Sono le otto e mezza del mattino, a Bergamo. La giornata è umida, nebbiosa, di quelle che sembra di sentire il freddo nelle ossa ancora prima di uscire di casa. Forse è per questo che quando Andrea Bonanomi mi saluta dallo schermo del computer, non posso che spalancare gli occhi. A Brisbane, in Australia, sono le 18.30 e c’è luce. «Sì, ma non sorprenderti – mi dice – Qui il tramonto impiega dieci minuti, quindi dalle sei e quaranta alle sei e cinquanta già c’è buio».
Il nostro incontro comincia così, all’inizio della mia giornata e alla fine di quella di Andrea. Trentasei anni, nativo di Ponte San Pietro, da venti mesi Andrea Bonanomi ha lasciato Singapore, dove ha lavorato a lungo per l’azienda di logistica DHL, per trasferirsi tra la Gold Coast e la Sunshine Coast australiane, paradiso di surfisti e nuotatori. «Ho voluto lanciare la mia attività qui. Praticamente una specie di Uber per “dry cleaning” (lavaggio a secco, ndr) e qualsiasi servizio per la persona. È qualcosa che va molto nelle grandi città, come Melbourne o Sydney. Quando hai bisogno di una camicia, lavata e stirata, noi andiamo a prendere le tue cose, facciamo la tua lavanderia e la consegniamo il giorno che vuoi, a casa o in ufficio».
Che ad Andrea Bonanomi piacciano le sfide, è chiaro fin dai suoi primi racconti. Nel dicembre 2024, ha partecipato alla Antarctic Ice Marathon, la maratona più fredda del mondo. L’ha vinta, con un tempo di 3 ore, 23 minuti e 37 secondi.
«Io non sono un corridore, non mi piaceva correre, quindi è veramente una cosa strana – ride – Ho iniziato a correre ai tempi di DHL a Singapore, con un gruppetto di persone a pranzo, in pausa dal lavoro. È tutto un po’ nato in questo modo, poi è diventato qualcosa di più. Con un signore di Singapore di circa 65 anni abbiamo iniziato una community per persone che cadono in depressione oppure non si sentono più stimolate nella loro vita. E quindi pian piano abbiamo creato un circolo, cercando di unire l’utile, quindi il benessere fisico, al benessere mentale. Abbiamo fatto un paio di raccolte fondi per una società di Singapore che si chiama Running Hour e aiuta persone con disabilità fisica, persone non vedenti o ipovedenti, oppure in carrozzella».
Da polo a polo
Quando si comincia a correre, non ci si ferma più. Il viaggio che ha portato Andrea Bonanomi tra i ghiacci dell’Antartide è durato anni. «Nel 2018, sempre con Thomas Hennessy, questo amico di Singapore con cui è nata la community, abbiamo cominciato a maturare l’idea di collegare “virtualmente” il Polo Nord e il Polo Sud, attraverso la corsa. Abbiamo lanciato, tramite anche DHL, una campagna globale per cui ogni nazione, ogni settimana, chiamava a rapporto le persone che facevano un tot di chilometri di corsa. Abbiamo raccolto centomila persone: ogni nazione aveva la nostra bandiera simbolica e la portava con sé, è stato bellissimo».
Con Thomas, Andrea corre al Circolo Polare Artico, in un’isola dell’arcipelago di Svalbard. Sogna di chiudere l’avventura – Pole2Pole è il nome del progetto – all’estremità opposta del pianeta. Si iscrive così, grazie ancora una volta alla sponsorizzazione di DHL («partecipare costa più di 20 mila euro» rivela), alla Antarctic Ice Marathon.
Ventiquattro ore di luce
Gli occhi di Andrea Bonanomi brillano al di là dello schermo. Sono gli occhi di chi, mi confessa, ha capito di non voler limitarsi a esplorare, ma vuole vivere ogni angolo del mondo. «L’Antartide è un luogo magico. Il panorama che abbiamo incontrato non assomigliava a quello del Circolo Polare Artico. Sembrava un panorama lunare, anche se non sono mai stato sulla luna» ride. Al Polo Sud non ci sono punti di riferimento. Le concezioni di spazio e di tempo, per come le conosciamo noi, sono distorte. «Vedi una montagna a una distanza che per te può sembrare di 3-4 chilometri e contatti la guida e lei dice che è a 20 chilometri. Perché ovviamente l’altezza di quella montagna non è rapportabile a niente».
C’è un piccolo aeroporto in Antartide. Ci si arriva, nel caso dell’Antarctic Ice Marathon, partendo da Punta Arenas, quella piccola penisola che si trova fra lo stretto di Magellano e il Cile. Si vola dalla Patagonia verso una zona del mondo che appare solida, ferma, e al tempo stesso in movimento perpetuo e continuo. «La superficie sembra un mare ghiacciato. Lo capisci quando atterri: vedi una distesa come se fosse un fiume o un ghiacciaio con delle piccole onde che sono tutte ghiacciate e si spostano di una ventina di metri ogni anno. Quindi tu sei in un posto che in realtà si sposta sempre un po’ perché sotto è costituito da tanti laghi di differente densità, e queste correnti si muovono una contro l’altra».
In Antartide, le ore di luce sono ventiquattro. Occorre coprirsi immediatamente quando si scende dall’aereo, tenere gli occhiali da sole o, ancora meglio, una maschera. Andrea si ritrova in un campus di circa 50 tende per i visitatori e gli atleti, più una decina di main tent, tra tende per lo staff, il briefing, tende per mangiare e per le docce. «C’era un secchiello che riempivamo di neve e un rubinetto di acqua calda che funzionava tramite la luce solare, quindi tantissima energia veniva adibita al riscaldamento di questa piccola quantità di acqua. Noi riempivamo il nostro secchiello e ci aggiungevamo un pochino di neve per regolare la temperatura. C’era un tubo che poi aspirava l’acqua e azionando il soffione della doccia avevamo 180 secondi per terminare di lavarci ».
La pulizia, in Antartide, è una cosa molto seria. «Tutte le sporcizie, le scorie umane, i rifiuti organici non possono rimanere, devono essere portati fuori dal continente. I batteri, infatti, a quelle temperature resistono, non muoiono mai. Possono essere nemici della flora e della fauna del luogo, che invece è necessario preservare».
I partecipanti alla maratona sono una novantina. Vengono da tutto il mondo: ci sono gli atleti, poi c’è chi ha sfruttato la possibilità della gara per vedere l’Antartide. «È stato bello sentirsi parte di una comunità internazionale, anche per me, che sono generalmente una persona introversa. Ancora oggi sto mentalmente rivivendo le storie di chi ho incontrato. C’erano persone che correvano per raccogliere fondi a favore di qualche charity, una signora di Perth che ha sconfitto il cancro; due fratelli che hanno corso insieme, anche loro hanno avuto un’esperienza di tumori sconfitti e hanno tramutato la loro esperienza in raccolta fondi a favore di compagnie e organizzazioni rivolte a pazienti che affrontano situazioni delicate. C’era un ragazzo cinese che avevo già visto alla maratona della Grande Muraglia nel 2018 e che l’aveva vinta: un atleta straordinario che ha corso più di 450 maratone».
Il vento, davanti e dietro
Con il sole che batte perennemente si dorme poco. La tenda ripara dal vento e dalle temperature glaciali, meno venticinque gradi costanti, ma non dai raggi solari. Andrea, in quattro giorni, dorme circa tre ore. L’emozione è troppa persino per mettersi a scrivere, cosa che fa di solito, utilizzando le note del telefono.
Come ci si orienta in Antartide è una delle prime domande che faccio al mio interlocutore, appena comincia a raccontarmi come si svolge la gara. «C’era un tracciato, una sorta di rettangolo di 10 chilometri. La maratona è di 42 chilometri, per cui lo fai quattro volte circa. Prima della gara, gli organizzatori ci fanno vedere più o meno com’è dall’alto, dove sono i crepacci e quindi dove stare».
Si parte tutti insieme, facendo attenzione non solo al freddo, ai raggi del sole, ma anche all’ipersudorazione. «Essendo un rettangolo, le fasi erano due. La prima fase era a favore di vento, andava quindi tutto molto bene, ti scaldavi, avevi il sole alle tue spalle. La seconda fase era completamente controvento e ti assicuro che un vento così tagliente non l’ho mai trovato. Dovevi considerare 10-20 gradi in meno. Sentivo pizzicare la pelle ogni 500 metri, mi toccavo il naso e le guance, perché volevo controllare se rispondessero al comando e spesso e volentieri il naso non lo sentivo. Quindi cosa facevo? Tiravo su lo scaldacollo fino al naso, lo scaldavo e poi lo tiravo giù. Il problema è che con il calore del respiro lo scaldacollo si ghiacciava, quindi lo giravo indietro verso la nuca, e allora accadeva che la nuca era calda e si scioglieva, ma si ghiacciava davanti. Alla fine ho optato per rimuovere il guanto, usare il calore delle mani, metterle sul naso. Il naso si riscaldava, ma la mano intanto si ghiacciava e vedevi le stalattiti formarsi sul braccio… Allora si doveva ricambiare mano, ricambiare guanto, rimettere l’altro… Insomma, la prima fase molto bene, la seconda metà del tracciato è stata una preghiera continua».
Andrea corre, si ritrova da solo dopo il primo giro e mezzo, sente l’adrenalina salire. «Gli ultimi 25 chilometri non avevo riferimenti, era tutto un sentire la frequenza e la cadenza dei miei piedi sulla superficie e cercare di calcolare una specie di cadenza musicale. Se il ritmo che stavo impostando rimaneva uguale, allora andavo bene; se cominciava a rallentare o ad andare più forte, voleva dire che era il caso di rallentare o di accelerare. Non era più una cosa visiva, di distanza, era veramente una cosa musicale… Per tre ore ero io, il nulla, il bianco, il silenzio e il rumore dei passi».
Negli ultimi 500 metri, Andrea pensa agli amici, alle persone con cui si è allenato, ai familiari che lo aspettano a casa. Taglia il traguardo per primo. Dedica la vittoria alla famiglia, alla nipotina di cinque anni, figlia di sua sorella. «Casualmente era il giorno di Santa Lucia, ho pensato a lei, mi aveva mandato un video la notte precedente o la mattina, non ricordo più».
La voce di Andrea trema, mentre conclude il suo racconto. In testa e nel cuore ha un altro obiettivo: la 777. Sette maratone in sette continenti in sette giorni. Ci lavorerà nei prossimi mesi, senza fretta, mi confida. Per ora ripensa a ciò che ha vissuto, alla luce perenne dei poli.
«Mi ha commosso molto il fatto di essere stupito ancora da tante cose. Dopo aver cambiato casa, cultura, lavoro così tante volte, il rischio è proprio quello di non dire più “wow”. L’esperienza in Antartide, questo posto magico, mi ha forse fatto fare due passi indietro e realizzare che c’è sempre tanto da esplorare. Nonostante sia già una persona curiosa, non penso che mi sentirò mai appagato. Se ci sono esperienze del genere e posso sorprendermi di nuovo… perché no?».