Solo gli atleti aristocratici potevano permettersi il lusso di un allenatore personale, mentre erano le città stesse che provvedevano ad assoldare gli allenatori per i giovani poveri più promettenti. L’allenatore, generalmente, era un ex atleta e percepiva molto meno denaro rispetto agli atleti. Oltre che della preparazione fisico-tecnica, l’allenatore si occupava anche dell’igiene, dell’alimentazione, della salute e del recupero dagli infortuni dei suoi atleti.
Era previsto un periodo di astinenza dal sesso in coincidenza con i periodi di allenamento più impegnativi. La dieta, che inizialmente era a base di formaggio, nel tempo venne sostituita dalla carne e dai fichi secchi. Il primo passo verso un’alimentazione “moderna” si deve a Charmis di Sparta, che nel 668 a.C. vinse lo stà dion alimentandosi, a ridosso delle gare, con fichi secchi. Aveva intuito che questa pietanza era capace di fornire energia di pronto utilizzo, l’ideale negli sforzi brevi e violenti.
Gli atleti dovevano raggiungere la città di Elis, il luogo del “ritiro”, dieci mesi prima dell’inizio delle gare. A Elis c’era un antico ginnasio con due piste, una per gli allenamenti e una riservata agli atleti del pentathlon e alle gare preliminari. Qui avevano luogo la preparazione atletica e le operazioni organizzative prima dei Giochi. In questo periodo preliminare, gli atleti potevano ancora ritirarsi senza alcun provvedimento nei loro confronti. Ma se l’abbandono avveniva durante le gare, per qualsiasi ragione (anche l’infortunio), allora ciò era motivo di infamia. Nota è la vicenda di Sarapione di Alessandria, lottatore di Pancrazio, una cruenta lotta senza esclusione di colpi: nella 201esima edizione dei Giochi, il giorno prima delle gare, terrorizzato dall’aggressività dei suoi avversari, se ne andò via fuggendo. Fu l’unico atleta nella storia olimpica a essere multato per codardia!
Un mese prima dei Giochi, gli atleti raggiungevano Olimpia per completare la preparazione. La sacralità dei giochi imponeva la correttezza assoluta. Prima dell’inizio delle gare, gli atleti, i loro padri e gli allenatori, giuravano al cospetto della statua di Zeus Horkios. La scena era la più idonea ad incutere terrore tra i disonesti: nella scultura, Zeus tiene un fulmine in ciascuna mano e gli atleti dovevano pronunciare il giuramento sopra i genitali di un cinghiale appena ucciso e dinnanzi a una tavoletta di bronzo su cui erano iscritti versi di minaccia per gli spergiuri! Ovunque, per il santuario, si trovano scritte che invitano alla lealtà perché «non con il denaro, ma con la velocità dei piedi e con la forza fisica bisogna ricercare la vittoria nelle gare olimpiche» (Pausania, Periegesi della Grecia).
Tuttavia sono stati in molti a violare il giuramento. Lo testimoniano le statue ( zanes ) che, già numerose al tempo di Pausania (II sec. d.C.), riproducevano gli atleti corrotti. Su queste, oltre al loro nome, che sarà disonorato in eterno, sono riportati il tipo di imbroglio e l’entità della punizione. La medesima vergogna toccava ai padri scorretti quando pagavano gli avversari per fare vincere i loro figli. Queste statue venivano erette con i soldi delle multe e guai a chi non le avesse versate: l’ira implacabile degli dei si sarebbe scatenata su di loro!
A tal riguardo è divertente ricordare l’episodio che nel 388 a.C. vide protagonista il pugile Eupolo di Tessaglia: costui riuscì a corrompere con molto denaro tre suoi avversari vincendo tutti gli incontri. La facilità con cui Eupolo vinse i tre incontri insospettì i giudici, che scoprirono il malfatto. Scattò immediata la squalifica e la multa per tutti e quattro gli atleti. Con i soldi ricavati vennero erette, di fronte allo stadio di Olimpia, ben sei statue bronzee che riportavano chiari messaggi di monito per tutti gli atleti! Agli ateniesi, che non volevano pagare la multa per un analogo episodio di corruzione perpetrato dal pentatleta Callippo, «il dio di Delfi annunciò che non avrebbe dato più responsi su nessuna questione finché non avessero pagato la multa agli Elei». (Periegesi della Grecia V, 21.5). Inutile dire che si affrettarono a versare il dovuto!
Gli Ellanodici erano i giudici che sorvegliavano le gare. Come gli atleti, anche loro dovevano essere preparati. Il loro tirocinio durava dieci mesi e, come per gli atleti, avveniva a Elis. Qui, in un edificio diverso chiamato Hellenodikeion, risiedevano e apprendevano dai magistrati tutori delle leggi tutte le norme da applicare durante le gare. Osservare gli atleti durante gli allenamenti serviva ai giudici per apprendere le tecniche e introdursi al clima agonistico. La sacralità dei giochi imponeva ai giudici un vero e proprio rito di purificazione attraverso il sacrificio di un maialino e la purificazione con l’acqua.
Le zanes testimoniano anche i numerosi tentativi di corruzione nei confronti dei giudici. Si narra che Alcibiade, ambizioso e controverso militare nonché uomo politico ateniese, nel 416 a.C. riuscì, corrompendo i giudici, a far partecipare alle gare di cavalli ben 7 scuderie a suo nome piazzandosi primo, secondo e quarto! Grazie a questi risultati ottenne la nomina a comandante della flotta pronta a salpare per la spedizione in Sicilia!
Sorprendono tutte queste analogie con il mondo contemporaneo.
Vincitori e sconfitti
Nell’antica Grecia veniva esaltato solo il vincitore, mentre lo sconfitto veniva umiliato e socialmente distrutto. Il confronto competitivo (agòn) nella cultura greca non riguardava solo le gare sportive, ma ogni manifestazione della vita pubblica. Il clima agonistico dava anche l’impronta al mondo intellettuale (le discussioni e le polemiche dei sofisti erano delle vere e proprie dispute trasferite alla sfera intellettuale).
La posta in gioco nell’agòn è rappresentata dall’Onore e dalla Gloria: l’Onore è il riconoscimento operato da una persona di una gerarchia superiore attraverso qualcosa di tangibile e godibile nel presente (un premio); la Gloria è il riconoscimento da parte di tutto un popolo, non è gerarchico ed è destinato a durare nel tempo. Gli atleti, non solo nei giochi olimpici ma in tutti i giochi panellenici, gareggiavano per la gloria e non per l’onore. La vittoria veniva riconosciuta semplicemente con la consegna di una corona: di ulivo (giochi olimpici), di sedano selvatico (giochi nemei), di alloro (giochi pitici) e di pino (giochi istmici).
Intorno al 600 a.C., con la sola eccezione dei Giochi Olimpici, iniziarono a essere introdotti premi in denaro per pagare le spese degli atleti o gli ingaggi di partecipazione a manifestazioni nostrane oppure, come nel caso di Atene, erano le cittĂ stesse a offrire premi in denaro per i propri concittadini vincitori delle gare sportive. Non esistevano primati come misure o tempi da migliorare, ma i campioni venivano ricordati in base al numero di vittorie riportate in una edizione o in piĂą edizioni dei Giochi.
Nella cerimonia di premiazione, di fronte alla statua di Zeus, gli araldi declamavano i nomi dei vincitori, dei loro padri e della città di provenienza; i giudici ponevano sul loro capo una corona. La folla lanciava fiori e foglie con grida di giubilo mentre gli atleti sfilavano davanti al pubblico. I poeti canteranno le loro gesta e le loro statue saranno collocate nei templi. Nei loro versi i poeti Simonide, Pindaro e Bacchilide elogiano gli eroi vittoriosi nelle competizioni sportive. Per i perdenti esistono solo parole di biasimo, poi giungono il silenzio e l’oblio. La cerimonia si chiudeva con succulenti banchetti che duravano tutta la notte.
Una volta tornato in patria, il vincitore veniva accolto alla stregua di un capo dell’esercito vittorioso in battaglia e andava ad assumere una posizione eccezionale all’interno della società : gloria immortale, statue erette in suo onore, ingenti benefici economici ed esenzioni dalle tasse.
Questa forma di “divismo” dell’eroe-atleta portò a una accesa polemica con gli intellettuali del tempo, che dichiaravano apertamente la loro indignazione per i maggiori guadagni degli atleti rispetto ai filosofi. Emblematiche, in tal senso, le parole del filosofo presocratico Senofane che nel VI sec. a.C. dichiarava: «se taluno riporta una vittoria riceve dallo Stato il nutrimento della pubblica spesa. Non è giusto preferire alla filosofia la forza fisica [...] se fra i cittadini c’è un pugile valente, non perciò gode la città di buon governo». 2500 anni dopo la musica non sembra cambiata…
Sparta per parecchi secoli detenne il primato di vittorie ai Giochi Olimpici. Questa città si fondava su un rigido principio di uguaglianza tra tutti i cittadini e l’unica possibilità di differenziazione era quella derivante dall’elogio o dalla critica. Ciò rese Sparta una società fortemente competitiva in cui ciascuno esercitava il controllo sugli altri attraverso l’encomio e il biasimo ma, contemporaneamente, doveva sottostare al giudizio degli altri.