La principale rivoluzione che le piattaforme di social networking hanno apportato nella vita delle comunità online è stata la capacità di dar vita a delle reti nelle quali gli individui non si percepiscono più come subalterni alla comunicazione dei media tradizionali. Ed anzi, la condivisione delle informazioni è diventata così impattante e pervasiva da far sì che, nel corso del tempo, tali piattaforme siano diventate, nuove arene politiche, terreni di discussione, contenitori di notizie (anche false), assumendo i contorni di quelli che oggi sono definiti social media.
La rete rappresenta un dispositivo culturale che incorpora una duplice prospettiva: una tensione non dicotomica (ovvero non in contrasto) tra pubblico e privato che dà vita ad un soggetto pubblico-privato. Quest’ultimo produce, distribuisce e consuma con la consapevolezza di essere pubblico all’interno di uno spazio pubblico (che però in realtà è privato: Facebook e Instagram sono aziende). Gli utenti sui social network pubblicano contenuti sulla base di tre motivazioni principali: agire, esporsi e mettersi in relazione con gli altri. Tutto questo, che apparentemente avviene in uno spazio pubblico, in realtà diviene dato, e dunque prodotto, in uno spazio privato (la famosa frase «Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu».
Tutte le tracce di quello che facciamo sui social si accumulano, creando un profilo denso e articolato i cui cambiamenti diventano visibili nel corso del tempo, spingendosi talvolta ad attuare inevitabili pratiche di pulizia. Come quando ad esempio ci stagghiamo dalle foto in cui siamo usciti malissimo o rimuoviamo commenti imbarazzanti sotto ai post del 2011. In particolare, adottare il punto di vista dei media, comporta aver imparato ad osservare sé stessi e la propria riflessività che viene applicata alla propria comunicazione. Si osservano le proprie conversazioni, le immagini in rete, le parole che scriviamo secondo un meccanismo di immedesimazione o di distaccamento.
Ci si legge e ci si guarda con gli occhi dello spettatore-lettore e si pensa a immedesimarsi negli occhi del pubblico che leggerà il post, in base a come si vuole essere percepiti. Si producono contenuti che partono dalle vite concrete degli individui ma che sanno parlare anche all’altro, diventando conversazioni sul proprio modo di vivere, pensare e interpretare la vita. Sono contenuti nei quali ci rivediamo e che ci aiutano a capire la differenza rispetto a come siamo veramente, in certi casi irritandoci e scatenando reazioni.
Il potere identificativo di queste rappresentazioni dipende dal fatto che si tratta di stimoli che ci spingono a riflettere in virtù di una maggiore capacità di ancorarsi alla nostra quotidianità. Il punto non è che in rete ci siano identità fittizie ma che ci troviamo di fronte a dinamiche di costruzione della nostra identità attraverso una messa in narrazione e resa pubblica della nostra vita.
L’«amicizia» su Facebook: quantità o qualità?
Quando ho cominciato a utilizzare i social network (prevalentemente Facebook), accettavo indiscriminatamente le richieste di amicizia di chiunque, anche se non avevo idea di chi fossero. E quando io stessa mi imbattevo in profili che sembravano interessanti, mandavo richieste, per osservare più da vicino. C’è sempre stata una teoria di fondo che mi spingeva a preferire gli ambienti online come luoghi privilegiati attraverso i quali conoscere e indagare l’alterità. Ero (e lo sono tutt’ora) convinta del fatto che il modo in cui le persone scrivono, riflette il loro pensiero. Che ovvietà, direte voi. Ma lasciate che mi spieghi meglio.
Mi riferisco non tanto e non solo alle formulazioni verbali ma anche alla scelta delle parole, dei sinonimi e, soprattutto, della punteggiatura. Internet è il mondo del pressappochismo, della fretta, del linguaggio abbreviato. Ma la scrittura, come forma espressiva richiede più pazienza della voce, più attenzione. La digitalizzazione ha assunto la velocità come valore. All’inizio dell’informatizzazione, quando l’interattività era la chiave essenziale del cambiamento, l’efficienza era definita in termini di rapidità. L’idea di fondo era che un’interazione riuscita doveva simulare i tempi di interazione umana.
La società umana sembra essere così percorsa da una ossessione per cui la velocità è considerata sinonimo di efficienza. Nel caso specifico delle interazioni, la ricerca di una velocità sempre maggiore nella risposta di una tecnologia, è generata più da una ossessione per la velocità che dall’autentica imitazione dei tempi umani. La conseguente accelerazione dei processi comunicativi ha determinato un diverso sentimento anche nei confronti delle interazioni, alterando azioni e sentimenti come il viaggio, l’invio di un messaggio, la lontananza, la nostalgia.
Il sosia di Dr. House
Ecco perché la mia idea di amore, più che assomigliare ad un apostrofo rosa, corrisponde all’attitudine a utilizzare le virgole, al posto e nel momento giusto. Questa filosofia mi ha portato ad avere fino a qualche anno fa, più o meno tremila amici. Tra di loro spiccava anche il sosia di Dr. House che grazie a questa somiglianza si è anche guadagnato qualche comparsata in tv. Mi è rimasto impresso perché nonostante sé la cavasse bene con la scrittura, era diventato piuttosto insistente nelle interazioni. Tanto da spingermi a prendere la decisione di rimuoverlo dagli amici e ad attuare una drastica strategia di selezione delle connessioni che includesse esclusivamente le persone con le quali avevo un contatto più approfondito rispetto all’incredibile somiglianza con uno dei miei personaggi televisivi preferiti.
Nel corso del tempo anche i contenuti che condivido sono cambiati. All’inizio pubblicavo a flusso tutto ciò che mi capitava o mi passava per la mente. Le interazioni erano perlopiù commenti coi miei compagni di scuola o con i miei coetanei che si limitavano a «Domani niente scuolaaa» oppure «Oggi febbre!!!». È interessante notare come questo tipo di atteggiamento è ora facilmente riscontrabile in quelli che definiamo «boomer», ovvero i nostri genitori o gli anziani che utilizzano Facebook e i social per scambiarsi saluti o ricette di cucina.
Esso non si distacca poi molto da quello che era l’intento iniziale dei giovani che nel 2008 si approcciavano alla nascente piattaforma: sperimentare il più possibile questa nuova forma di comunicazione nella quale il contenitore conta più del contenuto.
Una questione “cosmetica”
La visibilità dei contenuti diffusi su pubblici eterogenei è uno degli elementi distintivi di un social network che si contraddistinguono per un rafforzamento delle dinamiche di socialità, considerando che si focalizzano sulle relazioni che si creano fra il profilo dell’utente e la sua rete di contatti. Gli ambienti online permettono di gestire reti sociali diverse in modo più efficace di quanto avviene nella gestione delle relazioni offline, poiché richiedono una forma di partecipazione alla comunicazione che necessita della complicità di un individuo, il quale adotta una visibilità basata sul compromesso tra un eccesso di informazioni e la loro incompletezza.
Con il passare degli anni, gli utenti hanno cambiato il modo di approcciarsi sia nella dimensione pubblica che privata nell’utilizzo dei social network. Oggi c’è una grande cura di ciò che viene pubblicato, per far sì che il profilo corrisponda il più possibile ad un prolungamento della propria persona offline . A differenza di ambienti comunicativi dove le persone hanno il controllo su ciò che rilevano, sui social è possibile avere informazioni su una persona anche in maniera indiretta attraverso gli indizi lasciati sul profilo. Questi, spesso, appaiono più convincenti, spontanei e meno costruiti rispetto a ciò che l’individuo dice di sé, offline.
Molti studiosi hanno cercato di individuare le peculiarità che caratterizzano le pratiche di costruzione identitaria del sé sui social, affermando che quando l’individuo rappresenta l’identità divide il pubblico in due gruppi: quelli a cui presenta una versione idealizzata di sé e quelli che potrebbero trovare tale esibizione problematica.
Le ricerche condotte in tal senso, hanno permesso di individuare quattro tipi di strategie cosmetiche, ovvero di costruzione dell’identità, nella pubblicazione dei contenuti. La prima è definita cosmesi positiva ed è tipica degli utenti che non considerano problematica la presenza di gruppi appartenenti ad ambiti della vita diversi nella loro rete sociale. Questo perché sono in grado di sanno circoscrivere l’appropriatezza contestuale di ogni contenuto postato rispetto a coloro ai quali si rivolgono. Sono utenti che scrivono sapendo che i propri amici in rete sono interlocutori privilegiati perché ritenuti capaci di intendere il senso complessivo di ciò che pubblicano.
La cosmesi negativa si rintraccia, poi, in coloro che vogliono sottrarre i contenuti alla visione di un pubblico generalizzato e ha come obiettivo l’esclusione dei profili che non sono considerati amici intimi o coi quali non si vuole condividere determinati aspetti della propria vita. Essa si traduce in attività di pubblicazione concentrata più su gruppi ristretti. Tipo quando non volete far sapere a vostra madre dove vi trovate e impostate la privacy su «Condividi con tutti tranne…».
L’ Anti-cosmesi è invece la strategia che adottano gli utenti che considerano la pubblicazione dei contenuti come uno sfogo personale in forma scritta. Questi utilizzano il loro profilo senza filtri perché pensano di non avere nulla di cui vergognarsi o da nascondere.
Infine, la cosmesi promozionale è propria degli utenti che utilizzano i social come strumento per cercare approvazione e migliorare la propria reputazione. È una strategia finalizzata a creare interesse e usa la rete amicale per ottenere approvazione rispetto al proprio stile di vita.
L’uso dei social come vetrina implica un’attenta selezione di contenuti che vengono scelti per la loro capacità di esibire le qualità positive dell’utente e qui non c’è bisogno di scomodare personaggi noti come Chiara Ferragni: basta pensare a quelli che chiedono: «Ma hai visto la mia foto? Mettimi like!».
E voi, che tipo di utenti siete?