Trump ha promesso di uscire dagli Accordi di Parigi sul clima, di implementare misure estremamente restrittive contro l’ingresso di migranti irregolari dal Messico e di tagliare la spesa pubblica di ben duemila miliardi di Dollari, tra le altre cose. Per raggiungere il suo obiettivo di razionalizzazione estrema del budget statunitense, il Presidente Eletto ha previsto la creazione del cosiddetto “D.O.G.E.”, il “Dipartimento per l’Efficienza Governativa”. A dirigerlo ci saranno Vivek Ramaswamy e Elon Musk: il primo è un esponente della grande industria americana e un ex-rivale politico di Trump (i due si sono scontrati durante le Primarie del Partito Repubblicano); il secondo non ha certo bisogno di presentazioni. La presenza di Elon Musk nell’esecutivo Trump, però, rappresenta un rebus enorme - anzi, un dilemma politico per lo stesso Presidente - su un tema scottante: quello delle auto elettriche e della transizione green. E non solo per gli Stati Uniti, ma anche (e soprattutto) per l’Europa.
«Drill baby, drill»
Una delle promesse elettorali ricorrenti di Donald Trump è stata quella di ridurre gli impegni degli USA nella protezione del clima, ritirandosi dai principali accordi internazionali per la lotta al cambiamento climatico. Il primo obiettivo del neo-Presidente sarà l’Accordo di Parigi del 2015, che cerca di limitare l’aumento delle temperature medie del pianeta a 2°C e, poi, di ridurlo a 1,5°C. Trump ha già fatto sapere che firmerà la fuoriuscita americana dal trattato non appena arriverà allo Studio Ovale, a gennaio. Per questo, la notizia dell’elezione di Trump ha fatto naufragare i lavori della COP29 di Baku. Dopo gli Accordi di Parigi, Trump se la prenderà con l’Inflation Reduction Act (IRA) varato da Joe Biden nel 2022. L’IRA rappresenta il più grande investimento nella storia degli Stati Uniti sulla transizione ecologica e sulla produzione di energia pulita, ma contiene anche una serie di misure sociali volte a ridurre i prezzi di alcuni medicinali e a tenere sotto controllo la spesa pubblica, con il fine ultimo di evitare l’innalzamento dell’inflazione. Il blocco dell’IRA, con ogni probabilità, fermerà molti progetti legati alle fonti energetiche rinnovabili, come il solare e l’eolico, favorendo invece il ritorno al consumo delle fonti fossili: d’altro canto, lo stesso Trump è da sempre un grande sostenitore del fracking per l’estrazione di gas e petrolio - “drill baby, drill” aveva detto in campagna elettorale.
Mettere in pausa l’IRA significa anche congelare la legislazione sulle emissioni di CO2 negli Stati Uniti almeno fino al 2028. Per farla semplice, le aziende americane non saranno più obbligate a ridurre di anno in anno la quantità di anidride carbonica che produrranno, rallentando così il progresso verso l’industria a impatto zero. Un’altra misura molto criticata da Trump sono gli incentivi fino a 7.500 Dollari di credito fiscale per chi compra un’auto elettrica. Secondo l’esperto di clima dell’AP Matthew Daly, l’IRA verrà abolito nei primi mesi del 2025. Un po’ perché l’amministrazione Trump è uno dei governi più scettici al mondo nei confronti del cambiamento climatico. Un po’ perché le multinazionali del petrolio si aspettano qualcosa in cambio, dopo aver finanziato la campagna elettorale (e la difesa in tribunale) del neo-Presidente. E un po’ perché il tycoon considera l’IRA una spesa inutile che, per giunta, favorisce le auto straniere. Su quest’ultimo punto, in effetti, Trump non ha tutti i torti. I dati sul mercato internazionale degli EV (Electric Vehicles) ci dicono che l’azienda con il maggior numero di vendite è la cinese BYD, con 1,2 milioni di auto immatricolate tra gennaio e maggio 2024. Tesla è solo seconda, con la metà delle vendite nello stesso periodo di tempo. Nella top ten troviamo poi altre quattro compagnie cinesi (Wuling, Geely, Li Auto e Aito) e quattro europee (BMW, Volkswagen, Mercedes e Volvo). Per trovare un’altra casa automobilistica americana, occorre scendere al 19esimo posto, occupato da Ford con poco meno di 70.000 auto vendute in sei mesi.
Il primato cinese sulle auto elettriche
Per l’amministrazione Trump, il cambiamento climatico non esiste, o quantomeno è un problema meno grave di quanto si pensi. Dunque, la transizione green diventa una questione puramente economica, e sovvenzionare gli americani che comprano automobili cinesi non è una buona idea. La bilancia commerciale americana è infatti da sempre in negativo rispetto alla Cina (vale a dire: gli Stati Uniti importano da Pechino molto più di quanto esportano). E poi il settore dell’automotive nordamericano - un tempo fiore all’occhiello del Paese - oggi è in rovina, e le aree più colpite dalla delocalizzazione della produzione automobilistica e dalla concorrenza cinese sono quelle della cosiddetta rust belt, lo zoccolo duro del trumpismo. Ma come ha fatto la Cina a diventare un rivale così temibile per gli Stati Uniti (e non solo) nel campo delle auto elettriche? La storia del successo cinese negli EV è stata raccontata con dovizia di particolari dal giornalista ed esperto di Asia Simone Pieranni, nella puntata 91 del suo podcast “Altri Orienti”. Per farla breve, i motivi dell’ascesa cinese nel settore dell’automotive “verde” sono due. Il primo è che Pechino ha capito subito la portata rivoluzionaria dell’elettrico, iniziando a investire molto presto nella produzione di batterie di grandi dimensioni e a basso costo. È per questo stesso motivo, per esempio, che tanti pannelli fotovoltaici domestici, sistemi di accumulo e persino powerbank per smartphone vengono prodotti in Cina e importati in Occidente: le batterie cinesi sono migliori e costano meno di quelle americane ed europee. Dopo aver colto la portata rivoluzionaria degli EV, Pechino ne ha sostenuto la crescita con la pianificazione centralizzata dello sviluppo industriale e con enormi commesse statali per autobus e taxi elettrici, “pompando” le aziende nazionali con fondi statali e finanziando la ricerca.
In secondo luogo, la Cina ha accesso a tutte le materie prime per la produzione delle batterie. Non solo di quelle delle auto elettriche, sia ben chiaro, ma di tutte le batterie sulla faccia della terra: dalla Cina, secondo il rapporto sui Materiali Critici dell’IEA, arrivano il 90% della grafite e il 77% delle terre rare consumate su scala mondiale, entrambi materiali di vitale importanza per la produzione delle batterie e dei chip (anch’essi una componente fondamentale di ogni auto elettrica moderna).
Per contro, gli Stati Uniti importano il 100% della grafite che utilizzano per la loro produzione industriale. La conseguenza è che gli USA sborsano di più per le materie prime, perché devono pagare i costi di trasporto dalla Cina o dall’Australia. Questi costi, uniti a dei salari della manodopera mediamente più alti rispetto al colosso asiatico, rendono le batterie delle automobili americane semplicemente troppo care perché queste ultime possano essere vendute su larga scala. Non a caso, il brand di EV statunitensi di punta è Tesla, che produce vetture pensate per il segmento medio-alto del mercato, quello al di sopra dei 30.000 Dollari.
Se il gap tecnologico si può colmare (lo ha dimostrato, in passato, proprio la Cina), la differenza nella dotazione naturale di minerali non è risolvibile in alcun modo. Gli Stati Uniti lo sanno, e per questo parlano di una concorrenza sleale della Cina nei confronti del resto del mondo nella produzione di auto elettriche. E come si fa a farla pagare a un concorrente sleale? Con le sanzioni e i dazi, una delle armi preferite da Trump.
Il “triangolo” tra Elon Musk, Donald Trump e l’industria del petrolio
Il 30 novembre, Trump ha minacciato altri dazi contro la Cina, che dovrebbero colpire ogni categoria di prodotto e che dovrebbero essere pari al 10% del prezzo dei beni importati negli USA da produttori cinesi. La mossa è stata giustificata come parte di una più ampia guerra alle importazioni illegali di fentanyl, una droga di origine asiatica che negli USA è diventata una vera e propria piaga sociale. Ma la verità è un’altra: Trump spera di colpire le auto elettriche e la tecnologia, riducendo le importazioni cinesi verso gli Stati Uniti in questi due settori e favorendo la produzione nazionale. E qui torna in gioco Elon Musk, che, tra le altre cose, è anche il CEO di Tesla. Tesla verrebbe duramente colpita da un’eventuale abrogazione dell’IRA, perché le sue auto diventerebbero semplicemente troppo costose per il ceto medio americano. Ma, in maniera quasi paradossale, Tesla potrebbe iniziare a vendere più veicoli di prima se rimanesse un player quasi monopolista nel mercato EV statunitense: le sanzioni di Trump si sommeranno a quelle - pesantissime: 100% sulle auto elettriche, 50% sui pannelli fotovoltaici e 25% sulle batterie agli ioni di litio, comprese quelle degli EV - approvate da Joe Biden a maggio. A furia di sommare dazi su dazi, negli Stati Uniti le auto elettriche cinesi potrebbero finire per costare di più delle (già molto care) vetture di Tesla, che diventerebbe una scelta quasi obbligata per i cittadini americani - anche perché le concorrenti locali, come General Motors, Ford e Jeep, producono meno del 10% del volume di auto elettriche dell’azienda di Elon Musk.
Il rovescio della medaglia è che, se davvero questo scenario dovesse diventare realtà, gli americani dovranno pagare molto di più per mettere le mani su un’auto elettrica, perché quelle cinesi costeranno almeno il doppio a causa dei dazi e quelle nazionali non beneficeranno più del credito d’imposta connesso all’IRA. Così facendo, però, Trump avrà trovato la quadratura del cerchio. Farà felici i magnati del petrolio che lo finanziano, perché la classe media non potrà più permettersi un’auto elettrica e dovrà ricorrere ancora a benzina e diesel. Al contempo, accontenterà anche Elon Musk, perché Tesla potrà accrescere le sue vendite occupando parte dell’enorme quota di mercato di BYD e Geely, una volta che le due aziende saranno estromesse dal suolo statunitense a suon di dazi. In un settore in contrazione, cioè, Tesla sarà l’unica azienda a crescere, diventando quasi monopolista. Questa bislacca alleanza tra Elon Musk, l’industria petrolifera e il 47° Presidente americano potrebbe facilmente durare fino al 2028, quando il mandato di Trump scadrà e toccherà al suo successore riaprire un dossier che si sarà fatto ancora più spinoso. Anche perché, nei prossimi quattro anni, non ci sarà alcuna spinta all’innovazione nel campo delle batterie, e così gli Stati Uniti non recupereranno più le posizioni perse nella corsa tecnologica contro la Cina. Cina che, a sua volta, ha già avvisato che i dazi americani potrebbero portare a una guerra commerciale su larga scala, che potrebbe incidere in negativo sull’intera economia globale.
E noi come siamo messi?
A fare le spese della guerra commerciale tra USA e Cina saranno soprattutto gli europei, e dunque anche noi italiani. A ottobre, la Commissione Europea ha aumentato i dazi sulle auto elettriche cinesi, che ora toccano il 45,3% del loro costo di produzione. Sfuggono agli aumenti solo BYD (con tariffe al 17%) e Geely (al 18,8%), mentre la Cina ha risposto incrementando le sue sanzioni contro i produttori europei, come BMW, Volkswagen e Mercedes-Benz, richiedendo di pagare tasse pari al 39% del costo di produzione dei veicoli quando questi entrano nel mercato cinese. Pechino ha colpito prevalentemente le auto con motore a combustione, e non quelle elettriche: d’altro canto, il mercato EV cinese è praticamente monopolizzato dai produttori interni e gli europei non fanno paura. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, insomma, si potrebbe prefigurare un secondo triangolo: sanzioni americane contro Cina ed Europa (già annunciate), contro-sanzioni di Bruxelles e Pechino contro Washington e infine dazi reciproci tra UE e Cina. Un incubo per chi ha in programma acquistare un’auto elettrica dal 2025 in poi: i prezzi si alzeranno e la transizione verso una mobilità più sostenibile procederà a rilento. Il vertice più debole di questo triangolo di sanzioni reciproche, però, è proprio l’Europa: mentre Cina e USA hanno dei produttori nazionali capaci di assorbire la domanda di EV a prezzo (relativamente) basso, le case automobilistiche europee impegnate nell’elettrico sono solo quelle di fascia alta. In altre parole, le auto elettriche diventeranno ancora più un lusso nei prossimi mesi, in Europa molto più che all’estero. Non si tratta solo di una questione economica, ma anche ecologica: l’Unione Europea, paladina di un mondo verde e sostenibile, potrebbe finire per diventare il fanalino di coda della mobilità 2.0.