La bicicletta è appoggiata al muro, accanto a un vaso di fiori e un portaombrelli. Prima di suonare il campanello, lancio uno sguardo al sellino. Un sacchetto in plastica giallo, annodato con cura, lo ripara dalla pioggia che in questi giorni sembra non concedere tregua.
«Hai preso l’acqua?» è la prima cosa che mi domanda la proprietaria di casa, invitandomi a entrare. Si affretta a spegnere la radio, ma quando preme «off» mi sembra che qualcosa stia continuando a suonare. Forse perché appesi alla parete davanti a me ci sono due chitarre, sei mandolini e uno strano strumento nero, che mi ritrovo a guardare a lungo incuriosita. «È una sorta di salterio, l’ho comprato a un mercatino».
Tavoli in legno, pavimento e mensole in legno, le venature di volta in volta più ondulate, irregolari, dalla direzione tutta loro. Il laboratorio di liuteria di Silvia Zanchi sorge in via Martinella 25 a Bergamo, e più che un laboratorio ricorda un cantiere. C’è persino un umarèll in miniatura, di nome Gioàn, che fissa quanto accade con aria inquisitoria.
Quella mostra che ha cambiato tutto
Classe 1981, Silvia Zanchi si dedica ormai da anni alla costruzione e al restauro di strumenti musicali a pizzico, in particolare chitarre classiche da concerto. Alla sua attività principale affianca il lavoro di ricerca sulle tecniche costruttive degli strumenti musicali storici e sulle t ecniche di verniciatura a gommalacca, oltre a tenere corsi di costruzione, verniciatura e restauro.
«Ho sempre amato i giochi creativi – racconta pulendosi le mani sul grembiule rosso accesso, macchiato qua e là di colla – Ho giocato poco con le bambole, preferivo i Lego, le costruzioni. Abitavamo a Gorle, la casa era grande, mio papà conservava in cantina ferri vecchi, martelli, chiodi, seghe, qualche attrezzo sgangherato. Quando dovevo andare in prima elementare mi sono costruita uno sgabellino per appoggiarci la cartella ». Mi guardo attorno. Lo sgabellino qui non c’è, è rimasto a casa. Però c’è un altro manufatto, che Silvia mi mostra con gli occhi che brillano. Un coltellino giocattolo, costruito probabilmente con un angolare di una cassetta della frutta.
La musica, da bambina, è ancora solo un sottofondo: «Mamma e papà avevano iscritto me e le mie sorelle a un corso di chitarra classica in biblioteca a Gorle, dopo la cosa è rimasta un po’ lì, in incubazione».
Silvia si iscrive al liceo artistico, e tra tempere, acquerelli e plastilina, comincia a sognare di lavorare nel campo della conservazione e della valorizzazione del patrimonio culturale. Poi a un certo punto, in seconda liceo, le accade di visitare con la classe una mostra di Evaristo Baschenis in Accademia Carrara. «C’erano queste nature morte con degli strumenti musicali che io non avevo mai visto, come il liuto. E poi, alcune vetrine con delle ricostruzioni dal vivo, in scala uno a uno, degli strumenti musicali dipinti. Ricordo che questa cosa mi aveva lasciato sconvolta, perché lì ho scoperto che le chitarre non si comprano solo al negozio, cioè esistevano degli artigiani che facevano le chitarre».
Le prospettive sul futuro cambiano alla svelta. Internet in casa Zanchi non è ancora arrivato, ma grazie a un’amica, Silvia scopre che a Milano esiste una scuola dove “fanno le chitarre”: la Civica Scuola di Liuteria . «Se penso alla modalità con cui ho mandato la mia lettera di presentazione – ride – Adesso, se devi mandare qualcosa di importante, utilizzi una raccomandata con ricevuta di ritorno, carichi un curriculum vitae su un portale. Avevo inviato una busta normalissima: “Buongiorno, sono Silvia Zanchi, vorrei tanto iscrivermi”». Non immaginava ancora che in quella scuola non si sarebbe solo diplomata – prima in costruzione di strumenti musicali a pizzico e poi in restauro – ma sarebbe anche tornata anni dopo, come docente.
Una chitarra nel mondo, il mondo in una chitarra
Silvia lavora da sola, in via Martinella 25. Ogni tanto le fa compagnia Tom, un coniglietto che si aggira qua e là tra i profumi di abete e i pennelli. Altre volte, invece, alla porta bussano visitatori e musicisti, che la liutaia riceve su appuntamento. Qualcuno chiede una riparazione, qualcun altro che la sua chitarra prenda vita. Negli anni, Silvia ha restaurato strumenti importanti. « Il rispetto dell’originale è la prima cosa. Tutto quello che arriva a noi dal passato deve essere in qualche modo preservato, conservato. A volte mi hanno portato degli strumenti così ridotti male che ho detto: “Te lo posso anche restaurare, però restaurarlo vuol dire praticamente rifare tutto”. Penso sempre che il lavoro debba essere fatto bene – confida schietta – A volte, diciamo, ho “perso” un lavoro per via di questo tipo di discorso, ma ho guadagnato la fiducia di un cliente. E questo per me vale molto di più».
Le commissioni arrivano a Silvia attraverso i social network, in particolare Instagram, su cui condivide i brevi video che si diverte a girare e montare, ma soprattutto dal passaparola. «Nella realtà più tangibile, quello che ti fa maggiore pubblicità è quello che fai». Poi ci sono le fiere, vetrine necessarie. Silvia carica i suoi strumenti in macchina e li accompagna a Mantova, in Francia, a Shanghai, a Utrecht. Apripista per quanto riguarda la liuteria “al femminile”, Silvia si è scontrata più volte con i pregiudizi («Buongiorno, Silvia Zanchi liutaia? Posso parlare con il titolare?»). Li ha superati negli anni, intessendo relazioni professionali in tutto il mondo. Un dealer in Thailandia, uno negli Stati Uniti, un altro ancora in Taiwan.
A « Roma Expo Guitars », lo scorso marzo, ha presentato la sua «Limited Edition». Me la mostra, estraendola delicatamente dalla custodia nera. La mano destra regge il manico in cedrella marezzata, mentre la sinistra corre sulla cassa della chitarra, che al fondo in palissandro del Madagascar unisce filetti di legno serpente e una tavola in abete maschiato. Silvia ha curato tutto nei dettagli, la vena artistica che pulsa viva dai tempi del liceo: il ponticello che aggancia le corde ha una cornice di madreperla, la rosetta è a mosaico e persino l’etichetta interna allo strumento, che porta il nome della costruttrice, è dipinta a mano. Il tutto è rifinito a gommalacca, una resina naturale secreta da un insetto che Silvia custodisce in un barattolo: frammenti arancioni che sembrano pezzi di vetro, solo che sono morbidi al tatto.
Per dare vita a una chitarra occorrono mesi di lavoro e di pazienza. «Si parte da un progetto, da un’idea. Adesso faccio principalmente strumenti costruiti sul mio modello, sullo strumento mio, che mi sono progettata negli anni. Su richiesta, faccio anche altro. In ogni caso, avere un progetto su carta, o disegnato grazie a programmi come Autocad, è un grande riferimento. Poi si prepara una dima in compensato, una sagoma ». Ogni chitarra è un organismo vivo, dotato di esigenze specifiche. «Quando montiamo le corde, lo strumento è sottoposto a uno stress. Le corde tirano parecchi chili. Ecco perché all’interno dello strumento inseriamo quelle che si chiamano “catene”, barre di legno di rinforzo che vengono sagomate e lavorate».
A seconda della venatura del legno, inoltre, Silvia lavora con diversi attrezzi. Uno di questi, un piegafasce che campeggia sul banco tra lime e scalpelli, l’ha addirittura costruito lei, quand’era studentessa, con i compagni della Civica Scuola di Liuteria di Milano. «Eravamo intraprendenti ai tempi» ammicca soddisfatta, mentre condivido con lei la mia poca dimestichezza con le attività manuali.
C’era una volta una scatola a forma di otto
Spesso si dice che in musica una delle cose più importanti sia avere orecchio. Mentre Silvia fa vibrare con il dito indice la corda del RE, penso che la stessa cosa valga anche per un artigiano. Il liutaio lavora sul suono dello strumento prima ancora che questi canti. «È difficile da spiegare, ma in qualche modo il suono ce l’hai già in mente. Come hai già in mente che puoi fare due strumenti, cento strumenti, con il legno preso dallo stesso albero, con le tavolette adiacenti, calibrate allo stesso modo, incatenate allo stesso modo… E saranno comunque strumenti diversi. Il carattere dell’uno sarà diverso dal carattere dell’altro».
Ci sono due momenti magici, nella vita di Silvia Zanchi. Il primo si riferisce a quella sensazione che può capire solo chi va in montagna. La sensazione di suono ovattato che si ha nel calpestare gli aghi di pino che ricoprono il sentiero. Il secondo, altrettanto poetico, è «quel momento cruciale quando ti trovi a montare le corde. Gli strumenti sono sempre un po’ intontiti, sono lì tra l’essere una scatola a forma di otto con dei fili montati e strumenti veri e propri. Ci vuole un attimo perché possano prendere bene la loro voce ».
A chi pensa che il viaggio sia finito, Silvia risponde che è solo all’inizio. «Quando il musicista compra una chitarra, la deve conoscere. Ci fa le presentazioni, esce a berci una birretta – ride, spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio – Da una parte, lo strumento cresce nella direzione in cui il musicista lo sollecita, dall’altra, lo strumento ha delle caratteristiche, delle potenzialità che il musicista deve essere in grado di tirar fuori. Di fatto, sono due figure che si completano, cioè lo strumento non è finito finché non c’è un musicista».
E non nasce, mi viene da dire, finché non c’è un artigiano.