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I Giochi Olimpici nella Grecia Antica: e le donne?

Articolo. Proseguiamo, questa volta con un’indagine “al femminile”, il nostro itinerario di avvicinamento ai Giochi della XXIII Olimpiade in programma a Parigi dal 26 luglio al 11 agosto 2024. Notizie, curiosità e aneddoti relativi ai Giochi Olimpici nella Grecia antica, per comprendere meglio la cultura sportiva di un tempo e le affinità con il mondo dello sport di oggi

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Corsa di donne, particolare di un vaso (Musei Vaticani)

Com’è noto, alle competizioni dei Giochi Olimpici potevano partecipare solo gli uomini: gli atleti dovevano gareggiare nudi e soltanto un pubblico maschile era autorizzato ad assistere alle gare. Le leggi dell’Elide, la regione di Olimpia, parlavano chiaro: nessuna donna sposata poteva intervenire o presenziare alle gare. Secondo il racconto di Pausania, storico e geografo greco vissuto nel II secolo d.C., la colpevole sarebbe stata gettata dalle rupi rocciose del monte Tipeo, vetta che domina lo stadio di Olimpia. In realtà, non abbiamo alcuna indicazione che tali atrocità fossero davvero perpetrate. È molto curioso, però, precisare che questo divieto era riservato solo alle donne sposate. Le ragazze in età da marito potevano assistere alle competizioni (in una apposita tribuna decentrata) in modo da “familiarizzare” con il mondo maschile (!). Esisteva anche una donna a cui era concesso il privilegio di assistere alle gare: era la sacerdotessa di Demetra Chamyne, che poteva sedere sull’altare all’interno dello stadio.

Eppure, anche le donne avevano i loro momenti di gloria: i Giochi Erei, in onore di Era (moglie di Zeus), erano la versione al femminile dei Giochi Olimpici. Sempre secondo Pausania, i Giochi Erei consistevano in un unico evento: una corsa podistica per fanciulle, che si teneva nello stesso stadio delle gare maschili ma con un percorso più breve. I Giochi Erei si tenevano probabilmente nello stesso anno delle Olimpiadi, appena prima delle gare degli uomini.

Le ragazze gareggiavano in tre corse distinte, in base alla loro età, e le vincitrici ricevevano una corona di foglie d’olivo (come i maschi) e una porzione del bue macellato in onore di Era nel tempio a lei dedicato. A differenza degli uomini, che gareggiavano nudi, le giovani donne indossavano un abito corto al ginocchio, il chitone, che lasciava scoperti il seno e la spalla destri. Anche se qualcuno ha ipotizzato che l’indumento fosse ispirato alle guerriere amazzoni, in realtà era l’adattamento di un tipico vestito maschile, indossato nei mesi caldi o durante lavori faticosi. Vestire i panni degli uomini era un rituale seguito anche nelle cerimonie di iniziazione all’età adulta, un’inversione di ruoli che forse doveva servire a “mettersi nei panni dell’altro”, prima di assumere definitivamente il proprio ruolo.

Alcuni scettici mettono in discussione la reale esistenza dei Giochi Erei, perché non esistono testimonianze precedenti agli scritti di Pausania, ma la mancanza di documentazione potrebbe solo testimoniare la scarsa importanza data al mondo femminile dalla società greca, dove il predomino maschile era incontrastato.

Il mito della nascita dei Giochi Erei

Ippodamia, figlia di Enomao, re di Pisa (città dell’Elide), è una ragazza di rara bellezza, ma il padre cerca di impedirne le nozze perché l’oracolo gli ha predetto che sarebbe morto per mano del genero. Per riuscire nel suo intento, Enomao suole sfidare i pretendenti di sua figlia in una gara coi carri: in caso di vittoria il pretendente otterrà in sposa Ippodamia, ma in caso di sconfitta verrà trafitto con la spada del re in persona. Bisogna sapere che Enomao, per garantirsi il successo, si è procurato due cavalli divini (Psilla e Arpinna) e, per mettere ancor più in difficoltà gli sfidanti, li obbliga a gareggiare tenendosi al fianco la ragazza. Ben tredici giovani avevano osato sfidare Enomao, ma tutti e tredici erano stati uccisi, le loro teste mozzate e appese all’ingresso del palazzo reale.

Un bel giorno giunge alla corte di Enomao il giovane Pelope, figlio di Tantalo re di Lidia. Aitante e di bell’aspetto, viene folgorato dall’avvenenza di Ippodamia. I due si conoscono e scocca la scintilla amorosa, ma il desiderio di sposarsi è contrastato dalla impossibile prova cui Pelope deve sottoporsi. Così Pelope decide di ricorrere a un imbroglio e si presenta alla gara con un cocchio aureo trainato da cavalli alati donati da Poseidone. Tuttavia, non essendo certo del successo, chiede aiuto a Ippodamia e corrompono Mirtilo, l’auriga del sovrano, anch’egli infatuato della ragazza. Con la promessa di una notte d’amore con Ippodamia e metà del regno di Enomao, Mirtilo si lascia convincere e manomette i mozzi del carro del re.

La sfida è particolarmente lunga: da Pisa, vicino a Olimpia, fino a Corinto. I mozzi del carro di Enomao non reggono alle sollecitazioni del percorso e cedono facendo staccare le ruote. Il carro si rovescia ed Enomao muore travolto. Mirtilo non fa nemmeno in tempo a reclamare la notte con Ippodamia perché Pelope, appena finita la corsa, si sbarazza di lui scaraventandolo in mare.

Così Pelope sposa Ippodamia, diviene re, e accumula fortune (tra l’altro il Peloponneso deve il suo nome proprio a Pelope), ma per procurarsi i favori degli dei, dopo la vittoria fraudolenta, decide di organizzare i giochi in onore di Zeus ad Olimpia. E Ippodamia sua complice truffaldina, per imbonirsi Era, moglie di Zeus, fa altrettanto e istituisce gli Eraia, i giochi femminili in onore di Era.

Cinisca, la prima donna a vincere a Olimpia

Eppure, qualche nome di donna compare tra i vincitori ai Giochi Olimpici: Cinisca è figlia dell’imperatore di Sparta Archidamo II e sorella minore dei futuri sovrani spartani Agide II e Agesilao II. Il suo nome dal greco potremmo tradurlo con «cucciola». Nobile d’origine e molto esperta nell’equitazione e nell’allevamento dei cavalli, nasce a Sparta, città in cui le ragazze e le donne, a differenza del resto della Grecia, si cimentano in quasi tutti gli sport allo scopo di avere un fisico sano, indispensabile a garantire la nascita di forti cittadini-guerrieri. Secondo il regolamento dei Giochi, il proprietario dei cavalli può essere indifferentemente sia uomo che donna, mentre l’auriga, la guida del carro, deve necessariamente essere uomo. I fratelli di Cinisca, consapevoli delle abilità della sorella nella preparazione dei cavalli, la convincono a partecipare. Così, nel 396 a.C., i cavalli di Cinisca gareggiano ai Giochi Olimpici nel tethrippon , la corsa dei carri trainati da quattro cavalli, e vincono.

Il tethrippon è la gara più popolare nell’antichità: vincerla significa ricevere onori per tutta la vita, essere trattati da eroi, quasi come una divinità. Questo destino tocca anche a Cinisca, alla quale vengono dedicate ben due statue, realizzate dal grande scultore Apelleas, nel sacro tempio di Olimpia. Sulle ali del successo, quattro anni più tardi, Cinisca coi suoi cavalli vince nuovamente ad Olimpia nella medesima gara. Oltre alle due statue, nel tempio di Zeus ad Olimpia viene apposta un’iscrizione che recita: «I re di Sparta sono mio padre e i miei fratelli; con un carro di cavalli dai piedi veloci Cinisca, vittoriosa, ha eretto questa statua. Io dichiaro di essere l’unica donna in tutta la Grecia ad aver vinto questa corona».

Nelle successive edizioni dei Giochi Olimpici, altre donne riescono ad imitarla: è il caso della nobile spartana Eurileonide, che vince la gara di corsa con due cavalli nel 368 a.C., delle regine ellenistiche Berenice I e della figlia Arsinoe II che vincono nella medesima gara, rispettivamente nel 284 a.C. e nel 272, e di Bilistiche, l’amante del re d’Egitto Tolomeo II, che nel 264 a.C. si aggiudica entrambe le gare dei cavalli.

Berenice di Rodi, detta Kallipatera

Merita attenzione anche la storia di Berenice di Rodi, raccontata da Pausania: conosciuta anche con il nome di Kallipatera, che potremmo tradurre con «figlia di padre illustre», Berenice è figlia del famosissimo Diagora di Rodi, un colosso alto due metri e venti, vincitore a Olimpia nel pugilato (464 a.C.), le cui gesta atletiche vengono celebrate dal poeta Pindaro. È anche sorella di Akousilaos, Damagetos e Dorieus, pluricampioni olimpici nel pugilato e nel pancrazio, una forma di lotta cruenta senza esclusione di colpi.

Anche il marito di Kallipatera è un ottimo atleta che si dedica alla formazione sportiva del figlio Pisirodo, pugile molto promettente. Rimasta vedova precocemente, Kallipatera decide di sostituirsi al marito nel ruolo di allenatrice. Giunge il tempo delle gare e Kallipatera, desiderosa di seguire le gesta del figlio, sceglie di assistere alle gare nonostante la legge glielo vieti. Si traveste da uomo e accede allo stadio. Le gare vanno molto bene e quando il figlio Pisirodo vince l’ultima sfida, Kallipatera, in preda all’entusiasmo, scavalca la transenna e si precipita nel recinto per abbracciare il figlio. Nello slancio la tunica rimane impigliata e il vestito si sfila rivelando tutta la sua femminilità. Viene condotta a processo e i giudici, mossi da un sentimento di indulgenza e di riconoscenza verso una famiglia di grandissimi campioni, decidono di graziarla.

Le sue azioni, e ovviamente la sua bravura come allenatrice, avrebbero potuto offuscare il ruolo degli uomini nei Giochi, soprattutto in considerazione del fatto che la sfida di Kallipatera avvenne solo quattro anni dopo la vittoria di Cinisca di Sparta. A seguito di quest’episodio si preferì, invece, istituire una nuova norma: da allora in poi tutti gli allenatori avrebbero presenziato alle gare, anch’essi nudi, relegando la storia di Berenice a poco più di un divertente aneddoto olimpico. Una curiosità: lo stadio e l’aeroporto di Rodi sono intitolati a Diagora, padre di Kallipatera.

Per lasciar intendere quanto fosse scarsa la considerazione che gli antichi greci avevano per le donne e quanto fosse marginale il loro ruolo nella società, concludo citando il pensiero del filosofo Aristotele (IV secolo a.C.): «Gli animali domestici hanno una natura migliore di quelli selvatici, e tutti gli animali domestici sono resi migliori sotto il governo dell’uomo; poiché è così che possono essere preservati. Allo stesso modo, il maschio è, per natura, superiore e la femmina inferiore; l’uno domina, l’altra è dominata. Questo principio di necessità si estende a tutto il genere umano» (Politica, 1254b2).

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