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I Giochi Olimpici nella Grecia Antica: come avvenivano le gare di corsa?

Articolo. Con questo articolo, comincia un itinerario di avvicinamento ai Giochi della XXIII Olimpiade in programma a Parigi dal 26 luglio al 11 agosto 2024. Notizie, curiosità e aneddoti relativi ai Giochi Olimpici nella Grecia antica, per comprendere meglio la cultura sportiva di un tempo e le affinità con il mondo dello sport di oggi

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Anfora - premio panatenaico del pittore Euphiletos raffigurante una gara di corsa, Metropolitan Museum of Art

Com’è noto, la prima edizione dei Giochi di Olimpia risale al 776 a.C. Per tredici edizioni consecutive l’unica gara del calendario olimpico era lo stàdion (dal nome dall’edificio in cui si svolgeva), uno sprint in rettilineo da un capo all’altro dell’impianto. Lo stàdion misurava 600 piedi, ma la lunghezza del piede variava da regione a regione. Perciò, se in Attica lo stàdion corrispondeva a 177,60 m, a Olimpia – dove l’unità di misura, secondo la tradizione, era la lunghezza del piede di Eracle – arrivava a 192,27 m. Rapportato ai moderni impianti sportivi, lo stadio di Olimpia è lungo quasi il doppio ma è molto più stretto. La pista di Olimpia ospitava 20 corsie.

Nel 724 a.C. venne introdotta una seconda gara, il dìaulos, cioè il doppio stàdion , un’andata e ritorno con un giro di boa intorno a un palo. Come naturale conseguenza della nascita dei dromokerykes, i messaggeri professionisti incaricati di portare di corsa i messaggi da una città all’altra della Grecia, nel 720 a.C. fu inserito nel programma olimpico il dòlichos, una prova paragonabile al mezzofondo dei giorni nostri. A Olimpia la distanza da percorrere variò nel tempo, passando dalle 7 alle 24 volte lo stàdion, cioè da una distanza di circa 1300m ai 4800m del periodo aureo dei Giochi. È interessante notare come queste distanze siano molto simili a quelle corse oggi negli stadi dell’atletica leggera (200m, 400m, 1.500m e 5.000m).

La partenza avveniva da una striscia di marmo posta nel terreno che aveva alcune scanalature, in cui gli atleti posizionavano i piedi per avere più presa. I concorrenti si posizionavano sempre con il piede sinistro più avanzato. Nelle prime gare il via veniva dato a voce ma, dopo aver riscontrato l’impossibilità di gestire le numerose false partenze (rigorosamente punite con la fustigazione!), venne introdotto l’uso di una corda tesa posizionata davanti ai concorrenti. Quando la fune cadeva i concorrenti potevano partire (un sistema ancora in uso nel Palio di Siena).

Nelle gare veloci erano previste diverse batterie con estrazione a sorte dei partecipanti. I vincitori di ogni batteria si sfidavano in finale. Come detto, nel dìaulos e nel dòlichos gli atleti, alla fine del rettilineo, dovevano girare intorno ad un palo e tornare indietro (nel caso del dòlichos lo facevano più volte). Inizialmente il palo era uno solo per tutti ma, dopo i continui contatti e sgambetti tra concorrenti, venne predisposto un palo per ogni atleta. Per evitare confusione in queste due gare con andata e ritorno, il numero di atleti in pista si riduceva a 10, cioè a ogni atleta erano riservate due corsie, una per l’andata ed una per il ritorno. In base a quanto scrisse Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.), sino alla XV Olimpiade, nel 720 a.C., gli atleti gareggiavano con una specie di perizoma. In quell’edizione però un atleta di Megara, tale Orsippo, poco dopo la partenza si liberò del perizoma e vinse surclassando gli altri. Venne quindi deciso che da lì in avanti gli atleti avrebbero gareggiato nudi.

Nel 520 a.C. venne infine introdotta l’oplitodromia , cioè la corsa in assetto da combattimento. Nata per ottimizzare la preparazione alla guerra dei giovani opliti, i concorrenti dovevano gareggiare con schinieri, elmo e scudo. Si ipotizza che il peso totale dell’armatura superasse i venti chili, quindi una prova di forza più che di resistenza. Si disputava sulla distanza del dìaulos (400m).

Famosissima divenne la prova di Ladas di Argo che nel 480 a.C. stupì avversari e spettatori correndo tutta la gara del dòlichos alla stessa velocità dello stàdion (cioè come se fosse una prova di velocità) ma, una volta tagliato il traguardo, stramazzò al suolo privo di vita.

Curiosa la storia di Astylos da Crotone, velocista strepitoso. Nel 488 a.C. vinse la gara dello stàdion e, tornato in patria, venne accolto come un eroe e venne eretta una statua in suo onore nel santuario di Hera. Quattro anni più tardi, Astylos si lasciò sedurre dal denaro di Gelon, tiranno di Siracusa, gareggiò e vinse per la città siciliana. Crotone, per vendetta, distrusse la statua di Astylos e sequestrò la sua casa per trasformarla in prigione. Quattro anni dopo, nel 480 a.C., Astylos, ormai cittadino siracusano a tutti gli effetti, vinse nuovamente la gara dello stàdion. Astylos fu uno dei pochi atleti ad aggiudicarsi la vittoria in tre edizioni consecutive dei Giochi di Olimpia.

Nel 416 a.C. Exainetos di Agrigento vinse lo stàdion. Il suo ritorno ad Agrigento fu trionfale: fu portato in città su un carro seguito da una processione di altri cento carri, ciascuno tirato da due cavalli bianchi. Non so perché, ma mi torna in mente la sfilata della squadra atalantina per le vie di Bergamo dopo il successo in Europa.

L’atleta più sorprendente fu Ageus di Argo, che nel 328 a.C., poco dopo la vittoria nella gara del dòlichos, partì di corsa alla volta della sua città per annunciare il successo olimpico. Bisogna sapere che Argo dista da Olimpia 110km e Ageus vi giunse nella medesima giornata della gara. Leonida di Rodi fu infine l’atleta maggiormente vincente di tutti i Giochi. Vinse stàdion, dìaulos e oplitodromia in quattro edizioni successive, dal 164 al 152 a.C. Si narra che avesse la «velocità di un dio». Vinse il suo ultimo titolo a 36 anni!

La storia di Filippide tra mito e realtà

Abbiamo parlato dei dromokerykes, i messaggeri che coprivano distanze incredibili di corsa per portare messaggi, spesso di natura bellica, in ogni angolo della Grecia. Esistevano anche gli emerodromi, araldi specializzati capaci di correre per un giorno intero. Rapportati ai giorni nostri si potrebbe dire che un dromokeryos corrisponde a un corriere postale, mentre l’emerodromo a un corriere espresso. Filippide era un emerodromo, uno dei migliori.

Sintetizzo la versione del mito di Filippide che tutti conosciamo riferendomi a quella di Plutarco (I sec d.C.), scritta sei secoli dopo gli eventi e ripresa da Luciano di Samosata un secolo ancora più tardi: Filippide, dopo aver combattuto a Maratona contro i persiani, corre i 40 km che separano Maratona da Atene per annunciare agli ateniesi la vittoria sui persiani. Subito dopo l’annuncio, stremato dalla fatica, si accascia al suolo e muore sotto un albero. Ciò che lascia perplessi gli studiosi è che Plutarco sostiene che il nome dell’araldo non è certo (cosa che invece fa Luciano) e, in particolare, che Filippide fosse un emerodromo e non un soldato, pertanto non venisse impegnato in battaglia. Più vicina nel tempo e probabilmente più attendibile è la versione di Erodoto, che verso la metà del V secolo a.C. racconta le gesta di Filippide in un altro modo.

Proviamo a ricostruire i fatti interpretando in parte la sua narrazione. Il 10 settembre del 491 a.C. l’esercito persiano , guidato da Dati, sbarca a Maratona con il preciso intento di invadere tutta la Grecia. Milziade, comandante ateniese, incarica l’araldo Filippide di raggiungere al più presto gli alleati spartani per unire le forze contro lo strapotere numerico dell’esercito persiano. Filippide parte alla volta di Sparta percorrendo i 220 km che separano le due città in 48 ore! Per quanto l’appello di Filippide sia accorato, gli spartani temporeggiano, accampando la scusa che, per questioni benaugurali, sarebbero intervenuti solo dopo il plenilunio (sei giorni dopo). Qui si esaurisce il racconto di Erodoto ma possiamo ipotizzare che a Filippide non sia rimasto altro da fare che ripercorrere a ritroso i 220 km per riportare a Milziade la risposta degli spartani. Nel frattempo Milziade con il suo esercito si è spostato a Maratona (quindi probabilmente a Filippide tocca “allungare” fino a Maratona).

I due eserciti si fronteggiano senza combattere per alcuni giorni, finché il 21 settembre Milziade, approfittando della nebbia che la mattina ristagna nella piana di Maratona, ordina ai suoi soldati di attaccare con grande veemenza, correndo, urlando e facendo moltissimo fragore in modo da sorprendere i persiani. I persiani, spaventati da tanta determinazione e ritenendo il numero dei soldati greci molto superiore a quello reale, riparano velocemente sulle loro navi e prendono il largo. Ma anziché ripiegare in patria, il comandante persiano Dati ordina alle navi di raggiungere Atene via mare, doppiando capo Sunio, per attaccare la città che in quel momento era priva dell’esercito.

Milziade, intuite le reali intenzioni di Dati, invia un emerodromo (che immaginiamo possa essere ancora Filippide) ad Atene per allertare la popolazione, e contemporaneamente ordina al proprio esercito di procedere a tappe forzate in direzione di Atene per anticipare i persiani e difendere la città. Quando i persiani giungono in prossimità del Pireo, il porto di Atene, i soldati ateniesi sono già al loro posto e ai persiani non resta altro che ripiegare in patria.

Facendo un rapido calcolo, in 12 giorni Filippide avrebbe corso la bellezza di 520 km (Atene-Sparta, Sparta-Atene, Atene-Maratona e Maratona-Atene)!

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