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«Ho vinto un Giro (quasi)», Flavio Giupponi racconta le imprese del ciclismo Anni Ottanta

Articolo. Flavio Giupponi, secondo al Giro d’Italia 1989, racconta la sua carriera nel libro «Ho vinto un Giro (quasi)». La sospensione di una tappa decisiva segnò la mancata vittoria, ma il suo racconto celebra impegno, sacrificio e amore per il ciclismo, unendo due generazioni di campioni.

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Il secondo posto al Giro d’Italia 1989 ha rappresentato il coronamento della carriera per Flavio Giupponi. Un risultato prestigioso che, a trentacinque anni di distanza, lascia ancora l’amaro in bocca al ciclista bergamasco, come se gli fosse stato sottratto quel piccolo tassello che gli avrebbe consentito di coronare un’impresa storica e di inserirsi nel gotha dello sport orobico e internazionale.

Un minuto e quindici secondi e una tappa sospesa all’ultimo minuto hanno però separato l’ex corridore della Malvor dalla possibilità di vestire la maglia rosa sul palco di Firenze invece di spalleggiare il fuoriclasse francese Laurent Fignon, all’unico successo nella competizione tricolore. Questa sensazione di aver visto sfumare la grande chance per un giro di lancette ha dato vita a «Ho vinto un Giro (quasi)», la prima fatica editoriale realizzata da Giupponi in compagnia di Paolo Marabini e pubblicato con Bolis Editori. Un volume che verrà presentato lunedì 29 novembre alle 19.30 presso la Biblioteca dello Sport Nerio Marabini e che ripercorrerà le tappe che accompagnarono Flavio sul podio del Giro.

«L’idea è nata da un sollecito di un amico che, visti i miei sessant’anni e il trentacinquesimo anniversario dal secondo posto al Giro, mi ha sollecitato a raccontare quanto è successo in quegli anni, magari riportando questioni che non erano mai state rivelate per questioni di riservatezza – spiega Giupponi -. Dopo aver maturato attentamente su cosa puntare, ho deciso di concentrarmi su tre principi: il primo di f ar conoscere meglio ai miei figli chi sono, facendo capire loro che, per ottenere certi risultati sia nello sport che nella vita, servono impegno, perseveranza, costanza e sacrificio. Il secondo è per ringraziare i miei genitori e i miei direttori sportivi, che mi hanno permesso di diventare come sono. Il terzo è quello di cercar di avvicinare i più giovani allo sport, capendo come le soddisfazioni vadano oltre l’aspetto agonistico».

Il titolo scelto da Flavio racchiude in pieno il valore di quel traguardo che ha avvicinato l’atleta orobico al livello di alcuni fuoriclasse (come Felice Gimondi) che hanno ispirato Flavio da bambino e lo hanno portato a ottenere anche un quinto posto nel 1987 e un quarto nel 1988 oltre a una doppia top ten al Giro di Lombardia.

«Si tratta di una frase un po’ provocatoria perché quell’anno è stato uno dei pochi in cui il Giro ha dovuto cancellare una tappa per motivi tecnici. Si trattava della frazione con arrivo a Bormio e la scalata al Gavia che, dopo la vittoria a Corvara in Badia, avrebbe potuto rappresentare per me un trampolino di lancio verso il successo finale – racconta Giupponi -. Il Gavia è una di quelle salite dove puoi perdere tre/quattro minuti e che avrebbe potuto metter in crisi Fignon visto che in quel momento era alle prese con alcuni problemi al ginocchio. Togliendo quella tappa è stata cancellata la possibilità di realizzare un sogno e nella mia mente è sempre rimasta l’idea che, se si fosse disputata quella frazione, avrei vinto il Giro».

Nonostante Flavio non viva di rimpianti, pensando a quell’edizione della Corsa Rosa qualche dettaglio torna alle mente rafforzando la convinzione che quel Giro si poteva vincere se tutto fosse andato per il meglio: «Ho avuto un po’ di sfortuna nella cronoscalata al Monte Generoso perché avevo montato dei tubolari speciali per rendere la pedalata molto più scorrevole e migliorare così la performance. Purtroppo quel giorno piovve e quella tipologia di gomme rese la strada particolarmente scivolosa tanto da non riuscire ad alzarmi sui pedali per rilanciare la velocità a ogni tornante – ricorda il capitano della Malvox -. Il giorno prima di Corvara invece arrivavamo alle Tre Cime di Lavaredo. A causa del freddo sono andato in difficoltà e sono rimasto solo. Purtroppo Lech Piasecki, che mi avrebbe potuto aiutare rimanendomi vicino al tratto attorno al Lago di Misurina, non ce l’ha fatta e non ho potuto guadagnare secondi preziosi».

In quel periodo a cavallo fra gli Anni Ottanta e Novanta, Giupponi ha rappresentato l’“anello di congiunzione” fra due generazioni, quella di Francesco Moser e Giuseppe Saronni che avevano dominato il ciclismo italiano, e quella di Gianni Bugno e Claudio Chiappucci, pronti a prendere il largo e a battagliare con lo spagnolo Miguel Indurain per aggiudicarsi un “posto al sole” non solo in Italia, ma anche sulle strade del Tour de France e dei Mondiali che hanno regalato loro grande gloria.

«Per le mie caratteristiche sono stato probabilmente uno dei migliori a esprimermi al Giro d’Italia, diventando una sorta di traghettatore fra le due epoche. Senza dubbio l’impronta di big come Moser, Saronni, Baronchelli, Visentini e Roche (che relegavano i gregari a lavorare esclusivamente per loro) mi ha segnato e mi ha insegnato molto. Gareggiare con loro mi è costato forse qualche piazzamento visto che, per esempio, al Giro 1986 ero gregario di Saronni nonostante vestissi la maglia bianca dedicata al miglior giovane. Con Chiappucci e Bugno le squadre invece si sono aperte a più corridori per giocarsi il titolo – ha aggiunto Giupponi -. Per questo la Del Tongo ha consentito di risparmiarmi un po’, sebbene quando Beppe rimaneva da solo dovevo mettermi a tirare lasciando da parte le mie ambizioni».

Proprio quell’edizione del Giro segnò in parte la carriera di Giupponi che, salendo verso Foppolo, dovette cedere il riconoscimento diventando però testimone di uno dei più grandi enigmi del ciclismo moderno che vide protagonista anche un altro bergamasco: «Quel giorno in molti andammo alla deriva. Io arrivai sottopeso di quattro chili. Ero partito che pesavo 62 chilogrammi, arrivai alla fine che ne pesavo 58. Forse a causa della poco esperienza, in una gara da tre settimane io e Bugno (che era in maglia verde di miglior scalatore), arrivammo sfiniti lasciando solo Saronni, costretto a cedere la maglia rosa davanti agli attacchi di Visentini sull’ultima salita. Cosa sia accaduto fra Baronchelli e Moser è rimasto sempre un segreto che Gianbattista non ha mai voluto rivelare, nemmeno quando dopo il Giro passò alla Del Tongo e divenne il mio compagno di squadra. Sicuramente c’è stata una lite fra i due, probabilmente in una delle gallerie prima di Foppolo, tuttavia Tista non ha voluto svelare la verità, cosa che mi auguro prima o possa fare».

Da quel 1989 Giupponi non è più riuscito a ripetersi. «In molti mi hanno contestano di non esser abbastanza egoista per curare risultati di alto livello, tuttavia il cerchio dello sport è molto più corto di quello della vita – conclude Giupponi -. Oggi come oggi non saprei indicare un corridore che mi assomigliava completamente, tuttavia proprio a livello di generosità, quello che più si avvicinava era Miguel Indurain. Chiaramente si tratta di un atleta che ha conseguito tutt’altra tipologia di risultati, ma che, a differenza di altri campioni, si è dimostrato anche particolarmente vicino agli avversari».

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