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È il momento della spunta blu. Ma quali sono i risvolti della notorietà sui social?

Articolo. La notizia era nell’aria da tempo ma ora è diventata realtà. Anche Mark Zuckerberg ha seguito le orme di Elon Musk e ha messo in vendita la spunta blu su Instagram e su Facebook. Ma cosa cambia per chi crea contenuti online?

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(unique_Illustrate_95 Shutterstock.com)

A partire dalla prima settimana di luglio, ottenere badge di verifica è concesso ad una pagina o ad un profilo direttamente dalla piattaforma dopo un’attenta e scrupolosa analisi finalizzata ad accertare che l’account in questione sia associato ad una persona di cui è stata provata l’esistenza. E se tra i nobili propositi Meta annovera l’intento di tutelare l’identità degli utenti dai furti e dalla possibilità di essere associati a delle possibili notizie false, in concreto l’abbonamento a Meta Verified offre ben altri e più significativi vantaggi. Gli utenti verificati avranno infatti maggiore visibilità sia nel feed che nei commenti, che appariranno più in alto rispetto a quelli degli altri utenti. In più, avranno accesso diretto all’assistenza e al servizio clienti.

Meta Verified è disponibile per l’acquisto direttamente su Instagram e Facebook sottoscrivendo un abbonamento mensile di €13,99 via web e di €16,99 via mobile. Per comprendere i risvolti in termini economici di questa iniziativa, bastano le dichiarazioni di Zuckerberg dopo il rilascio di quella che è solo apparentemente una nuova funzionalità della piattaforma (dal momento che il badge esiste dal 2018 ma è in particolare dal 2020 che autenticarsi è diventato un fattore di pregio): «A lungo termine, vogliamo creare un’offerta di abbonamento che sia preziosa per tutti, inclusi i creatori, le aziende e la nostra comunità in generale».

Ma quando e perché i creator sono diventati così centrali sui social e per le aziende?

Cosa significa contare sui social?

L’ascesa di nuove forme di comunicazione promossa dalla diffusione capillare dei social network ha ridisegnato le traiettorie sulle quali si costruisce la popolarità e ha ridefinito l’insieme delle capacità che si richiedono a chi vuole diventare un leader. Se quindi ai tempi della radio la qualità straordinaria riconosciuta dalla massa era la voce, in tv si distingue chi riesce a dire la cosa giusta al momento giusto, nei blog conta saper scrivere in modo coinvolgente e sui social si distingue chi riesce a trovare la giusta inquadratura, il giusto montaggio, il giusto effetto.

Così come avevano fatto in precedenza la radio, la tv e i blog nel cambiare gli stili di consumo, la stessa cosa avviene ora sui social network nei quali i leader sono tali perché influenzano. E da qui l’espressione «influencer». Ma di che tipo di influenza parliamo?

Mi riferisco al fatto che sui social un sempre maggior numero di individui ha acquisito la capacità di influenzare le opinioni degli utenti. Non a caso, uno dei dati più interessanti emersi da un festival che racconta le tendenze del marketing a cui ho partecipato nelle scorse settimane, è che nel 2022 il 58% dei consumatori ha acquistato un prodotto perché consigliato da un creator.

La favola dei social network nati per condividere ricordi e restare in contatto sta progressivamente lasciando cadere il suo velo di Maya, rivelando la vocazione sempre più pubblicitaria di piattaforme che hanno tutto l’interesse a trasferire il peso economico della notorietà online.

Ma l’origine sociale di cui parlavo prima impone ancora che uno dei presupposti fondamentali che ci spingono a trovare interessanti i contenuti che troviamo su Facebook, Instagram o Twitter, sia sempre una certa dose di autenticità. I prodotti editoriali che hanno successo sui social sono narrazioni che ricreano situazioni di vita quotidiana che accomunano i creator agli utenti «medi», nelle quali il prodotto ripreso per fini promozionali si inserisce come parte integrante di questo racconto.

E mentre abbiamo la percezione che sia tutto sotto controllo, dal momento che siamo noi a decidere se seguire un account, se condividere, se mettere like, sappiamo che sono gli algoritmi delle piattaforme a scegliere cosa mostrarci più di frequente e cosa nascondere, i contenuti che sollecitano le nostre reazioni, gli amici da seguire e le pagine che potrebbero piacerci.

Quello che ancora è forse poco chiaro è che c’è un altro modello di business sulle piattaforme che ha ripercussioni sulla nostra esperienza di navigazione, sui nostri consumi e sulle scelte che facciamo. Perché a essere venduti non sono solo i dati ma anche i contenuti, in forme che spesso non sono così intuitive.

Siamo tutti un po’ creator

La nostra vita digitale si è evoluta: non siamo più utenti passivi che digitano sequenze di testo per leggere un sito web. Ma siamo diventati fruitori e produttori di contenuti che condividiamo con tutti in un apparente scenario di orizzontalità. Abbiamo tutti un pubblico e quel pubblico ha un valore che possiamo monetizzare. Uno dei problemi principali di questo contesto è l’assenza di regole, perché i cambiamenti nel modo di utilizzare le tecnologie sono così veloci che le istituzioni faticano a stare al passo.

Ma quand’è che l’ago della bilancia si è spostato?

Sicuramente la pandemia ha avuto un ruolo significativo nel rideterminare l’identità degli influencer. L’isolamento infatti ha fatto sì che i social fossero l’unico strumento di apertura al mondo e questo ha praticamente azzerato la distinzione tra vita online e vita offline, dal momento che anche i nostri rapporti più intimi erano mediati dagli schermi e dalla connessione alla rete. Gli influencer sono stati per molti mesi l’unico contatto col mondo esterno. La necessità di evitare contatti fisici ci ha spinti ad una connessione sempre maggiore anche con le celebrità che ci aprivano, almeno in apparenza, la loro quotidianità che, almeno in quel momento, non era poi così tanto diversa dalla nostra.

E così, passata l’emergenza, i protagonisti dei social sono passati dall’essere semplici intrattenitori a diventare consapevoli utilizzatori del proprio potere di influenza per cambiare le preferenze dei follower su scelte commerciali o politiche. Oggi un influencer produce quindi due tipi di contenuti: quelli organici, editoriali, e quelli pubblicitari. Il punto è che non sempre siamo in grado di distinguerli.

Il prezzo della notorietà

Per generare interesse, i selfie e le foto delle vacanze non bastano. Per diventare content creator servono i contenuti semiprofessionali: video con montaggio, musica, grafiche. Ci deve essere un investimento di tempo e creatività, come avviene in tutte le forme di intrattenimento curate da professionisti nel mondo reale o della televisione.

I contorni globali dei social network hanno di fatto annullato i limiti fisici che un tempo impedivano alle celebrità di raggiungere in pochi istanti un pubblico su larga scala. Non c’è limite al numero di utenti che possono accedere ad uno stesso contenuto, non c’è quasi mai barriera di lingua, perché i social network sono sempre più basati su immagini e video e sempre meno sulle parole. La forza delle piattaforme si trasmette a chi ne riesce a interpretare al meglio la filosofia, cioè gli utenti che sono stati capaci, con l’aiuto e il sostegno della piattaforma stessa, di costruirsi un pubblico personale significativo che permette loro di incidere sulle preferenze dei propri follower.

Gli influencer sono in grado oggi di offrire un vero e proprio palinsesto di intrattenimento a costi che sono irrisori rispetto a quanto dovevano spendere un tempo gli imprenditori che volevano farsi strada in politica. E ben presto le aziende hanno capito che in questa zona grigia non regolamentata c’è la possibilità di ottenere una enorme influenza con investimenti contenuti, molto inferiori a quelli richiesti dai canali tradizionali.

L’ascesa degli influencer come nuova forma di intrattenimento di massa segna una rivoluzione che, come tutti i cambiamenti epocali, offre grandi opportunità e altrettanti rischi. Ogni utente può diventare potenzialmente un produttore di contenuti a livello professionale e competere con organizzazioni che, in quanto tali, sono necessariamente più strutturate e lente. Che si tratti di produrre notizie o di intrattenere, chiunque può diventare un produttore di contenuti che cerca di accumulare la più preziosa forma di capitale nel mondo (digitale e analogico) contemporaneo: la reputazione, che si può misurare in termini di follower, reazioni, condivisioni e molto altro. E la spunta blu non è altro che il riflesso di questa tendenza.

Da quando i soldi hanno iniziato a condizionare la sfera social anche nei contenuti, oltre che nella pubblicità tradizionale, tutto è cambiato: il meccanismo su cui i social si fondano (quello della condivisione spontanea che produce contenuti gratuiti che generano interesse) rischia di collassare. Da un lato, i creator non sono più disposti a lavorare gratis, dall’altro gli utenti si sentono quasi presi in giro se chi considerano un proprio pari dà loro consigli su cosa comprare o come pensare.

Ma proprio perché i social e il potere degli influencer si fondano sulla reputazione, siamo noi, in ultima analisi a stabilire chi può avere influenza sulle nostre opinioni e sulle nostre scelte. Lamentarsi del cambiamento e invocare un ritorno al passato, alla luce di questa analisi, risulterebbe anacronistico e controproducente. Piuttosto possiamo chiederci cosa possiamo fare per rendere questo nuovo spazio pubblico meno opaco, imbrigliato, annacquato da dinamiche che ci sembrano sempre poco chiare.

Sta a noi ora decidere se provare a governare e comprendere questi mutamenti o restarne vittime.

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