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E se cominciassimo a creare dei social network etici?

Articolo. Statisticamente trascorriamo circa 6,5 ore al giorno collegati a Internet, che in una vita media di 83 anni si traducono in ben 15 anni trascorsi sul web e sui social network. È possibile ridefinire la connettività e oltrepassare la superficie digitale? Esistono piattaforme online “responsabili”?

Lettura 6 min.

Curo ormai questa rubrica da più di un anno e quindi sapevo che questo momento sarebbe ormai arrivato: quello della prima smentita. Devo ammettere che nel corso del tempo la mia prospettiva riguardo alla connettività è cambiata. All’inizio avevo una visione abbastanza ottimistica delle potenzialità della rete, in cui, intendiamoci, chiaramente credo ancora, perché su internet lavoro, mi informo, mantengo vive le connessioni con i miei amici vicini e lontani (che probabilmente mi sono ancora amici anche perché abito lontano). Adesso però mi rendo conto che c’è qualcosa che non quadra.

Ebbene, sono qui per dirvi che sono d’accordo, in parte, con gli “apocalittici”, alla maniera in cui li intendeva Umberto Eco . Gli “apocalittici”, secondo il filosofo, incarnano le persone che hanno una visione pessimistica e critica nei confronti dei media di massa e della cultura popolare. Eco usava questo termine per descrivere coloro che vedono i media e la tecnologia come una forza negativa che degrada la qualità della cultura e della società.

Nel suo approccio, l’autore contrappone gli “apocalittici” agli “integrati”. Gli “integrati” sono coloro che accettano e abbracciano i media di massa e la cultura popolare, vedendoli come un mezzo per diffondere la cultura e l’informazione a un pubblico più ampio. Secondo Eco, questa divisione rappresenta due modi opposti di reagire all’evoluzione della cultura di massa. Gli “apocalittici” sono critici nei confronti del consumismo e dell’omogeneizzazione culturale portati dai media e dalla tecnologia, temendo che questi aspetti possano erodere le tradizioni culturali e l’intellettualità. Credono che i media siano uno strumento per manipolare le masse e per promuovere interessi commerciali e ideologie superficiali.

Ebbene, dopo questa breve ma necessaria digressione, oggi sono qui per dirvi che i poteri forti ci hanno mentito. E qui mi riferisco proprio alle Big Four (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e arrivo alla questione della smentita che vi anticipavo all’inizio dell’articolo.

Quando Mark Zuckerberg per convincerci a entrare nel suo network e «connetterci con i nostri amici» rassicurandoci sul fatto che, in barba a tutte le fake news che circolavano sui social, Facebook è gratis (e lo sarà sempre) , ci stava mentendo. Ci mentiva allora perché in cambio ci chiedeva di tracciare i nostri dati. Ci mente adesso, perché da qualche settimana “Meta”, oltre a chiederci il nostro tempo promettendoci il progresso, ha introdotto una funzione a pagamento che volendo usare una perifrasi dice: vuoi continuare a utilizzare le nostre piattaforme senza tracciamenti e pubblicità? Allora sottoscrivi un abbonamento. Diversamente, clicca su questa spunta per continuare a navigare, accettando il consenso al trattamento dei tuoi dati.

Ma cosa significa trattare i dati quando si parla di social?

Potremmo definire il trattamento dei dati nei social network come l’arte di trasformare le nostre interazioni digitali in un mosaico di informazioni che raccontano chi siamo, cosa amiamo e come viviamo nel mondo virtuale. Mi spiego meglio: il trattamento dei dati è un processo che combina tecnologia, analisi e creatività. Non è solo un’attività tecnica o meccanica, ma richiede una comprensione sofisticata per estrarre significati e valore da grandi quantità di informazioni. I dati raccolti dalle nostre interazioni online vengono uniti per creare un quadro complesso e dettagliato. Proprio come un mosaico che è composto da piccoli pezzi che insieme formano un’immagine completa, così i singoli dati si combinano per formare profili utente dettagliati.

I dati possono rivelare molto su di noi: i nostri interessi, le nostre abitudini, le nostre opinioni e preferenze. Queste informazioni possono essere utilizzate per personalizzare l’esperienza utente su un social network, rendendola più rilevante e coinvolgente. Analizzando i dati, i social network possono identificare ciò che probabilmente ci piacerà, suggerendo contenuti, prodotti o servizi pertinenti. Ciò è particolarmente evidente nei sistemi di raccomandazione che propongono amicizie, gruppi, pagine o pubblicità basati sui nostri interessi passati.

Il nostro comportamento online offre uno spaccato della nostra vita nel mondo digitale. Questo può includere tutto, dalle nostre interazioni sociali ai nostri modelli di consumo, e persino riflettere aspetti del nostro stile di vita nel mondo reale. In sintesi, il trattamento dei dati nei social network è un processo stratificato che interpreta e utilizza le nostre attività digitali per costruire un’immagine dettagliata di chi siamo come utenti online, influenzando profondamente la nostra esperienza digitale e in maniera consistente anche quello che siamo offline.

Quali sono i rischi di tutto questo? Innanzitutto, ogni clic e ogni interazione vengono tracciati, creando una vasta raccolta di informazioni su di noi. Questi dati sono spesso condivisi o venduti a terze parti, mettendo a rischio la nostra privacy. Non solo siamo spesso inconsapevoli di questa condivisione, ma ci troviamo anche vulnerabili a possibili abusi dei nostri dati personali. Inoltre, l’uso di algoritmi per personalizzare la nostra esperienza online può dare vita ad una bolla informativa, nel senso che gli algoritmi tendono a mostrarci contenuti che rafforzano le nostre convinzioni esistenti, limitando l’esposizione a opinioni diverse o contrastanti. In un ambiente digitale dove ci viene costantemente suggerito cosa leggere, guardare o comprare, rischiamo di perdere la nostra capacità di fare scelte indipendenti.

Infine, c’è il rischio che questa personalizzazione limiti la nostra creatività e sviluppo individuale. Quando ci troviamo in un ecosistema digitale che continua a presentarci contenuti familiari e conformi ai nostri gusti esistenti, perdiamo l’opportunità di esplorare nuovi orizzonti e di essere stimolati da idee e prospettive differenti.

Ecco perché è essenziale essere consapevoli di questi rischi e correre ai ripari cercando un equilibrio che protegga la nostra privacy, promuova il pensiero critico e incoraggi la creatività e lo sviluppo personale.

Contro l’inevitabilismo

Qualche settimana fa, appena subito dopo l’uscita del mio articolo « Useremo ancora i social network nel futuro? » sono stata contattata da un imprenditore che mi invitava a partecipare alla presentazione del suo progetto: il primo network sostenibile. Ormai chi mi segue sa quanto mi piaccia stare sui social e testarne di nuovi, anche se devo confessarvi che ho disinstallato TikTok.

Sì, lo so. Probabilmente sono troppo vecchia, ma mi annoia passare il tempo a scorrere video, non posso farlo se mi trovo in un contesto in cui ci sono altre persone che in genere mi intimano di «ABBASSARE IL VOLUME PERCHÈ SEMBRI UN BOOMER» e credo che la diffusione sempre più massiccia dell’idea che l’utente sia oramai pigro, svogliato, disattento, vada in qualche modo scardinata.

Perché è come se ci trovassimo di fronte ad una persona che passa il suo tempo a stare seduta sul divano e noi, invece che spronarla ad uscire e conoscere il mondo, ci limitassimo, anzi, a mettergli un poggiapiedi sotto alle gambe per farlo stare più comodo. Quindi ho accolto l’invito con piacere e sono andata ad ascoltare.

Una condivisione cieca, più o meno

Il recente studio di We Are Social, «Inside Marketing» , ha evidenziato un dato sorprendente: in media, trascorriamo circa 6,5 ore al giorno collegati a Internet, che in una vita 83 anni si traduce in ben 15 anni trascorsi sul web e sui social network. Nel mio caso penso di aver già sfiorato la soglia dei 20, ma non siamo qui per parlare di me.

Questa realtà ha spinto un gruppo di imprenditori e manager di Bergamo a fondare Sblind , una startup innovativa che mira a colmare un vuoto lasciato dall’evoluzione dei social network più diffusi a livello globale. Sblind si propone come un “sustainable network” e si distingue dai tradizionali social media per la sua decisione di non utilizzare algoritmi di mappatura o cookies pubblicitari e per il suo impegno a non vendere dati a terzi. Inoltre, il modello di business di Sblind non è direttamente legato agli utenti. Chiede infatti la collaborazione delle aziende, che per utilizzare la piattaforma sottoscrivono un abbonamento annuo: un approccio che riflette un ethos più rispettoso della privacy e dell’autonomia individuale.

Un altro aspetto fondamentale di Sblind è il suo tentativo di combattere le dipendenze digitali. A tal fine, la piattaforma limita l’utilizzo a massimo 90 minuti al giorno per ciascun utente, promuovendo un approccio più equilibrato e consapevole all’uso dei media digitali. «Abbiamo impostato un limite di 90 minuti perché crediamo che sia importante che le persone si impegnino in altre attività e vivano la realtà fuori dai social network. Vogliamo supportare un approccio alla vita digitale più sano e consapevole».

Sblind sfida anche il concetto tradizionale di “Influencer”, sostituendolo con quello di “Lovers”. Questa nuova categoria è definita come «le persone più importanti nella vita di un utente» e ogni membro può averne al massimo 100. Questo approccio mira a rafforzare le relazioni genuine e significative, distaccandosi dalla tipica dinamica dei social network incentrata sulla popolarità e sul numero di follower. «Il nostro modello è semplice: abbiamo rimosso caratteristiche, algoritmi e tools che non rispettano l’identità digitale. L’obiettivo è proteggere il diritto degli individui a navigare e utilizzare i social senza che terze parti possano tracciare comportamenti per scopi personali ed economici».

Sblind si propone quindi di aprire un nuovo capitolo nel mondo dei social media, ricorrendo ad un approccio più sostenibile, centrato sulla privacy e sulla qualità delle relazioni interpersonali, in netta contrapposizione alle tendenze prevalenti nell’era digitale. Il modello di business circolare su cui si basa vede il contributo delle aziende, che come già anticipato usano la piattaforma sottoscrivendo un abbonamento annuo. Una parte di questo, il 30%, è investita in progetti certificati di compensazione delle emissioni di CO2. Con gli utenti che beneficiano indirettamente di queste compensazioni, emettendo dei carbon credit certificati che vengono accumulati da tutti coloro che usano la piattaforma.

Ma cosa significa esattamente «Sblind»? L’ho chiesto ad uno dei fondatori, Francesco Bertuletti. «Inizialmente, soprattutto durante la pandemia, la piattaforma si basava su una condivisione che rafforzava il legame con la località e con i territori e il nome originario era “share blind”, ovvero condivisione cieca. Che richiamava a una condivisione pura, senza mappature e secondi fini non dichiarati. Abbiamo poi scelto di rendere il nome ancora più impattante utilizzando una parola che fosse un po’ una sintesi, una sorta di neologismo che, se vogliamo, rimanda all’idea di togliersi un po’ le bende dagli occhi, oltrepassando il pregiudizio consolidato per cui navigare su internet implica necessariamente un’appropriazione di dati da parte di qualcuno. Gli utenti hanno reagito positivamente, apprezzando la filosofia della piattaforma e fornendo suggerimenti costruttivi su alcune funzionalità. Sicuramente nel 2024 ne implementeremo di nuove».

L’app ad oggi conta più di 7.000 iscritti, più di 50.000 contenuti caricati e quasi tre milioni di visualizzazioni. Io ovviamente l’ho già scaricata e ho già “accumulato” 7kg di CO2. Mica male.

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