Mi accoglie con due tazzine di caffè in ceramica, poggiate su un vassoio d’argento lavorato a mano «di quelli che oggi non esistono più, perché non c’è più nessuno che li sappia fare». Sono i gesti di Steno Perini – pacati, eleganti, mai di troppo – a colpirmi, prima ancora dei gioielli che mi mostra. Tutti fatti a mano, da lui, dal padre Franco e, da qualche mese, anche dal figlio Nicola.
Che l’artigianalità sia un «mezzo per preservare bellezza» , Steno l’ha imparato dal padre, che negli anni Sessanta si trasferì a Zurigo per imparare l’arte dell’oreficeria. «In Germania, ha incontrato la donna della sua vita, bergamasca di Villongo. Hanno avuto una figlia là poi, nel 1962, sono rientrati in Italia e papà ha aperto il primo laboratorio a Bergamo». Gli occhi di Steno brillano, nel ricordare quello che più che un laboratorio era una stanza per “addetti ai lavori”, al secondo piano di Via Ghislanzoni.
«Credo di essere nato lì, professionalmente. Ho fatto scuole specifiche, sono maestro d’arte dell’oreficeria, ma la vera scuola è stata il laboratorio di papà. C’era l’incisore, l’incassatore, l’orafo, la pulitrice… il papà che picchiava con il martello e cercava di coinvolgermi. Non sapevo cosa stessi picchiando, ma il fatto di picchiare con il martello, limare o fingere di limare, per “far su l’anello alla mamma” … mi coinvolgeva. Poi il fatto di andare in laboratorio a Bergamo col papà… era un evento, una gioia, perché ci portava nel suo regno».
Nel 1980, Franco Perini apre una gioielleria a Villongo, la Gioielleria Perini. «Mio fratello Luca è gemmologo, ha studiato ad Anversa. Io e papà, invece, siamo ancora oggi gli artigiani al banchetto, dove avviene la creazione: ci occupiamo della relazione con il cliente, del disegno, della fusione del metallo fino all’oggetto vero e proprio».
Mentre parliamo, Steno tiene in mano una penna. Prende un post-it giallo, comincia a disegnare. Lui definisce il mestiere dell’orefice come lo definiscono i tedeschi, il «fabbro dell’oro», perché «lavori come un fabbro, ma è tutto ridotto e con un metallo più prezioso». In realtà, quello che Steno fa mi sembra più simile al mestiere dell’artista. «Nasce tutto da un progetto su disegno o da un’indicazione del cliente di ciò che ha visto su rivista o ciò che vorrebbe. Il cliente poi si affida molto all’esperienza dell’artigiano: io, nel disegnare un gioiello, me lo vedo già finito e posso abbinarlo al viso, al collo, al braccio. Oggi siamo fortunati, perché la tecnologia ci aiuta molto, e con l’avvento del computer e dei disegni 3D possiamo vedere già l’oggetto finito a schermo. Però, nel momento in cui il computer si blocca o c’è qualche intoppo tecnico devi essere in grado di farlo a mano. La manualità è importantissima».
Per spiegarsi, Steno mi mostra un anello. La forma è quella di un fiore, con le foglie d’oro rosa fatte a mano, una ad una, e poi appoggiate e incassate insieme. Il tutto, facendo attenzione a curare tanto il lato esterno quanto quello interno, perché «il gioiello fatto ad opera d’arte deve essere curato anche dove è nascosto, deve avere quella finitura, o quel ricamo, per cui dici: deve essere fatto come si deve» . È un lavoro che richiede tempo, mi confida il mio interlocutore, oltre che pazienza. «Ricordo i laboratori che frequentavo: mi dicevano “L’oro è l’ultima cosa che tocchi”. Prima impari i ferri del mestiere per lavorare, cominci a limare il ferro, il legno, l’ottone. Quando raggiungi una capacità minima, allora poi toccherai l’oro. Non solo perché è un metallo prezioso, ma anche perché poi quando fai il tuo primo anellino d’oro, anche se storto… te ne ricordi, è un traguardo. C’è la soddisfazione nel vedere qualcosa di bello che prende vita. Lo vedi nascere. Tante volte anche in corso d’opera hai delle modifiche perché capisci che sei stato lì ad immaginarlo in un modo e poi ti dici “ma se questa foglietta la metto in altro modo…”: ecco quello che mancava. Crei qualcosa di unico».
Il lavoro di chi dà vita gioielli, mi spiega Steno, è suddiviso in varie fasi di costruzione: c’è chi disegna, c’è chi crea l’oggetto e l’assembla, l’incassatore, ovvero l’addetto che sa fissare le pietre, poi la pulitrice. Nel laboratorio della gioielleria Perini, «ci si arrangia un po’ a fare tutto, al meglio». Sono tante le domande che sopraggiungono mentre l’orefice mi accompagna nel suo regno: il laboratorio. Nulla mi sembra lasciato al caso: ogni utensile è al suo posto. Imparo che gli strumenti che oggi l’orafo utilizza non sono cambiati molto da quelli che venivano usate nelle vecchie botteghe. C’è il banco di lavoro, illuminato da una lampada. Ha una sporgenza in legno, un parallelepipedo, dove Steno appoggia la lima. Al di sotto, un grande cassetto con una griglia che raccoglie gli scarti. «È oro: quindi non posso buttare via nulla. La limatura verrà purificata e recuperata».
Steno mi mostra il cannello per la saldatura, i contenitori dove viene versato l’oro fuso, lo strumento che utilizza per tirare il filo d’oro, sempre più sottile. C’è anche una stampante 3D, spesso utilizzata per esercitazioni, per mostrare alla cliente una prova di quanto poi verrà realizzato («un tempo si faceva tutto a mano, oggi possiamo stampare prototipi in resina, che ci aiutano a vedere l’oggetto finito»).
Per quanto gli occhi di Steno brillino quando si siede al banco di lavoro, gran parte del suo lavoro giornaliero non avviene lì, ma in studio o in negozio. «Non tutti i giorni crei gioielli nuovi, magari… magari si potesse creare sempre il bello e il nuovo. Oggi il mercato ti chiede anche un’attenzione, una cura per l’aspetto del commerciale e del rapporto con il cliente che toglie tempo all’artigianato vero e proprio. Abbiamo un sito web,che è una comodità per il cliente che vuole raggiungerci, conoscerci. Tuttora, però, il veicolo migliore è il prodotto che tu fai. Non tutti i clienti, poi, vogliono che le foto dei loro gioielli vengano pubblicati sui nostri social, o sul sito. C’è la cliente che ti dice “è una cosa mia”. Bisogna mantenere quel filo di riservatezza e rispetto tra cliente e orafo che crea l’oggetto, così il rapporto si solidifica».
Di relazioni, negli anni la Gioielleria Perini ne ha intessute molte. Nel 2016, i due fratelli e il padre Franco hanno voluto omaggiare l’artista Christo con una passerella in oro, una riproduzione dell’opera che quell’anno tingeva di giallo il Lago d’Iseo, i «Floating Piers». «È stata una cosa nata al volo, un grazie da artigiano ad artigiano».
«Tuttora – continua Steno – si lavora con una clientela medio-alta perché si ricerca sempre un prodotto artigianale, perché vai a creare il gioiello su commissione, non il copia-incolla del brand famoso. Certo, ci sono sempre degli input che vengono dati dai grandi brand o dai vecchi gioielli della regina». Ride, perché questo è il momento delle spille e delle perle.
«Ci sono gioielli molto semplici all’apparenza, ma che richiedono tempo… Arrivi a quel risultato solo se ci metti ore e ore di studio e di ragionamenti. L’oggetto che crei deve avere gusto, classe, una ragione d’essere». C’è un po’ di malinconia negli occhi dell’artigiano. Quella di chi non sa se un mestiere così scomparirà, tra qualche anno, vittima del ready-made, della produzione in serie. «Richiede tanto tempo e tanta passione. Quella che vorrei trasmettere a mio figlio Nicola, che da qualche mese si sta avvicinando al mestiere. La passione nell’assorbire, nel catturare più nozioni possibili, nel metterci tanto tempo a bucare, limare, saldare… e alla fine quando con due limature sole il tuo pezzo è fatto, sei soddisfatto. Deve scattarti quella molla che ti porta ad arrivare a sera che non te ne rendi conto e il mattino dopo vuoi arrivare qua per finire il tuo oggetto».
A Steno, questo capita spesso. Come gli capita di pensare al valore di ciò che sta creando, che non è solo una spilla, un anello, un bracciale di diamanti. «È spesso custode di un momento, una data importante, che sia il fidanzamento, una nascita, il matrimonio… e ti resta per sempre. Pensa, quando potrai dire ai tuoi figli, ai nipoti, “questo è l’anello che il nonno regalò alla nonna quando si è fidanzato”. Creare un qualcosa capace di custodire tanti di quei segreti e gioie … è tanta roba».