Ogni giorno uno sviluppatore si sveglia e sa che deve creare una nuova piattaforma che catturi l’attenzione degli adolescenti. La temutissima generazione Z che considera la tv anacronistica, sfida gli stereotipi, è attenta ai cambiamenti climatici e sostiene le battaglie green.
Tutti propositi molto belli e nobili. Lo sa bene l’industria della moda (tra le più inquinanti), lo sanno bene i brand emergenti e anche quelli che possono contare su uno zoccolo duro. Fior di milioni spesi in campagne pubblicitarie nelle quali aziende come Nike, Coca Cola, Barilla, puntualmente si reiventano perché sanno che per mantenere il proprio successo e conquistare il pubblico – e in particolare i più giovani – devono prendere posizione. Devono dimostrare di sostenere le loro battaglie, devono essere inclusivi, politicamente corretti, usare l’ironia ma sapendola dosare. Devono saper osare, senza offendere nessuno, ricordandosi di utilizzare una comunicazione che non annoi, sia accattivante, diretta e accessibile. Semplice, vero?
Il tutto senza dimenticare che i giovani sono anche stanchi. Stanchi della felicità a tutti i costi che le celebrità esibiscono sui loro profili. Noi vogliamo vedere il dietro le quinte. Vogliamo vedere la vita vera, la realtà senza trucchi, la fragilità, vogliamo commuoverci. Vogliamo, in altre parole, vedere l’umanità di quelle che, al di fuori delle piattaforme, sono persone che hanno i nostri stessi problemi, seppur con un diverso conto in banca.
Il punto è che le celebrità e le piattaforme sono subito pronte ad accontentarci, a darci quello che vogliamo, portando questo ideale alle estreme conseguenze. Il risultato? «Umano, troppo umano», direbbe Nietzsche. I famosi ci mostrano tutto: dal parto alle conversazioni dallo psicologo, le proposte di matrimonio nei posti più improbabili, i litigi d le ecografie. Quei momenti di intimità che, forse, ad un certo punto sarebbe meglio restassero privati.
Come si lega tutto questo coi social network? Le piattaforme social rimandano, fin dal loro nome ad una «forma piatta» che presuppone una comunicazione di tipo orizzontale, nella quale chiunque possiede un account per accedervi, può esprimere giudizi su ciò che scrivono gli altri utenti. Che si tratti di Mark Zuckemberg, Gianni Morandi o di Papa Francesco.
L’orizzontalità appena descritta rende possibile almeno in potenza trattare i post che scrive il Papa come quelli di qualsiasi utente. Nella realtà dei fatti c’è una sostanziale differenza tra i due. Il primo, infatti, per farsi notare deve cercare di condividere post non banali, mentre un tweet del Papa è originale e fa notizia in quanto tale e in ogni caso.
Al di là di ogni nobile principio, i social alimentano un desiderio che esiste da ben prima della nascita di Facebook: sapersi distinguere da tutti gli altri e sfuggire al terrore di restare anonimi. Che poi è quello che paradossalmente ci rende uguali a tutti gli altri. Siamo accomunati dalla nostra voglia di distinguerci che è anche ciò che ci rende indistinguibili.
E dunque, tornando al titolo di questo articolo: dopo esserci nutriti di filtri di Retrica, Photoshop e affini, basta davvero un social network a farci tornare reali? E soprattutto è davvero questo ciò che vuole (e che vogliamo)?
BeReal: la realtà esiste ma ha i minuti contati
Sembra ormai chiaro che, ancora prima di essere una studiosa di comunicazione mediale, sono innanzitutto un’appassionata di social network, pur essendo contraria ad una modalità di espressione che predilige sempre più il ricorso alle immagini a discapito della forma scritta. Essa sopravvive rigorosamente confinata nello status di brevissima didascalia che funge da accompagnamento ai contenuti visivi, rispetto ai quali sembra quasi perdere autorevolezza e dignità. Sta di fatto che non appena un mio amico mi ha raccontato di questo nuovo social, Bereal, che si sta diffondendo tra i giovani, ho voluto assolutamente provarlo.
BeReal è il social media delle foto “vere”. E la verità risiede nel fatto che non si possono ritoccare con filtri o programmi di post-produzione. Gli utenti ricevono una notifica in diversi momenti della giornata e da quel momento hanno solo 2 minuti per scattare una foto e pubblicarla. Due velocissimi minuti in cui condividere un autentico frammento di vita.
l payoff dell’app è «I tuoi amici, davvero» che ne sintetizza la potenza espressiva: si può condividere solo la realtà, o almeno questo è quello che sembra. Dopo averla scaricata, basta inserire le informazioni di base e caricare una foto profilo, o, in alternativa, creare un proprio avatar. Un’altra importante caratteristica di BeReal è che le battaglie a suon di follower e di like sono bandite. Gli utenti possono interagire solo tramite l’emoji che li rappresenta o commentando le immagini dei propri amici “veri”. Al momento si possono caricare solo immagini, gli utenti non possono produrre e postare video. Gli sviluppatori del social, però, hanno subito tenuto a rassicurarci che stanno già lavorando per introdurre nuove interessantissime funzionalità che non vediamo l’ora di provare.
Ho deciso di scaricare BeReal mentre ero in fila alla cassa, per ingannare il tempo d’attesa che mi separava dall’inizio di un weekend di riposo che sentivo di meritare tutto. In fondo ero abbastanza fiera della mia spesa intelligente che consisteva in un pacco di patatine per fare aperitivo, due birre, un pollo al forno pronto da mangiare e riso in scatola che avrebbe rappresentato il pranzo del lunedì. In fondo chi è che ha voglia di mettersi a cucinare dopo aver passato la domenica a poltrire? Io no.
In pochi secondi ho scaricato l’app e inserito il mio nickname, ma c’era qualche passaggio che mi impediva di accedere alla fotocamera. L’app era diventata abbastanza insistente nel dirmi che per procedere dovevo semplicemente cliccare sulla notifica a comparsa. Nel mentre il cliente che c’era prima di me, aveva già posto il separatore che mi intimava di riporre il più in fretta possibile la mia roba sul nastro, mentre la folla di adulti dietro di me acuiva la mia ansia sociale.
Dopo svariati tentativi, finalmente riesco a cliccare la notifica, si apre la fotocamera esterna che inquadra la mia spesa che ha già perso il suo fascino. Nel frattempo il cliente che mi precede ha già pagato, la cassiera mi chiede se ho la tessera, se voglio un sacchetto, se pago con carta o bancomat, se faccio la raccolta punti e se un giorno vorrò avere dei figli. In contemporanea parte il timer della fotocamera interna, mi sforzo di rispondere a tutte le domande e sorridere all’obiettivo che mi inquadra, il tutto sperando che nessuno si accorga di quello che sto facendo. O meglio, fingendo che non sia così.
Salvo senza neanche guardare il risultato finale, non ho tempo. Ripongo tutto nel sacchetto e scappo per sfuggire alla lapidazione di quelli che vengono dopo di me. Esco, recupero il telefono e guardo il mio nuovissimo prodotto editoriale. Vedo la mia faccia fintamente sorridente in miniatura e sullo sfondo una serie di alimenti che se li avesse visti mia madre avrebbe sentenziato: «È così che pensi di essere diventata adulta?». Ma, del resto, se BeReal vuole la realtà, realtà sia. Premo invio. Poi vado a controllare chi sono gli spettatori di questo ritaglio di vita “vera” e lì faccio un’amara scoperta: non avevo nessun amico, ancora.
Sei reale o sei fake?
Siamo ossessionati dal bisogno costante di essere originali per distinguerci dagli altri, mentre vogliamo essere parte di un gruppo. E questo bisogno di originalità, di spogliarci dei fronzoli che la realtà mediata ci consente crea una doppia relazione tra verità e originalità, riassumibile nei sillogismo: ciò che è reale è vero, ciò che è vero è originale, ciò che è originale è reale. E questa sembra essere la regola non dichiarata di BeReal.
Almeno nelle aspirazioni, la socialità che trova espressione nei social network abbatte il muro che separa gli esclusi e gli emergenti. La motivazione che permette ai social di proliferare è quindi un confluire di persone che non vogliono restare escluse. Ci si iscrive ad un social network proprio perché è molto frequentato, così come si guardano le serie televisive di successo e si comprano gli smartphone più diffusi. Alla base vi è il desiderio nascosto di essere come tutti che conferma che nessuno di questi generi e prodotti viene percepito, negativamente, come «luogo comune», anche se «luogo comune» lo è ognuno di loro, e lo è in quanto tale, per definizione.
Gli elementi di distinzione vengono ricercati invece nei dettagli: gli accessori, i colori, le inquadrature, le sfumature, un capo indossato in modo inusuale, una citazione presa da un libro, un particolare font. Il luogo comune viene così appropriato, deviato, personalizzato, come un tag apposto sul proprio stesso profilo, o pollice su un autoritratto.
Finché luogo comune non ci separi (o ci renda tutti uguali)
L’originalità sui social afferma la necessità di essere distinti: la banalità è caricata di valore negativo e occorre dunque riuscire ad essere originali o sembrarlo nelle intenzioni. I social media ne costituiscono la sede per eccellenza di questo principio. Ma, paradossalmente, la loro forza è fondata sulla loro diffusione e sulla possibilità di potervi accedere in massa. Sui social network quindi l’originalità convive con gli stereotipi, l’orizzontalità con le gerarchie, l’indipendenza con la voglia di interagire e commentare. A mettere ordine in questo contesto, in cui gli opposti sembrano poter convivere pacificamente, o quasi, è il tempo.
La passerella del successo, su cui si alternano di volta in volta i vari social network del momento, si costituisce sulla base di un asse temporale esistente ma non dichiarato, in cui differenza e ripetizione si alternano. I social introducono, rafforzano, aboliscono e re-introducono i loro stereotipi, mischiando i temi su cui si alimentano le diatribe. Per trovarne le ragioni che giustificano la loro esistenza che si collocano a metà strada tra l’essere iscritti su una piattaforma e non esserlo (già) più.
Del resto, anche l’immediatezza ha i suoi pro e i suoi contro. Quali sono i compromessi che siamo disposti ad accettare in nome di una condivisione istantanea che ci spinge a voler far parte di qualcosa mentre la stiamo già disprezzando? Ben vengano i social network che disprezzano la finzione, ma è anche bene in questa sede, concludere ricordando una frase di un autore anonimo, probabilmente disperso tra le varie didascalie delle foto sorridenti delle vacanze al mare: «Dei momenti migliori non conservo foto».