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Vincenzo «Charlie» Guerini e quelle Olimpiadi che lo resero «un uomo di mondo»

Articolo. A pochi mesi dalle Olimpiadi di Parigi, l’ex velocista di Vertova Vincenzo Guerini condivide commosso i suoi ricordi. Dall’amicizia con l’atleta Yossef Romano, tra le vittime della strage di Monaco del 1972 ai Giochi di Montreal nel 1976, passando per il legame profondo con il compagno di squadra Pietro Mennea

Lettura 5 min.
Vincenzo Guerini mostra la casacca usata nella sfilata delle Olimpiadi di Montreal 1976 (Foto Marco Cangelli)

Il nome di Yossef Romano è rimasto impresso nella memoria di Vincenzo Guerini. A distanza di oltre cinquant’anni da quel 5 settembre 1972, il velocista di Vertova non ha dimenticato i capelli ricci del sollevatore di pesi di cui era diventato amico, complice anche la vicinanza nel Villaggio Olimpico tra la palazzina dell’Italia e quella di Israele. Una coincidenza tragica come il destino di Yossef che, nonostante sia trascorso oltre mezzo secolo, lascia ancora attonito Vincenzo. «Com’è possibile che sia andato a fare le Olimpiadi e non sia mai tornato a casa?».

Quel giorno, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi che ospitavano gli atleti israeliani. Ne morirono undici. «Non sapevamo cosa stesse succedendo, sapevamo soltanto che stava accadendo qualcosa di grosso. Dal nostro terrazzo vedevamo un uomo con un basco coloniale parlare con i poliziotti. Si trattava di uno dei terroristi. Ricordo che la sera, mentre eravamo in una delle arene per vedere gli spettacoli realizzati per noi atleti, si alzò in volo un elicottero con all’interno gli ostaggi schiacciati contro il vetro. Solo il giorno dopo avremmo saputo che nessuno di loro ce l’aveva fatta».

Se quella pagina tormenta ancora oggi Vincenzo, dall’altra parte quando si parla di Olimpiadi i suoi occhi iniziano a brillare. La partecipazione a Monaco 1972 e a Montreal 1976 lo ha per certi versi lasciato sorpreso, ma al tempo stesso lo ha fatto diventare un “uomo di mondo”, proprio lui che è nato e cresciuto in Val Seriana. «Quando a Monaco ci trovavamo all’esterno dell’Olympiastadion e ho sentito chiamare l’Italia per la cerimonia d’apertura, mi sono chiesto: “Cosa ci faccio io che sono di Vertova?”. Quando sono entrato, ho capito però che non ero più soltanto un azzurro, ma ero diventato un olimpionico. Lo stesso è accaduto quattro anni dopo, durante quella che sarebbe stata la mia ultima Olimpiade, visto che la mia vita sarebbe cambiata con la nascita di mia figlia – racconta – Se torno indietro e ripenso alla mia carriera, non posso che ricordare tutti quei ragazzi che ho conosciuto e che mi hanno consentito di crescere».

Dal calcio all’atletica

Il percorso di Vincenzo per arrivare alle Olimpiadi è tutt’altro che semplice. Il suo primo grande amore è infatti il calcio, dove milita nella squadra del paese prima di un provino con l’Atalanta. A diciassette anni le sue doti da velocista vengono però alla luce grazie al professore di educazione fisica, che lo fa correre ai Campionati Studenteschi. Guerini vince i 100 metri in 11 secondi netti: un tempo eccezionale per un ragazzo di quell’età, che subito lo spinge sotto l’ala protettiva del professor Angelo Gatti, scopritore fra gli altri di Giacinto Facchetti. «Mi allenavo due o tre volte alla settimana, ma il mio tempo non migliorava mai. Dopo un anno, mi sono arreso ed ero pronto a lasciare tutto, ma il professor Gatti mi ha chiesto ancora due settimane. È stato come togliere la nebbia dal mio cervello. Mi sono sbloccato e sono andato sotto il muro degli undici. Tempo un anno ed ero in Nazionale».

È proprio con la maglia azzurra che Vincenzo Guerini diventa quello che ora conosciamo, quell’atleta minuto con gli occhiali che ricorda così tanto Charles Edward Greene, campione olimpico della staffetta 4x100 metri a Città del Messico 1968, che il bergamasco incontrerà e batterà qualche anno dopo all’Arena di Milano. Da quel momento, Guerini diventerà per tutti «Charlie» e in Nazionale incontrerà due grandi della storia di questo sport: il professor Carlo Vittori e il compagno di squadra Pietro Mennea.

«Era la fine del 1970, l’era di Livio Berruti e Sergio Ottolina era ormai tramontata a Città del Messico e la Federazione era a caccia di nuovi talenti. Il professor Vittori ci ha quindi convocati a Roma all’Acqua Acetosa in 17 per un raduno invernale, al termine del quale abbiamo partecipato a un triangolare con la DDR e la Norvegia. Io ho vinto i 100 metri all’esordio con la Nazionale, Pietro i 200, ma lui era due anni più giovane di me e soprattutto era fortissimo – sottolinea Guerini – A quel punto siamo andati agli Europei e abbiamo ottenuto il bronzo in staffetta, mentre alle Olimpiadi siamo arrivati ottavi nel 1972 e sesti nel 1976 giocandoci per certi versi una medaglia, anche se abbiamo dovuto arrenderci a causa delle condizioni non perfette di uno dei membri del quartetto».

L’amicizia con Pietro Mennea

Fra Pietro e Vincenzo è nata così un’amicizia che è andata ben oltre il campo e che ha visto il vertovese e la “Freccia del Sud” condividere tanti momenti belli e più complicati. A testimoniare quel rapporto c’è il libro autografato di Menna inviato dallo stesso a Guerini pochi giorni prima di morire. Lì dentro c’è una lettera scritta dall’orobico in occasione del record del mondo dei 200 metri e una foto che raffigura Pietro e Vincenzo al termine dei Campionati Italiani 1976 in attesa dell’esito dei giudici.

Una serata molto particolare che, come racconta Guerini, è rimasta un unicum nella sua carriera. «Pietro mi ha fatto spesso dannare quando correvamo in staffetta, perché io scattavo molto veloce dalla prima corsia e lui, sapendo della mia destrezza, partiva prima nella zona di cambio. L’ho sempre preso, però certe volte mi ha fatto penare parecchio. Ci siamo sempre rispettati, tanto che lui sapeva benissimo che io ero molto forte in partenza, motivo per cui per battermi doveva risalire in progressione, altrimenti si sarebbe bruciato e non mi avrebbe mai preso – illustra Guerini – Il destino ha voluto che vincessi i Campionati Italiani prima di entrambe le mie Olimpiadi, ma è stata la seconda volta che è successo qualcosa di particolare. Entrando in campo, lo starter, che tendenzialmente non parla mai, mi ferma e mi dice: “Charlie, questa è la tua serata”. Io rimango abbastanza allibito, ma parto bene e riesco a frenare la rimonta di Pietro. Al traguardo si scatena quindi una grande confusione, c’è chi dice che ho vinto io, chi Pietro, anche perché lui doveva presentarsi alle Olimpiadi da campione italiano. Si crea un capannello di dirigenti mentre io e lui aspettiamo per due ore l’esito, disinteressati da quale possa essere il risultato. Alla fine, mi viene attribuita la vittoria, nonostante qualcuno avrebbe preferito lui».

Nonostante le numerose richieste provenienti dai principali club italiani, Vincenzo non ha mai lasciato l’Atletica Bergamo 1959, dove è cresciuto e ha sempre ricevuto un sostegno morale. Le offerte sarebbero state particolarmente allettanti considerato che avrebbe avuto l’occasione di diventare professionista, ma alla base di tutto c’è una promessa rilasciata dal presidente Giulio Mazza: «Una volta mi convocò nel suo studio dicendomi che non avrebbe potuto offrirmi quando mi proponevano le altre società, ma promettendomi che insieme a lui sarei andato lontano. Ho seguito il suo consiglio ed effettivamente ha avuto ragione, tant’è che nel 1978 mi sono trasferito a Milano. Ho conquistato il mio ultimo titolo nei 60 metri indoor, ma dopo pochi mesi ho dovuto fermarmi per sempre per via di una serie di problemi fisici».

Quegli scarpini, Vincenzo li conserva ancora in una scatola. Li mostra praticamente intonsi, come la casacca azzurra utilizzata nella sfilata di Montreal 1976, il tutto racchiuso in un armadio pieno di ricordi e sovrastato dal “coppone” consegnatogli in occasione del titolo italiano vinto nel 1972. Il tempo è trascorso, ma guardando l’Italia di oggi Guerini sogna. Pensa a quel mancato trionfo agli Europei di Roma 1974, che ancora oggi brucia, così come alle possibilità che Roberto Rigali riporti una medaglia all’atletica bergamasca.

«Quando Roberto è arrivato a Bergamo, gli ho detto: “Se ci credi, ce la puoi fare” e sinceramente penso che con lui si possa chiudere un cerchio che abbiamo aperto noi. Guardando come gareggia la staffetta italiana ora, ricordo l’impostazione che avevamo affinato noi con il professor Vittori cinquant’anni fa. Quando oggi sento Sofia Goggia dire “Mola mia”, sento quelle parole risuonarmi dentro perché anch’io ero così… Dopotutto Vincenzo Guerini non lo prendeva nessuno, nemmeno gli americani, che mi sono ritrovato dietro per due volte alle Olimpiadi».

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