«Un giorno mia figlia, tornata da scuola, mi disse in lacrime: “Mamma, ma la nonna mangia le persone?”. Io, incredula, le chiesi il motivo di quella domanda e lei mi rispose: “Perché a scuola stiamo facendo un musical su “Il giro del mondo in 80 giorni” e, quando i protagonisti arrivano in Africa, io e altri bambini li dobbiamo inseguire con delle lance e fare la battuta: “Mmm, che languorino. Che dite, li mangiamo?”, per poi metterli in un pentolone». Così Marilena Umuhoza Delli, all’inizio del workshop « Per una scuola decoloniale, antirazzista e intersezionale » tenuto lo scorso 18 marzo all’Abbazia di San Paolo d’Argon, ha raccontato la pesante “goccia” che a un certo punto ha fatto traboccare il suo vaso di rabbia. Un vaso alimentato fin da quando era bambina, negli anni Ottanta.
Nata e cresciuta in Italia – anzi, in «due Italie» – l’autrice definisce il papà bergamasco come il suo «passaporto» : «al suo fianco ero automaticamente parte del club “nòter”, un’italiana a tutti gli effetti». Fanno eccezione, precisa, i casi in cui la gente in passato chiedeva al padre se la bimba fosse stata adottata, oppure, oggi, se la donna sia la sua badante. In ogni caso, era una delle due Italie in cui viveva Marilena, quella del padre. La seconda era molto diversa: era quella della madre, una donna nera, con disabilità, a cui una volta era stato negato il diritto di voto, perché creduta “irregolare”. «Accompagnata da lei, la gente ci insultava. Polizia e vigili ci fermavano regolamene per controllare i documenti» ricorda la scrittrice che, a fianco della madre, diventava «l’extracomunitaria», la straniera, nonostante l’italiano perfetto e pure l’accento bergamasco (conservato anche oggi). Difficile trovare e vedersi in un modello.
«Vent’anni di scuola e non una pagina che mi rispecchiasse, non un autore o un personaggio di origini africane a ispirarmi e a cui aggrapparmi – prosegue l’autrice – Nel mio cuore cercavo disperatamente un modello in cui riconoscermi: un personaggio, una storia, qualsiasi cosa mi permettesse di creare una connessione fra me e lo studio». Legge l’incipit del suo saggio, sollevando subito un tema a lei molto caro, quello della mancata o parziale rappresentazione di persone con background migratorio sui libri di testo scolastici, dove campeggiano solo esempi di uomini e (poche) donne bianche e vicende ambientate in Italia e in Europa. Le prime persone nere a comparire tra le pagine, ricorda, furono gli schiavi della tratta atlantica: «Prima di leggere di altre donne e uomini con la pelle nera, avrei dovuto attendere il capitolo su Martin Luther King e sulla lotta per i diritti civili in America».
Eppure – continua Marilena, proiettando vecchie fotografie sul muro della sala nell’Abbazia di San Paolo d’Argon – «la Storia del nostro Paese è ricca di donne e uomini afrodiscendenti come me». L’imperatore romano Caracalla, figlio di Settimio Severo, di origini berbere puniche; Publio Terenzio, il primo poeta della diaspora africana; papa San Vittore I, papa Milziade e papa Gelasio, provenienti dalle attuali Tunisia e Algeria, sono solo alcuni degli esempi che la scrittrice cita. «Conoscere il contributo che molti studiosi, artisti e politici di origine africana hanno apportato alla cultura del nostro Paese è il modo più semplice ed efficace per far comprendere ai ragazzi che l’italianità non passa per la “bianchezza” e che la “nerezza” ha sempre fatto parte dell’identità italiana». Un esempio su tutti? L’Impero Romano, la cui forza si è fondata proprio sull’apertura verso il prossimo e, soprattutto, sulla concessione della cittadinanza romana a tutti, o quasi, gli abitanti dell’Impero. Mentre la donna parla, mi torna alla mente un interessante intervento dello storico Alessandro Barbero proprio sul tema dell’identità etnica, frutto inevitabile dell’incontro (o scontro) fra popoli.
«Quando prendiamo un libro di testo in mano, come individui o come scuola, stiamo scegliendo a chi dare voce» continua Marilena, sottolineando quanto sia centrale rendere più inclusivi e interculturali i programmi scolastici odierni, mostrando la Storia da tutti i punti di vista. «La pagina del colonialismo italiano è una delle più importanti per comprendere il razzismo culturale che permea la nostra società. Senza questa analisi, il processo di decolonizzazione scolastico non può né iniziare né proseguire». L’autrice ricorda così le vecchie lezioni su Cristoforo Colombo, descritto solo come un “eroe”, o quelle sulla Resistenza, condotta apparentemente solo da partigiani maschi e bianchi, ignorando altre figure che si sono spese per la Patria. Tra queste, Marilena cita Italo Caracul , detto «Tripolino»: un orfano undicenne di origine libica, condotto in Italia da soldati italiani di ritorno dalla campagna d’Africa e arrivato nella zona di Gandino, a Bergamo.
«La Bergamo di quegli anni non era multietnica quanto lo è oggi: il mio senso di isolamento ed estraniazione era alimentato anche da questo grave vuoto, la non prossimità con altre persone afrodiscendenti come me. Ma oggi Bergamo è diversa, l’Italia è diversa – l’8.6% della popolazione italiana è composta proprio da persone con background migratorio – Non possiamo più proporre ai ragazzi gli stessi curricula di trent’anni fa. La scuola va svecchiata, decolonizzata e aggiornata per stare al passo con i tempi e con le studentesse e gli studenti delle nuove generazioni». In sintesi, oggi la scuola italiana è già multiculturale (lo dimostrano i numeri), ma non lo sono le politiche e i programmi che la governano.
L’inevitabile rischio, dato dalla rimozione di una parte della Storia – “invisibilizzata” o raccontata da un solo punto di vista – è secondo Marilena quello di originare e alimentare fenomeni di razzismo, ovvero «un sistema che privilegia alcuni individui rispetto ad altri». Attenzione però, specifica l’autrice precedendo una possibile obiezione: «Affermare che il razzismo privilegia i bianchi non significa che i singoli bianchi non debbano mai affrontare delle discriminazioni; significa che non devono affrontare quelle specifiche del razzismo».
Per farci comprendere meglio il fenomeno, lunedì scorso a San Paolo d’Argon la scrittrice ci ha invitato a partecipare a una semplice attività: alzare entrambe le mani, come ad indicare il numero 10, e abbassare un dito ogni qual volta avessimo sentito una frase che ci rispecchiasse. «Mi è mai stato detto “Parli bene l’italiano”? Mi sono mai stati chiesti i documenti senza un preciso motivo? Sono mai stata discriminato/a per il colore della mia pelle?». Ad ogni domanda, le dita di Marilena si abbassavano, mentre quelle del pubblico rimanevano su, tese. Alla fine, la donna è rimasta con le due mani chiuse a pugno; di fronte a lei, noi tutti eravamo con le mani aperte, a indicare il numero dieci. Quell’esercizio ci ha resi testimoni di un razzismo più subdolo, quello che si cela dietro le battute innocue che sentiamo tutti i giorni per strada, sul tram, sui social.
«È una forma di “razzismo interiorizzato” e dunque, per la maggior parte dei casi, inconsapevole» spiega Marilena. È quello che nasce all’interno della forma mentis di ogni bambino, fin da piccolissimo. Lo dimostrano diversi studi, come quello di Children’s School Community, citato nel libro, e l’articolo «See Baby Discriminate» dell’Università del Texas. Secondo le analisi, già a 30 mesi, il bambino inizia ad utilizzare la «razza», intesa come costrutto sociale, per ragionare sui suoi comportamenti e scegliere, per esempio, il proprio compagno di giochi in base al colore della pelle. Tra i 4 e i 5 anni poi, i bimbi hanno quasi tutti gli stessi pregiudizi che hanno gli adulti, come conferma il famoso «Doll Test» – condotto per la prima volta negli Stati Uniti nel 1940 dai dottori Clark per sviscerare il razzismo interiorizzato già presente in tenera età – e svolto più recentemente anche in Italia.
«È stato però dimostrato che basta una settimana nei bambini tra i 5 e 7 anni per smontare gli stereotipi e pregiudizi razziali – continua Marilena – Spesso si ha paura di parlare di razza e di razzismo ai bambini, invece è importante farlo fin dai primissimi anni. È il silenzio sulla razza, inteso come costrutto sociale, ad alimentare il razzismo stesso. Se il discorso non viene fatto, magari accade che i bambini si formino una propria idea ascoltando stralci di conversazioni sulle migrazioni, guardando i mass media. Evitare di parlare di razzismo con i bambini significa lasciarli in balia degli stereotipi, ma anche omettere l’esperienza delle persone “razzializzate”, che veramente il razzismo lo vivono, oltre che tutta la storia legata al razzismo che contraddistingue il nostro Paese. Le insegnanti e i famigliari, chiunque sia a contatto con un bambino, hanno un grandissimo potere, cioè di aiutarli ad avere una consapevolezza e un’educazione riguardo a questa tematica».
Prima di salutarla, rivolgo a Marilena un’ultima domanda: «Come ha reagito tua mamma quando è uscito “Lettera di una madre afrodiscendente alla scuola italiana”?». Gli occhi le diventano un po’ più lucidi: «È stata molto orgogliosa, soprattutto della risposta del pubblico. Sto viaggiando in tutta Italia e incontrando molte e molti insegnanti illuminati. C’è una grandissima voglia di cambiare».