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I Giochi Olimpici nella Grecia Antica: la tregua sacra

Articolo. Con gli occhi puntati sui Giochi della XXIII Olimpiade che si sono aperti a Parigi, concludiamo il nostro excursus storico dedicato alle Olimpiadi della Grecia antica parlando dell’ekecheirìa

Lettura 6 min.
La drammatica scena della resa di un atleta (Boston Museum)

Mai come in questo periodo si è sentito parlare di tregua olimpica, come strumento evocato per fermare le ostilità tra i paesi coinvolti nei conflitti bellici dei giorni nostri. Vediamo di comprendere in cosa consisteva esattamente la tregua olimpica ai tempi della Grecia antica.

Nei mesi precedenti l’inizio delle gare veniva proclamata l’ekecheirìa , la tregua olimpica. Era un’istituzione che prevedeva la sospensione delle ostilità per un periodo di tempo determinato. Secondo la tradizione venne sancita per la prima volta nel 776 a.C. con il trattato sacro tra tre re: Ifito di Elide, Licurgo di Sparta e Cleostene di Pisa. Non è noto con certezza che durata avesse la tregua sacra: inizialmente un mese, poi tre mesi. Alcuni parlano addirittura di dieci mesi.

Letteralmente ekecheirìa significa «trattenere le mani» e, in effetti, si trattava di una sospensione delle attività belliche introdotta per consentire ad atleti, allenatori e spettatori di raggiungere Olimpia in sicurezza anche attraversando territori ostili. Senza la tregua ben pochi si sarebbero azzardati a raggiungere Olimpia. L’ekecheirìa era un simbolo di rispetto per lo spirito sportivo e per il culto religioso associato ai Giochi. L’annuncio dei Giochi avveniva attraverso gli spondophòroi, degli araldi cittadini dell’Elide che, coronati con un ramo di ulivo e tenendo in mano il bastone del messaggero, portavano di città in città, in tutto il mondo greco, il messaggio della tregua sacra, di cui erano anche garanti.

La data dei Giochi non era mai la stessa e variava in base a precisi calcoli astrologici, andando a cadere grossomodo in corrispondenza del primo plenilunio dopo il solstizio d’estate. È curioso quanto riporta Erodoto relativamente al profondo significato che la tregua olimpica rappresentava per i greci. Nelle sue «Storie» ricorda che i greci, per rispettare l’ekecheirìa, avrebbero addirittura interrotto la battaglia delle Termopili, lasciando increduli i soldati persiani!

Gli elementi base della ekecheirìa erano tre:

La sacralità e l’inviolabilità del territorio di Olimpia. Polibio racconta che l’Elide (la regione di Olimpia), grazie alla neutralità di cui godeva, non fu obbligata a fortificare le sue città, non dovette tenere un esercito, non fu coinvolta nei conflitti così frequenti tra le pòleis e non partecipò alla difesa del territorio quando l’intera Grecia dovette impegnarsi contro in nemico esterno.

Il diritto di asilo per coloro che si recavano a Olimpia. Atleti, allenatori, membri delle delegazioni ufficiali e spettatori, nel corso della permanenza a Olimpia per i Giochi e durante il viaggio di andata e ritorno, godevano di una sorta di immunità anche se attraversavano il territorio di una città in guerra con la loro.

Le sanzioni previste e concordate contro tutti i violatori di Olimpia o dell’integrità fisica dei partecipanti ai Giochi. Durante la tregua sacra era vietata l’esecuzione di qualsiasi pena capitale.

Concorreva a garantire l’ekecheirìa anche il fatto che fosse ritenuta una disposizione divina, in quanto originata da una sentenza dell’oracolo delfico. È tuttavia difficile pensare che il concetto sacrale della ekecheirìa fosse così sentito da imporsi d’incanto a popoli notoriamente bellicosi tra loro. Tant’è che sono numerose le testimonianze di violazione della stessa: nel 480 a.C. nel corso della LXXV Olimpiade si svolsero le battaglie di Salamina e delle Termopili; nel 412 a.C. il re di Sparta, nel corso della XCII Olimpiade, attaccò Chio, alleata di Atene, e l’esercito ateniese, per vendicarsi, invase Corinto.

Senofonte riferisce di una sensazionale violazione della ekecheirìa verificatasi nel IV secolo a.C. Il racconto è un po’ lungo ma rende pienamente l’idea della bellicosità delle città greche: nel 399 a.C. Agide di Sparta attaccò l’Elide per obbligarla a riconoscere l’indipendenza della Trifilia e dell’Arcadia, ma anche per punirla della sua alleanza con Atene durante la Guerra del Peloponneso. Gli elei furono presto sottomessi e dovettero concedere l’autonomia alle due regioni con le quali erano in conflitto, ma gli spartani, nonostante le pressioni dei pisati, non li privarono della direzione dei Giochi Olimpici per non aumentare l’autorità politica dell’Arcadia e della Trifilia. Dopo alcuni anni, nel 365 a.C., gli elei cercarono una rivincita attaccando Lasione, una città fortificata ai confini dell’Arcadia, ma furono respinti. Gli arcadi si vendicarono e invasero l’Elide, occupando Olimpia in armi. I pisati, protetti dall’esercito arcadico, diressero l’Olimpiade del 364 a.C.

Ecco quindi che si perpetrò la più grave violazione della tregua olimpica, con la riscossa degli elei e dei loro alleati achei che penetrarono in Olimpia attaccando l’esercito arcadico. Lo scontro, entrato nella storia come la battaglia dell’Altis, costrinse gli ellanodici (i giudici) a sospendere l’ultima gara in programma, il pentathlon. Gli elei, che non riuscirono a scacciare il nemico dalla città sacra e si ritirarono, non subirono nessun provvedimento e i pisati, la cui presidenza sarebbe stata di breve durata, si preoccuparono solo di completare le gare di quella Olimpiade. Due anni dopo gli arcadi, non volendo essere considerati sacrileghi profanatori dei luoghi sacri, riconsegnarono agli elei la direzione delle gare olimpiche.

In effetti va ricordato che i greci hanno sempre utilizzato la parola ekecheirìa (che, come detto prima, significa «sospensione delle ostilità») e mai usato la parola eirène, che invece significa «pace», quella che invece tutti auspicheremmo oggi.

Il declino dei Giochi Olimpici

La conquista romana, che produsse il disgregamento definitivo delle pòleis greche, ebbe anche notevoli e decisive ripercussioni sul destino olimpico. Ciò che più influenzò il declino fu la loro trasformazione in manifestazioni che non avevano più nulla in comune con le originarie feste di Olimpia. I romani non amavano l’agonismo greco, l’agòn era estraneo alla loro cultura, e non deve trarre in inganno il fatto che Roma ospitasse i ludi maximi . Infatti i protagonisti di queste competizioni erano schiavi o persone reclutate nelle campagne tra i ceti più modesti, o addirittura gladiatori assoldati per gareggiare e combattere con il solo fine di divertire gli spettatori. Il famoso concetto di panem et circenses soppiantò definitivamente l’agòn greco.

Nel IV secolo d.C. il Cristianesimo, sopravvissuto a un lunghissimo periodo di persecuzioni a cui pose fine nel 313 l’Editto di Milano promulgato da Costantino il grande, trionfò e si avviò a diventare religione di Stato.

Con la diffusione del Cristianesimo, i Giochi andarono incontro a un ulteriore progressivo declino: la religione cristiana contrastava fortemente ogni tipo di manifestazione di culto pagano. I Giochi Olimpici scomparvero nel 393 d.c. dopo 293 edizioni e dopo 1169 anni dalla loro istituzione. La loro fine fu decretata da Teodosio I, imperatore romano d’Oriente e d’Occidente, su invito di Ambrogio, vescovo di Milano.

Qualche ultima curiosità…

Mi preme fare una precisazione: la parola Olimpiade letteralmente non indica l’evento sportivo in sé ma identifica solamente l’arco di tempo di quattro anni che intercorre tra un’edizione dei Giochi e l’altra. Pertanto non sarebbe corretto dire: «...ha vinto alle Olimpiadi» bensì «…ha vinto ai Giochi Olimpici».

A sottolineare questo concetto è la celeberrima frase che pronuncia il Presidente della nazione che ospita i Giochi in occasione della cerimonia inaugurale: «Dichiaro aperti i Giochi di ... (nome della città ospitante) celebranti la ... (numero dell’edizione) Olimpiade dell’era moderna». Nel caso di Parigi 2024 siamo alla XXXIII edizione dell’era moderna. Vero è però che già gli antichi greci, come noi del resto, per comodità utilizzavano entrambe le diciture.

Per concludere mi piace riportare le parole di Luciano di Samosata (II sec. d.c.) che, nel dialogo «Anacarsi o degli esercizi ginnici», presenta un vivace ritratto del mondo agonistico greco, soffermandosi sulla perplessità che il filosofo scita espresse a Solone sulla esagerata attenzione rivolta dai Greci verso l’attività ginnica. Solone si rivolge ad Anacarsi descrivendo la preparazione atletica dei giovani greci:

«… e scogitiamo esercizi ginnici di vario genere, e stabilendo dei maestri per ciascuno di essi insegniamo a chi il pugilato, a chi il pancrazio, affinché si abituino a resistere alle fatiche e insieme ad affrontare i colpi e non voltino le spalle per paura delle ferite. Questo nostro sistema ottiene in loro due risultati molto utili, perché li rende animosi di fronte ai pericoli e li prepara a non aver riguardo del corpo e inoltre a mantenersi sani e gagliardi. […] Inoltre li addestriamo a correre, abituandoli alla resistenza su lunghe distanze e a diventare in breve leggeri e velocissimi: e la corsa non è sul suolo duro e consistente, ma nella sabbia profonda, dove non è facile muoversi o stare appoggiati saldamente, dato che il piede si infossa nel suolo cedevole. E a tale scopo li esercitiamo anche a saltare un fosso o un altro ostacolo, se occorre, in più tenendo in mano grosse palle di piombo».

E, riguardo alla cultura spartana, Solone ammonisce Anacarsi:

«Dal momento che, Anacarsi, dici che visiterai il resto della Grecia, ricordati, se per caso giungerai anche a Sparta, di non farti beffe di loro e di non credere che si affatichino invano quando si ammassano in teatro e si picchiano tra loro per il gioco della palla, o quando, entrati in un luogo circondato d’acqua e divisi in due falangi, ingaggiano, nudi anch’essi, uno scontro finché una schiera scaccia l’altra dal recinto, la schiera di Licurgo quella di Eracle o viceversa, spingendola nell’acqua (da allora in poi si fa pace e nessuno può più colpire); ma soprattutto se vedrai i ragazzi fustigati e sanguinanti presso l’altare, mentre i padri e le madri presenti non solo si addolorano per il fatto, ma li minacciano se non stanno saldi ai colpi e li pregano di sostenere il tormento il più a lungo possibile e di resistere alle sofferenze. Molti sono persino morti in questa prova, non essendo voluti venir meno, ancora vivi, davanti agli occhi dei familiari né cedere al dolore fisico: vedrai le loro statue innalzate e onorate pubblicamente da Sparta. Quando dunque osserverai queste cose, non supporre che siano pazzi e non dire che soffrono senza un motivo necessario, non essendovi un tiranno che li costringa né un nemico che l’abbia ordinato. Licurgo, il loro legislatore, potrebbe esporti molte buone ragioni sull’argomento e con che intenzione li punisce: non lo fa per inimicizia né per odio né per distruggere fuor di proposito la gioventù della città, ma perché crede che chi dovrà salvaguardare la patria sarà più forte e superiore a ogni sofferenza. E anche se non lo dicesse Licurgo, comprendi da te, credo, che se un uomo simile fosse catturato in guerra non rivelerebbe mai qualche segreto di Sparta, per quanto i nemici lo torturino, ma deridendo di chi lo fustiga lo sfiderebbe a chi si stanca per primo».

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