Di Too Good To Go abbiamo già parlato in questo articolo. Si tratta di un’applicazione nata nel 2015 in Danimarca proprio con l’obiettivo di combattere lo spreco alimentare. Attualmente è presente in 17 Paesi (Europa, Stati Uniti e Canada), conta oltre 40 milioni di utenti ed è tra le prime posizioni negli store online di tutta Europa. Too Good To Go permette a bar, ristoranti, forni, pasticcerie, supermercati ed hotel di recuperare e vendere online, a prezzi ribassati, il cibo invenduto che è ancora “troppo buono per essere buttato”, proprio come recita il suo nome. L’acquisto avviene attraverso le magic box, ovvero scatole con una selezione a sorpresa di prodotti e piatti freschi che non possono essere rimessi in vendita il giorno successivo, ma che sono ancora più che ottimi per il consumo.
Gli utenti dell’app non devono far altro che geolocalizzarsi e cercare i locali aderenti e vicini, ordinare la propria magic box, pagarla tramite l’app e andare a ritirarla nella fascia oraria specificata. In Italia, Too Good To Go è stata lanciata in oltre 65 città, tra cui Bergamo, e conta più di 4 milioni e mezzo di utenti. Fino ad oggi – spiegano dall’applicazione – ha permesso di salvare quasi 5 milioni di pasti e di non emettere in atmosfera 10 milioni di kg di CO2.
La ricerca universitaria
La ricerca, trasformata poi in una tesi triennale, condotta dalle studentesse Hillary Bentley e Lisa Mazzoleni, coordinate dalla dottoressa Alexandra Lagorio all’interno del percorso di studi in Ingegneria Gestionale , dell’Informazione e della Produzione, ha provato ad analizzare i numeri di questa applicazione chiedendosi come fosse possibile trasformare un problema così grande come lo spreco alimentare in una fonte di guadagno. Come spiega l’assegnista di ricerca Lagorio, “questa applicazione ha dato un valore al rifiuto alimentare, perciò l’abbiamo analizzata per capire come, oltre ad aver messo d’accordo domanda e offerta, ha fatto della sostenibilità la propria opportunità di business”.
La tesi ha iniziato dunque ad analizzare i numeri dello spreco alimentare, un fenomeno di cui si parla ma del quale non si ha reale contezza, come spiegano le due studentesse coinvolte: “L’attenzione alla tematica esiste e le persone intervistate sull’argomento tendenzialmente dimostrano di essere attente a riutilizzare i rifiuti o a smaltirlo nel modo corretto, ma non sono altrettanto attente a non creare il rifiuto”.
I numeri dello spreco alimentare
La FAO (Food and Agricolture Organization) definisce lo spreco alimentare come “qualsiasi sostanza ancora commestibile che viene degradata, gettata come rifiuto o scartata lungo la catena agroalimentare per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della data di scadenza”. Lo spreco interessa quindi lo scarto di tutti quei prodotti che possiedono ancora un valore come alimento nonostante non siano più vendibili come merce e che vengono pertanto eliminati o smaltiti invece che essere destinati al consumo umano.
Si stima che in tutto il mondo ogni anno venga sprecato circa un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo umano. Lo spreco alimentare è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi a partire da quelli più ricchi fino a quelli in via di sviluppo. Secondo i dati del Food Waste Index Report, a livello globale viene sprecato un quantitativo pari a circa 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti, rispetto ai 3,9 miliardi di tonnellate prodotti.
Come avviene lo spreco
Lo spreco alimentare segue di fatto la catena produttiva dell’alimento e si concentra – almeno per ciò che riguarda il fenomeno in Italia – in due momenti principali: la produzione e il consumo. Il 37% del cibo viene sprecato già nel momento in cui lo si produce, e in questo caso i motivi che generano la perdita sono diversi: fattori climatici come siccità e maltempo, tecnologie poco funzionali o scarse competenze agricole, malattie e parassiti che danneggiano le coltivazioni, conservazione non adeguata del prodotto. La trasformazione e i processi di ristorazione non incidono particolarmente: un ruolo più significativo lo gioca invece la distribuzione che incide per il 13%.
A farla da padrone, è il consumatore finale che incide sui numeri dello spreco alimentare con una percentuale pari al 43%, dimostrando che un’applicazione come Too Good To Go si è ben posta, quando ha identificato nell’acquirente il suo riferimento principale.
Rispetto a cosa si getta, le percentuali cambiano molto. Potremmo mangiare ma buttiamo soprattutto frutta e verdura (fino a 644 milioni di tonnellate l’anno), poi cereali (347 milioni di tonnellate), radici e tuberi (275 milioni di tonnellate) e latticini (143 milioni di tonnellate). Minore è lo spreco di carne, oli e pesce.
Too Good To Go funziona?
Hillary Bentley e Lisa Mazzoleni hanno raccolto e intervistato un campione di utenti ed esercenti, interrogandoli circa l’utilità dell’applicazione. Ne emerge che, rispetto all’utente, l’applicazione funziona sicuramente meglio per una certa fascia di popolazione che comprende persone giovani, che passano molte ore fuori casa, tendenzialmente senza famiglia e con una vita concentrata vicino ai centri cittadini più grandi. Difficilmente una famiglia con due o più bambini “improvvisa” la propria cena ritirando una box i cui ingredienti sono sconosciuti, è più facile che lo faccia chi finisce tardi di lavorare e approfitta dell’ultima consegna del negozio per arrivare a casa con un pasto già definito. “Non la usa né la conosce chi si occupa della spesa in casa, così come la fascia di possibili utilizzatori con un’età più alta” spiegano le studentesse.
All’interno della ricerca, però, sono i commercianti ad aver dato il riscontro più interessante. Come si legge nella tesi: “Gli esercenti mostrano una maggiore attenzione nella pianificazione degli acquisti, redigendo nel 77,3% dei casi una lista della spesa e seguendola scrupolosamente in base anche alle offerte dei fornitori. Per le stesse ragioni, il 63,6% degli intervistati controlla la data di scadenza prima dell’acquisto di un prodotto, così da poter rispettare la pianificazione della produzione ed evitare di generare scarti”. Quando le eccedenze si trasformano in scarti, sorge il problema del loro smaltimento e se buona parte dei commercianti si affidano alla raccolta differenziata, mettendo il cibo edibile nel compost, altri hanno rapporti con enti benefici arrivando ad aiutare chi ne ha bisogno quando non sono gli stessi dipendenti e conoscenti a beneficiare del surplus.
Rispetto all’app specifica: “L’86,4% del totale dei commercianti coinvolti nell’analisi afferma di conoscere l’applicazione TGTG. Il 54,5% non si avvale però del servizio, fornendo motivazioni più o meno valide come: la scarsa praticità di utilizzo, la dimensione ridotta degli sprechi da cui nasce la convinzione che non sia necessario prendere provvedimenti e, infine, l’idea che vendere un prodotto a fine giornata ad un prezzo ridotto sminuisca il valore del prodotto stesso. Il restante 45,5%, invece, lo utilizza e, oltre alle ragioni ovvie di riduzione degli sprechi e minimizzazione delle perdite, segnala anche la volontà di pubblicizzare l’attività e di attirare nuovi clienti”.
A questo punto pare ovvio che la risposta alla domanda iniziale sia “Sì, è possibile trasformare un problema come quello dello spreco alimentare in un business”, ma per farlo occorre che parallelamente avvenga un cambiamento culturale e una diffusione maggiore del servizio, soprattutto in un’area così frammentata e peculiare come la provincia bergamasca.