Vorrei andare a trovarlo ad Almenno San Salvatore, dove è nato e cresciuto, ma Davide Gotti preferisce darmi appuntamento a Mozzo, tra via Trento e il complesso agricolo chiamato La Porta del Parco. Non mi vede arrivare: sta camminando assorto tra i filari di purpurea e quelli di triandra black maul, le braccia tese a strappare le erbacce, le unghie annerite dalla terra. «Questo è un salice giallo, nelle ultime fila c’è un salix fragilis, che è un salice che appena raccolto è verde con le punte rosse, poi seccando si colora di rosso mattone».
Davide mi presenta le sue piante prima ancora di tendermi la mano: è a loro che va tutta l’attenzione del mio interlocutore. Soprattutto dopo tutta quella pioggia provvidenziale che nelle scorse settimane ha permesso anche ai ramoscelli più esili di crescere alti verso il cielo. «Il salice per sua natura ha bisogno di sole e acqua. Non a caso, una volta veniva piantato sulle rive dei canali irrigui».
Trentotto anni, la fronte imperlata da qualche gocciolina di sudore, Davide si dedica alla cura della terra solo per una parte della sua giornata. All’attività agricola, da cinque anni affianca il mestiere di cestaio, un mestiere antico come l’uomo, ma di cui da piccolo non conosceva neppure l’esistenza. «Volevo fare la guardia forestale o l’astronauta, poi la vita ha preso un’altra strada» sorride.
Comincia tutto con una ghirlanda di Natale, verso la fine del 2017. «Al tempo lavoravo all’interno di una cooperativa, e visto che c’era questo vigneto da pulire e mia zia Giusy realizzava ghirlande di vite, ho voluto approfittare della sua disponibilità per imparare. A gennaio poi ho imparato a fare un cestino per la raccolta delle erbe. Sono andato da un mio coetaneo di Pontida, Tobia Castelli, che mi ha insegnato la tecnica della cesteria con castagno e nocciolo. Poi, sempre quell’anno, a Corna Imagna ho conosciuto quello che è tuttora il mio “magistro”, Claudio Mariani ».
Chiedo a Davide cosa ha provato quando ha visto il suo primo lavoro prendere vita. Ride timidamente, mascherandosi il volto con la mano. «Una soddisfazione incredibile. Ricordo quando sono riuscito a fare per la prima volta dei sottopentola, o meglio, dei vassoi intrecciati fittissimi che in Ticino si usano per tenere la polenta. Quando ho capito come realizzare il bordo a doppio giro, l’intreccio omogeneo, senza buchi… ecco, puoi immaginare l’emozione».
«Vindica te tibi»
Non è solo soddisfazione. È una storia di riscatto quella che l’artigiano comincia a raccontarmi, mentre mi mostra una mangiatoia per gli uccelli che ha la forma del cappello parlante di Harry Potter. Durante il primo lockdown, nel 2020, Davide studia. Guarda video su internet, scopre cosa fanno i cestai oltralpe. Non è come l’Italia, dove gli antichi mestieri vivono quasi esclusivamente nei libri di storia. «In Francia esiste una cooperativa di cestai, in Polonia un festival internazionale di cesteria. L’artigianato tradizionale viene insegnato a scuola e ci sono addirittura corsi universitari».
Tra agosto e settembre dello stesso anno, prende contatti con La Capra Campa, piccolo rifugio di animali liberi, e partecipa alla manifestazione vegana «Veg Imagna». Più si avvicina alla filosofia antispecista e al mondo nodoso e profumato della cesteria, più Davide si allontana da quello delle cooperative. «Nell’ambiente dove lavoravo non mi trovavo bene. La cesteria è stata il mezzo attraverso cui ho sancito la mia indipendenza». La voce dell’artigiano si leva forte e chiara mentre mi racconta come, nonostante una forma di disabilità sociale dovuta alla Sindrome di Asperger, abbia trovato nella cesteria un’occasione di rinascita.
«Ricordo ancora quando in quarta superiore, in latino, abbiamo studiato il “De brevitate vitae” di Seneca. Quando nel testo ho letto “Vindica te tibi”, cioè “Rivendica te stesso a te stesso”, “renditi padrone di te stesso”, l’ho preso come un faro. Ho cominciato a non fare quello che gli altri, secondo i loro schemi, continuavano a pensare fosse giusto, ma a prendermi le mie regole». Da qui il nome dell’attività, che da gennaio 2022 è diventata un lavoro a tempo pieno: i «Cesti dell’orso». «Le regole degli altri mi hanno portato spesso a sotterrarmi, a considerarmi incapace. Ma come fa un cucciolo di orso quando passa all’età adulta, ora sono io a prendermi i miei spazi. Guai a invaderli a gamba tesa!».
Dalla raccolta all’intreccio
Camminando nel verde del campo di Davide, mi viene da pensare che sia dai rametti di purpurea che accarezzo con le dita che nascono i suoi cesti. Invece, sottolinea l’artigiano, le piante che coltiva a Mozzo non bastano mai. «Oltre a realizzare cesti, gerle, zaini su commissione, faccio anche corsi, per cui ho bisogno di molto materiale. Circa il 70% del materiale che uso, soprattutto vimini bianco e bollito, è comprato, solo un 30% invece proviene dall’autoraccolta. Considera che per ridurre la parte comprata, devi avere dei campi importanti. In Spagna, Francia e Polonia, ci sono delle coltivazioni di vimini grandi come i nostri campi di mais».
La realizzazione di un recipiente in vimini avviene su commissione. Davide riceve e raccoglie richieste da tutta Italia, prevalentemente attraverso la sua pagina Instagram, Facebook e WhatsApp. «Finché le cose che mi vengono commissionate sono di dimensioni relativamente piccole, le spedisco tranquillamente. Quando si tratta di lavori ingombranti, come le gerle o i cestoni dei panni o della legna, preferisco la consegna a mano per motivi di volume».
A chi lo contatta, Davide chiede innanzitutto quali forma e dimensione debba avere l’oggetto desiderato: «a seconda delle dimensioni mi regolo sulle lunghezze da mettere in acqua». Scopro così che prima di intrecciare i rametti occorre metterli a bagno e reidratarli per renderli flessibili. Il vimini grezzo necessita di una settimana di ammollo, che durante l’inverno, quando l’acqua è più fredda, sale a una settimana e mezza o due. Al nocciolo, alla vitalba e al vimini bianco bollito bastano invece poche ore.
Solo dopo il bagno dei rami può cominciare l’attività di intreccio. I disegni preparatori, all’artigiano, servono solo se si cimenta in forme nuove, in sperimentazioni. Al contrario, «se si sta sulle forme geometriche semplici, come il cesto rotondo o il cesto rettangolare, ho bisogno solamente di sapere se si vuole bombato o svasato e quali sono le misure di riferimento».
Mi aspetto che recipienti e gerle vengano colorati. Invece, non c’è nessuna colorazione a posteriori. «Il vimini grezzo è di colore giallo, il purpurea ha varie tonalità di verde, quello è rosso mattone – mi indica un filare con un dito – A seconda del colore che mi si richiede, so che pianta scegliere. Poi chiaramente il colore è un fattore estetico, su cui bisogna basarsi poco. Se si vogliono cesti per i panni, per fare fronte all’umidità e per evitare la formazione di muffe, è meglio usare vimini bianco sbucciato o bollito».
A lezione di cesteria
La cura delle piante, il contatto con la terra, il lavoro artigianale. Sono tutte attività a cui ne segue una altrettanto entusiasmante: «la didattica, una delle parti che mi piace di più perché si lega al tema del riscatto, della rivendicazione. Per una volta divento io la persona di riferimento». A casa sua, ad Almenno, Davide propone corsi di cesteria di una giornata intera oppure si muove altrove, se gli interessati sono più numerosi, dalle quattro alle sette persone. «La maggioranza dei corsisti sono donne – mi confida ridendo – che a volte non ascoltano, sbagliano e le senti sussurrare “speriamo che non si accorga!”».
Non ho mai avuto una gran manualità, per questo osservo incantata una casetta per gli uccellini, mentre chiedo a Davide di illuminarmi sulle tecniche principali che utilizza per confezionare cesti. «Per il portafrutta o il “polacco”, c’è una tecnica da cui non si può prescindere che è l’intreccio tra tessitori. Poi per la base c’è l’intreccio a due, e poi per le pareti il corale. C’è il bordo che chiamo “x dietro y”. A chi frequenta uno dei miei corsi di mezza giornata, anche per la prima volta, propongo lo “zarzo” o il cesto con la base in legno. In una giornata intera si fa il cesto portafrutta o il “polacco” tondo, che tra i cesti da orto con il manico è quello un po’ più semplice».
Mi resta solo una domanda da fare a Davide: cosa ne è stato del bambino che da piccolo sognava di fare la guardia forestale. E dove questo bambino si veda tra qualche anno. «Dato che il rifugio dove ho cominciato, La Capra Campa, si è trasferito in Piemonte, vorrei cercare di costruirmi una rete di contatti in vista di un possibile trasferimento» mi spiega. «Senza fretta, però. In bergamasca ho radici abbastanza solide, che vorrei ancora coltivare».
Come i filari di salice, che guardano placidi il sole mentre chiacchieriamo.
(Tutte le foto sono di Marialuisa Miraglia)