Giovanna, pronti a reagire davanti ad atteggiamenti discriminatori e di cattiveria pura. Grazie perché siete due persone serie e attente al prossimo. Dobbiamo tutti amare di più ed essere più gentili». Con tanto di intervista rilasciata dalla stessa Giovanna Pedretti al Corriere della Sera.
Questa iniziale ricostruzione solleva diverse e importanti questioni. Prima di andare a ripercorrere la storia, credo che occorra fermarsi e accendere un piccolo interruttore, lo stesso che si accende quando davanti a eventi traumatici il nostro istinto ci spinge a voler trovare subito un colpevole.
Avrei voluto scrivere questo articolo già due settimane fa, quando sempre sui principali quotidiani italiani è stata diffusa la notizia del ritrovamento del corpo di Giovanna Pedretti lungo le sponde del fiume Lambro. Ho provato rabbia, perché più cercavo di approfondire la questione e più mi imbattevo in un news feed che mi riproponeva a valanga il medesimo contenuto, con la medesima tempestività: Giovanna Pedretti – sulla cui morte sta indagando la Procura di Lodi – non avrebbe retto alla pressione, alle critiche, agli insulti che sono giunti a lei e alla sua famiglia, quando la veridicità del commento è stata messa in discussione e l’iniziativa della ristoratrice è stata bollata come una mossa di marketing finalizzata a dare visibilità al locale.
Il popolo del web ha dunque sentenziato: è tutta colpa dei social. E pure io, presa dall’irrazionale bisogno di prendere posizione, di schierarmi, nella mia mente ho immaginato di scrivere questo articolo, come faccio sempre, a partire dal titolo: «E se i social ci stessero uccidendo?».
Poi, per fortuna, mi sono ricordata di quella luce, fioca, ma comunque presente nella mia testa, che si accende davanti a questo spirito impaziente, questa pressione sociale che ci spinge sempre a voler commentare tutto, pena l’esclusione. Quindi mi sono fermata e ho aspettato. Mi sono presa il tempo per leggere, per andare a fondo alla questione. E alla fine ho capito che il punto non è più che i social ci stanno uccidendo ma che noi persone stiamo morendo dentro ad un mondo di iper-realtà nel quale non conta più cosa fai per vivere, ma conta come appari, quanto ti mostri desiderabile, quanto riesci a smuovere le corde degli utenti, toccando temi che reputano importanti, vitali.
Dentro al web, ma senza farsi inghiottire
Da un lato, la storia della risposta della ristoratrice a una recensione negativa, per il suo contenuto di inclusione sociale e tolleranza, ha naturalmente attratto l’attenzione pubblica. I media tendono a enfatizzare storie che possono generare un forte impatto emotivo o morale, spesso a prescindere dalla loro importanza effettiva. Questo tipo di narrazione può avere un duplice effetto: da un lato promuove valori positivi come l’inclusione, dall’altro rischia di scadere in sensazionalismo.
In generale, l’aspirazione dei media dovrebbe essere quella di un equilibrio tra catturare l’attenzione del pubblico e mantenere l’integrità e l’accuratezza delle informazioni. Tuttavia, la pressione per ottenere visualizzazioni, letture e interazioni spesso inclina la bilancia verso storie più sensazionalistiche o emotivamente cariche. La responsabilità sociale delle testate che riportano le notizie in questo contesto è un aspetto cruciale. Pur essendo importante dare spazio a temi come la tolleranza e l’inclusione, è altrettanto fondamentale trattarli con la dovuta accuratezza, evitando di manipolare situazioni delicate a scopo di intrattenimento.
Conta ancora chi siamo quando spegniamo il telefono?
L’altro tassello che potremmo definire “polo” e al tempo stesso “ago” della bilancia di questa storia è che dietro ai social ci sono persone, esseri umani fatti di carne e ossa che dietro agli schermi e con le tastiere danno vita a questa gogna social che affonda le sue radici nella psicologia umana e che viene amplificata dalle caratteristiche dei social network.
Prima di tutto, la natura anonima o semi-anonima di Internet gioca un ruolo fondamentale. Quando le persone interagiscono dietro uno schermo, si sentono spesso distaccate dalle conseguenze reali delle loro azioni. Questo senso di distacco riduce le inibizioni, consentendo anche a individui altrimenti riservati o pacati di esprimere opinioni estreme o di partecipare a comportamenti aggressivi. Inoltre, l’anonimato può dare l’impressione che le azioni online siano meno reali o meno dannose, il che porta a una maggiore libertà nell’esprimere giudizi severi o insultare gli altri.
Un altro aspetto importante è la dinamica del “branco” che si verifica sui social media. Quando un individuo vede che altri esprimono indignazione o disprezzo verso una persona o un’azione, è più probabile che si unisca a questa reazione. Questo fenomeno, noto come conformismo di gruppo, porta le persone ad adottare comportamenti o atteggiamenti per aderire alle norme percepite del loro gruppo sociale.
Sui social, questo processo è accelerato e amplificato: una singola voce critica può rapidamente trasformarsi in un coro di condanna, spesso senza un’analisi approfondita o una comprensione completa della situazione. Inoltre, la natura istantanea dei social media favorisce reazioni rapide e spesso emotive. Le persone tendono a rispondere immediatamente a ciò che vedono o leggono online, senza prendersi il tempo per riflettere o considerare le diverse sfaccettature di una situazione. Questo impulso al giudizio immediato è alimentato dalla cultura e dalla natura di piattaforme che premiano le reazioni veloci e gli scambi brevi, piuttosto che il dialogo approfondito o la riflessione.
La polarizzazione è un altro fattore cruciale in questo contesto. I social media tendono a creare eco-camere dove le persone si raggruppano con altre che condividono le loro opinioni e convinzioni. Questo rinforzo reciproco delle idee e delle percezioni può portare a una visione del mondo sempre più polarizzata, dove le opinioni moderate o equilibrate vengono soffocate dall’estremismo e dalla certezza.
Questi elementi insieme creano un ambiente in cui è facile cadere nella trappola di giudicare e condannare senza freni, spesso senza una piena comprensione o considerazione delle circostanze reali.
Perché tendiamo a credere a tutto quello che leggiamo?
Innanzitutto, i new media oggi operano in un contesto di concorrenza intensa per l’attenzione del pubblico. Questa pressione porta spesso a privilegiare storie che sono sensazionali, emotivamente cariche o semplicemente in grado di generare un elevato numero di clic. In questo contesto, la verificazione accurata delle informazioni può diventare secondaria rispetto alla rapidità di pubblicazione e all’impatto emotivo della notizia.
Quando i giornali pubblicano storie senza una verifica approfondita, possono involontariamente diffondere informazioni false o fuorvianti. I l pubblico spesso non ha (o non vuole avere e spendere) il tempo o le risorse per verificare autonomamente ogni storia, si affida quindi ai media per ottenere informazioni accurate e affidabili. Quando queste informazioni si rivelano inesatte o esagerate, ciò può alimentare ulteriormente la diffidenza nei confronti dei media tradizionali. La gogna social si alimenta di queste dinamiche. Quando una storia sensazionale (ma non verificata) viene diffusa, le persone sui social media possono reagire con indignazione e condanna senza conoscere tutti i fatti. È una reazione istintiva amplificata dalla natura virale dei social media, dove le emozioni forti, come la rabbia o l’indignazione, tendono a diffondersi rapidamente.
Inoltre, la natura polarizzata del dibattito online comporta che le notizie, anche se non completamente accurate, vengono spesso utilizzate per rinforzare le opinioni preesistenti. In un ambiente dove la verità oggettiva è meno importante dell’adesione a un particolare punto di vista o identità di gruppo, la disinformazione può fiorire. In aggiunta, la facilità con cui accediamo e consumiamo informazioni online ha portato a una sorta di sovraccarico informativo. Siamo costantemente bombardati da una miriade di storie, fatti e opinioni. In questo flusso incessante, diventa difficile per molte persone dedicare il tempo e le risorse necessarie per verificare ogni informazione che incontrano. Di conseguenza, molte persone tendono a credere a ciò che leggono, soprattutto se le informazioni sono presentate in modo convincente o se rafforzano le loro convinzioni.
Allo stesso tempo, c’è una crescente distanza tra la nostra identità online e quella offline. Nei social media, l’immagine che presentiamo di noi stessi è spesso curata e idealizzata, e questo può portare a una disconnessione tra chi siamo online e chi siamo nella vita reale. In questo contesto, la responsabilità per ciò che diciamo o condividiamo online può sembrare meno immediata.
Ecco perché i media e i creatori di contenuti devono essere consapevoli delle loro responsabilità etiche, cercando di bilanciare la volontà di attrarre l’attenzione con l’importanza di mantenere l’integrità e l’accuratezza delle informazioni che diffondono. In un’era in cui la verità può essere facilmente offuscata, il nostro impegno collettivo verso l’accuratezza, la veridicità e la responsabilità, sono vitali, ovvero hanno a che fare con la vita, con la nostra essenza e intimità, col nostro essere presenti a noi stessi e al confronto con gli altri.