C’era una volta l’utopia di una internet in grado di unire le persone in spazi comuni dove dialogare, confrontarsi e discutere. Un mondo ideale pensato dopo la metà degli anni ’90 fatto di forum, siti internet, portali e un accesso alla rete che ruotava attorno ai computer, possibilmente posizionati in luoghi di lavoro o università. Quell’utopia puntava ad azzerare le distanze per farci parlare con tutti di quello che ci piaceva ed è stata il brodo di coltura per un sacco di persone che finalmente hanno scoperto di avere passioni in comune con un sacco di gente e qualcuno ha persino trovato lavoro, creando siti che parlassero di quelle passioni.
Quell’utopia, salvo qualche nobile eccezione, possiamo serenamente darla per morta. Il suo cadavere lo vediamo ogni giorno nelle discussioni inutili, i toni rabbiosi, i confronti sterili e il generale nervosismo che serpeggia nell’internet di oggi, quella che spunta dai telefoni e non ci abbandona mai. C’era anche un’altra utopia, quella venduta dai social network, che oltre proseguire e ampliare il sogno di spazi sociali ci dava anche il brivido di condividerli con i vip, le star, le attrici, i presentatori, gli uomini e le donne della politica. Un mondo disintermediato, vicino, in cui chiunque avrebbe potuto dire la sua e soprattutto far sapere il proprio parere ai diretti e alle dirette interessate. A mente fredda, viene da chiedersi come potevamo pensare che avrebbe funzionato.
È notizia di qualche giorno fa che Tom Holland, attore sulla cresta dell’onda dopo aver interpretato Spider-Man negli ultimi film dedicato all’Uomo Ragno, si è allontanato dai social perché non riusciva più a sostenere la pressione del giudizio continuo a cui internet lo sottoponeva. E non parliamo di un attore over 40, che non riesce a stare al passo con la rete, ma di una persona giovane, uno dei cosiddetti «nativi digitali» che, si suppone dovrebbe essere più a suo agio con determinati meccanismi.
Eppure così non è, anzi, Holland è solo l’ultimo esempio di un fuggi fuggi generale dai social network. Mossa che a volte viene utilizzata per far parlare di sé, come fece tempo fa la cantante Taylor Swift per promuovere il suo album, ma che spesso nasconde anche un disagio o la voglia di non sottostare più alla «fitta sassaiola dell’ingiuria», per citare Branduardi, come accadde a Kelly Marie Tran, attrice di «Star Wars: Gli Ultimi Jedi» che fu presa di mira da migliaia di insulti razzisti e sessisti. Persino Alexandra Ocasio-Cortez, che su Facebook ha organizzato le sue prime attività politiche, ha deciso da tempo di allontanarsene e imporsi dei limiti per accedere ai social.
Che sta succedendo dunque? Beh, sta succedendo che probabilmente anni e anni di social network non ci hanno assolutamente resi persone migliori e più connesse, un po’ come non lo ha fatto la pandemia e quel vaghissimo sentimento comunitario che provavamo applaudendo dai balconi. Anzi, proprio i social network, Facebook in particolare, essendo il più diffuso, hanno alimentato i nostri lati peggiori perché, dobbiamo rendercene conto, sono quelli che funzionano meglio e siamo più disposti a utilizzare senza troppa fatica. Non solo, ma nei social network la nostra performance, la recita che portiamo avanti ogni giorno in modo consapevole o meno, non cessa mai; ogni nostra opinione, ogni foto al mare con l’aperitivo per far vedere che stiamo bene, ogni nostro momento di rabbia condiviso con gli altri, ogni condivisione diventa parte di un grande spettacolo di cui siamo protagonisti, che sappiamo a volte farci male, ma che non riusciamo a mollare se non con un grande sforzo.
E come se non bastasse mentre lo facciamo le nostre azioni e le nostre intenzioni vengono pesate, valutate, rivendute a terzi per alimentare una macchina pubblicitaria che serve a far stare in piedi il baraccone in cui continuiamo la nostra performanc e. Baraccone in cui tutto è pensato per non farci mai andare via, come i casinò che non hanno orologi o finestre per non farti rendere conto del tempo che passa. Pensiamoci anche solo un attimo a mente fredda: come può essere possibile che internet oggi sia costituita da piattaforme dove mettere dei link che vadano all’esterno di essa, e quindi siano perfettamente in linea con i principi fondanti della rete, è un gesto penalizzante?
E come se non bastasse, internet non solo ci ha resi vicini di casa virtuali di Tom Holland, ma ci ha reso i Tom Holland del quartiere. Perché l’altra grande sirena dei social, oltre all’accorciamento delle distanze, è la capacità di coccolare il nostro ego e farci sentire il centro del mondo. Le notizie sono modulate sui nostri interessi, le persone che ci mettono dei like in qualche modo ci validano, abbiamo di fronte a noi costantemente esempi di persone che con internet sono diventate famose, pagate e riverite; ci basta postare la foto di un cassonetto troppo pieno in un gruppo di zona per assaporare la sensazione a metà tra il fare la differenza e l’essere dei vigilanti. Questa droga potentissima ci ha sedotto ma è anche il motivo per cui tanti se ne vanno, per recuperare un po’ il gusto di essere inutili, di sfuggire alla FOMO, la fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa e quindi di non poter partecipare all’eterno dibattito, in cui sicuramente tutti aspettano la nostra opinione.
Già le opinioni, quante ne abbiamo? Sugli altri, sul vestito di quell’attrice, sulle parole di quel politico, su quella serie tv che ha un attore che non ci piace. Siamo costantemente definiti dalle nostre opinioni e dal nostro esternarle e ci viene chiesto ogni giorno di prendere posizione sulla polemica del momento, sia che vogliamo mostrare il nostro progressismo sia che si voglia far parte dell’altra barricata.
Mi rendo perfettamente conto che non è gratificante diventare consapevole di problemi che non si ha la possibilità di risolvere. Internet ormai ha pervaso le nostre esistenze e le nostre abitudini, è essenziale per moltissimi servizi e c’è chi ancora con i social ci lavora benissimo e continuerà a farlo. Ormai è spesso impossibile separare internet da ciò che ci piace fare o dal nostro bisogno di connettersi con gli altri, un po’ come una volta era difficile partecipare al chiacchiericcio scolastico se non avevi visto quel telefilm che guardavano tutti. Ed è anche vero che del decadimento dei costumi dettato dalle nuove tecnologie si parla più o meno dai tempi di Socrate. Il problema è che non sono rimasti più tanti posti in cui “fuggire”, anche solo temporaneamente e non si potrà più tornare indietro ai tempi della prima internet se non dopo un collasso totale della civiltà occidentale che francamente mi darebbe parecchio fastidio.
Cosa facciamo allora? Potremmo provare a fare come Tom Holland, ma non tutti possono permetterselo, e allora possiamo provare a ricordarci ogni tanto che il mondo gira anche se non diciamo la nostra, che se qualcosa è creato per farci provare rabbia e non vede l’ora che la esterniamo allora quel qualcosa non ci fa bene e dovremmo trattarlo con cautela. Dovremmo anche iniziare a capire se quando esprimiamo solidarietà o dispiacere lo facciamo con sincerità o semplicemente per far capire agli altri che siamo bravi. Potremmo iniziare a pesare sulla bilancia i pro e i contri di internet, e i pro ci sono, senza dubbio, e assaporare un po’ d’irrilevanza. Mi rendo conto che suono buffo detto in un articolo di opinione (per di più di materia tecnologica), ma i cambiamenti non si fanno a colpi di coerenza a tutti i costi.
Non è facile, ma possiamo provarci, come andare in palestra dopo anni di stravizi.