Via Guglielmo Longo è una via a senso unico. Una via fatta di macchine posteggiate a bordo strada, che probabilmente non attraverseresti mai se non per raggiungere Borgo Santa Caterina da via Suardi. Melania Giacometti non riesce ancora a spiegarsi cosa l’abbia conquistata in quello spazio senza numero civico, appena prima dell’11, dove lo scorso novembre ha aperto la sua Piccola Sartoria Panini.
«Questo spazio era l’ufficio di un idraulico, chiuso da tanto tempo. Le pareti erano azzurre, era tutto completamente diverso. Quando ho scelto di cercare un posto tutto mio, qualche mese fa, questo è stato il primo che ho visto. Mi ha colpito subito. Ho scelto lui, ho iniziato a ridipingerlo, a portarci mobili… Prima non c’era questo pavimento, ho messo il parquet… Volevo che questo posto mi rispecchiasse, fosse un po’ a mia immagine». Melania mi presenta il luogo in cui lavora prima ancora di parlare di sé stessa. All’ingresso c’è una macchina da cucire Singer («me l’hanno regalata, probabilmente per utilizzarla ci metterei cent’anni rispetto a una macchina elettrica, ma funziona, con la manovella e tutto»), un tavolone sotto cui sono nascosti scampoli e rotoli di tessuto, una camicetta a pois poggiata sull’asse da stiro. E poi l’appendiabiti, lo specchio, una parete ricoperta da bobine colorate di fili da cucito.
Congiunzioni astrali
C’è una sedia, ma l’artigiana resta in piedi mentre parla. Classe 1986, ha i capelli scuri, gli occhi che brillano, un paio di calzoncini gialli a righe fucsia. Ovviamente, li ha confezionati lei. «Sono di Bergamo, quando avevo sei anni mi sono trasferita a Napoli. Ho vissuto lì per quasi vent’anni, e poi un anno in Francia dove ho studiato e lavorato. Nel 2010, sono tornata nel mio paese natale. Mi sono laureata in Francese e mi sono occupata a lunga della parte organizzativa e didattica dei corsi di lingue».
La mamma di Melania possiede una macchina da cucire a pedale. «Però lei non cuciva mai, era la nonna a farlo. Mia nonna mi ha insegnato a fare i ferri, l’uncinetto, a rammendare i calzini… Ricordo la sua scatola piena di fili, aghi, bottoni. Da piccola, mi capitava di confezionare i vestitini per le Barbie». Come la passione per il cucito sia riemersa, ad un certo punto della vita di Melania, la mia interlocutrice fatica a spiegarlo. «È stata una serie di congiunzioni astrali. Il mio compagno mi ha regalato una macchina da cucire, e allora ho detto: “Ok, ci riprovo”. Avevo tempo, perché in quel momento ero senza lavoro». Dopo un primo corso base, Melania prende lezioni private con una sarta. «È stata la svolta: ho imparato a fare i cartamodelli, a disegnare capi miei e a trasformare le mie idee in abbigliamento».
Nel novembre del 2020, un po’ per gioco, un po’ su spinta delle amiche, apre una pagina Instagram. La chiama Panini, come il soprannome che le ha dato il nipotino Leo. «Non ho mai capito come mai, ma mi ha sempre chiamato così. La ripresa del cucito, tra l’altro, è coincisa con la sua nascita. Il lavoro che avevo prima era un lavoro d’ufficio. Il mio nipotino, invece, in un certo senso mi ha tirato fuori questa voglia di creare, fare, di dedicarmi ad attività manuali».
I social sono un lavoro e Melania lo sa. Non ha esperienza di marketing alle spalle, ma ci prova. Pubblica le prime foto dei capi che realizza, prima appoggiati sulle sedie, sui mobili di casa. Poi comincia ad indossarli e a raccontarsi. «Fin da subito, ho pensato di farmi conoscere sui social come persona, farmi vedere al di là del capo che vendo. Mi piace raccontare chi sono, perché secondo me la differenza con tante realtà non artigianali è che tu non vedi solo il prodotto finito: dietro c’è una storia. Quello vorrei è far conoscere Melania, che non è solo la Piccola Sartoria Panini».
A poco a poco, la passione cresce, diventa un lavoro a tutti gli effetti. Melania apre partita IVA e comincia a cercare un posto che sia, per davvero, il suo posto. Un posto che possa diventare un piccolo atelier, un laboratorio dove ideare, tagliare – («una delle parti che preferisco, sono una precisina!») – confezionare modelli. «Avevo lo studio in casa, ma non ci stavo più. E poi, mi serviva un po’ staccare da casa. Secondo me la qualità del lavoro è diversa, se tu hai il tuo posto, il tuo studio. Sentivo anche la necessità di uno spazio dove poter incontrare le persone» .
Stoffe che parlano francese
Oggi, in via Longo, Melania riceve su appuntamento. Preferisce non esporre per fiere o mercatini, ma continuare – almeno per il momento – a raccontarsi sui social, e ad incontrare le clienti che le chiedono di realizzare capi su misura. Perché questa è la formula principale con cui lavora la Piccola Sartoria Panini: il made to order. «Realizzo principalmente capi su misura, a partire da scampoli o fine pezza, cioè la parte rimanente del tessuto, che a volte è talmente piccola da venire scartata, ma secondo me è la perla, perché racconta una storia. Mi definisco un’accumulatrice seriale di scampoli e cerco sempre di rifornirmi con tessuti di recupero o comunque con tessuti che abbiano dietro una filosofia, un’idea. Questa è forse la caratteristica principale della mia attività. Tanti mi chiedono: “Ti conviene?” perché magari faccio pochi pezzi… Secondo me sì, magari non economicamente, ma penso che il capo che realizzo abbia un valore diverso. Pensare che quel capo ce l’hai tu e basta…».
Chiedo a Melania come succede che le idee si trasformino in vestiti. «È un processo sempre in evoluzione. Per quanto riguarda i colori spazio: di solito è il tessuto che mi chiama, mi colpisce. Non amo il fluo, ma prediligo colori abbastanza tenui: verdino, beige, marrone. E poi, mi piace la comodità: cose strette, attillate, da Piccola Sartoria Panini non le troverai mai. L’idea è proporre linee morbide, capi in cui ti senti bene, puoi essere te stessa, anche se porti una taglia 50 e fatichi a trovare qualcosa che sia un po’ giovanile. Quello che faccio di solito è lavorare sul cartamodello, studiare l’abito sulla mia misura per vedere come sta su di me, e poi da lì sviluppare eventualmente delle taglie».
I tessuti di Melania non hanno solo una storia. Hanno anche un nome. Maurice, Frollo, Noemie, Valerie. Nomi che l’artigiana attinge da vecchi libri «giallissimi» conservati a casa. Nomi di personaggi della letteratura francese antica e contemporanea. Del resto, basta uno sguardo alle camicette o alle gonne esposte da Panini, per notare un tocco di francese. «Il mio è sempre stato uno stile un po’ “francesino”, romantico… Fa parte anche quello di me, dei miei studi, del mio passato in Francia».
Il tempo dell’handmade
Dicono che l’handmade rilassi. Chiedo a Melania se sia d’accordo. Se quando è nervosa il tessuto ne risente, oppure se tagliando capi si raddrizzino anche le giornate più storte. «A me lavorare calma. Se la mia giornata è una giornata frenetica oppure sono stanca emotivamente, mi basta aprire la porta per sentirmi in un posto sereno. Il fatto di mettermi lì, prendere le misure, le linee… è una parte che mi rilassa molto. È vero che ci sono dei giorni in cui magari provo a fare quella cosa, non mi esce, ci riprovo, non esce… allora chiudo e faccio un giro. Il bello di essere libera professionista è proprio poter gestire il mio tempo».
Non posso fare a meno di notare quanto la parola «tempo» ricorra nelle parole di Melania. Cercare un tessuto richiede tempo. Per non parlare della trasformazione di un tessuto in abito. Lo capisco: l’handmade non piace a tutti perché non tutti sono disposti ad aspettare. A studiare il modello in compagnia dell’artigiano, ad accettare che venga toccato e ritoccato. Soprattutto, ad acconsentire che venga creato da zero, e non copiato da altri come talvolta qualcuno richiede. «Ora ho appena lanciato la collezione invernale. E poi ho tutto un progetto in mente: a breve, partirà una collaborazione con un’illustratrice e ricamatrice di Milano, Giulia, che ha una pagina che si chiama “Le Pupine”. Sono tutte cose che richiedono tempo e studio. In sartoria, faccio tutto io: gestisco i social, cerco le stoffe, la fatturazione… è faticoso, perché quando il lavoro è tanto, non smetti mai. Ma quando mi sveglio al mattino sono contenta… e non si vive forse per questo?».