La storia di Mattia Coffetti è salita alla ribalta delle cronache durante quest’estate a seguito di un’intervista realizzata dall’ANSA. Mattia ha 35 anni, è appassionato di informatica da quando frequentava le scuole medie e oggi è uno di quei classici «smanettoni» che lavorano nella sicurezza informatica. Solo recentemente però ha deciso di smettere di ammirare quel mondo dispotico, cyberpunk e futuristico di cui spesso gli amanti della rete si circondano, per fare il passo più lungo della gamba. Ha deciso, infatti, di impiantarsi dei chip sottopelle, nelle mani per esattezza.
Il primo lo ha fatto nel 2019, tra l’indice e il pollice della mano sinistra. È programmabile come una chiavetta USB, ma può essere utilizzato anche per sbloccare il telefono o scambiare contatti, quasi fosse un biglietto da visita, talmente piccolo da inserirsi con un ago. Quello più grande e invasivo lo ha invece da pochi mesi ed è il classico chip delle nostre tessere bancarie. Inserito con un’incisione, permette a Mattia di pagare in modalità contactless semplicemente appoggiando il dorso della mano al lettore.
Dopo l’incontro con un giornalista, l’esperimento personale di Coffetti ha generato un vero e proprio tam tam mediatico, per cui praticamente ogni testata d’Italia ha ripreso e raccontato la sua storia, intervistandolo o chiedendogli una prova dimostrativa. Poiché Mattia è anche uno dei membri dell’associazione di promozione sociale Berghem in The Middle, che ogni anno organizza a Bergamo la conferenza internazionale di hacking etico «No Hat», ad ottobre ha mostrato questa sua peculiarità durante un talk con la collega informatica polacca Julia Zduńczyk, per capire come questi chip siano soggetti a un attacco hacker e quali siano le conseguenze della violazione.
In questi mesi le reazioni alla sua storia sono state le più disparate, polarizzandosi tra chi sotto ai post che riportavano la notizia si sperticava nell’abuso della definizione «geniale», e chi commentava, inorridito, che questo è solo il primo passo verso la perdita completa di umanità. Eppure, se ci si ferma un attimo a riflettere, la storia di Mattia Coffetti non è poi così strana.
Secondo i dati della Società Italiana di Scienze Mediche, nel mondo circa 3 milioni di persone vivono con un pacemaker, altri hanno un defibrillatore sottocutaneo, mentre molti diabetici giovano dell’installazione di un microinfusore sottocutaneo di insulina. Un altro esempio ci riporta indietro al 2015, quando un team del Politecnico Federale di Losanna (EPFL) aveva realizzato un chip sottocutaneo per misurare simultaneamente la concentrazione di varie molecole nel sangue, come il glucosio e il colesterolo, permettendo ai medici di monitorare in tempo reale lo stato di salute di un paziente o tenere costantemente sotto controllo il dosaggio di un determinato farmaco.
Non è finita. Siamo sempre più abituati a vedere arti bionici, esoscheletri e altri dispositivi robotici che aiutano persone affette da handicap fisici, dovuti a traumi o a malattie neurodegenerative, ad avere una vita normale o a riprendere le proprie funzioni motorie. Nessuno di fronte a questi esempi di tecnologia applicata al corpo umano ha da ridire, nessuno commenta che ci «disumanizzano», come per la storia di Mattia Coffetti. Forse è proprio qui che si trova il vero spartiacque, il confine tracciato, più o meno consapevolmente, dall’utente medio rispetto all’idea di una convivenza biologica con la tecnologia: la malattia.
Se un corpo è malato, l’opinione pubblica accetta più facilmente e senza eccessive preoccupazioni che la tecnologia venga in suo soccorso, anche con elementi che, di fatto, si inseriscono in quel corpo convivendoci in maniera diretta. Diverso è il caso di Coffetti che non si è impiantato dei microchip sottopelle per guarire, ma per dare al suo corpo delle funzioni in più, alcune anche puramente ludiche come il magnete o il led luminoso, che altro non fanno che attrarre piccole parti metalliche o accendersi vicino a una fonte elettrica.
È qui che le definizioni di biohacking e transumanesimo sembrano cambiare, assumendo un significato più intenso. Per intenderci, il transumanesimo è una corrente culturale, particolarmente diffusa nel territorio della Silicon Valley, che auspica l’evoluzione della specie umana grazie all’apporto tecnologico. Secondo i transumanisti, l’essere umano può sbloccare nuove potenzialità della propria natura grazie al progresso tecnologico e scientifico, superando i propri limiti con l’uso di idonei dispositivi. Ingegneria genetica, crionica, nanotecnologia, interfaccia mente-computer, intelligenza artificiale sono tutte tecnologie che possono rientrare in questa definizione.
«Per come intendo io il transumanesimo non è altro che l’eliminazione dei difetti del nostro corpo con la scienza – chiarisce Mattia Coffetti – Qualcuno dice che questo depersonalizza, che porta gli esseri umani ad assomigliare sempre più alle macchine dimenticando sé stessi, ma per come la vedo io si tratta invece di potenziarlo, scegliendo quale caratteristica rafforzare». Sulla questione specifica di un corpo sano e un corpo malato, Coffetti aggiunge: «Anche nel momento in cui sono sano il mio corpo ha dei limiti. Posso avere una depressione stagionale, un periodo in cui non sono all’apice delle mie forze o semplicemente delle difficoltà nella corsa o nella concentrazione. La tecnologia può andare a piallare queste difficoltà fisiche o a potenziare lo sviluppo cognitivo».
Di fatto, è qualcosa di molto simile a quello che già fa la scienza chimica e farmaceutica con delle pastiglie. «Esatto – spiega Mattia – le scoperte scientifiche in ambito medicinale hanno già affrontato tutto questo processo e un domani la tecnologia non potrebbe far altro che monitorare il rilascio di queste sostanze oppure andare a stimolare in maniera diversa determinate aree del nostro corpo». Poteri dunque intesi come doti particolari o come la capacità o la possibilità di fare o non fare qualcosa e per questo scelti consapevolmente e realizzati con una tecnologia specifica da indossare o incorporare. «A me interessa molto questa idea di fare un upgrade del nostro corpo, di portarlo a uno stadio successivo rispetto a ciò che desideriamo, indipendentemente dal fatto di essere sani o malati. Siamo comunque tutti diversi fin da quando nasciamo e allo stesso modo ognuno desidera avere delle capacità diverse rispetto ad altri», conclude.
L’informatico ammette che l’idea di avvicinarsi al biohacking e al transumanesimo gli è venuta anche da esempi culturali come il film «Limitless» del regista Neil Burger, che già nel 2011 raccontava di questa sostanza miracolosa che sblocca il pieno funzionamento del cervello, oltre che dalla storia di un videogioco ambientato in un mondo cyberpunk dispotico come «Deus Ex».
«Sono state due cose che mi hanno portato a ragionare su questi concetti e a decidere di provare a impiantarmi i microchip che ho nella mano – aggiunge Mattia – Se ci pensiamo bene anche l’uso degli esoscheletri potevano sembrare magia fino a qualche tempo fa, mentre ora mappare il cervello o cercare di controllare un computer con il pensiero sono argomenti più scientifici che magici. Ecco, io non voglio credere alle definizioni di “superuomo” che alcuni hanno attribuito anche a me negli articoli. Semplicemente credo che il transumanesimo possa essere una visione di coesistenza fra uomo e tecnologia un po’ più a lungo termine».