In orbita, molto sopra le nostre teste, c’è una nuvola fatta di oggetti di varie dimensioni, rimasti nello spazio in seguito alle migliaia di lanci spaziali eseguiti dall’uomo a partire dalle origini dell’esplorazione del cosmo. Si tratta dei cosiddetti detriti spaziali: frammenti di satelliti, stadi di lanciatori e missili che continuano a crescere di numero (e di pericolosità). Ne parlerà sabato 14 ottobre alle 11 per «BergamoScienza» Camilla Colombo, professoressa del Politecnico di Milano, dove guida il gruppo di ricerca COMPASS sulla modellazione e mitigazione dei detriti spaziali.
«I detriti spaziali sono tutto quello che rimane alla fine di una missione spaziale», spiega: «i resti dei satelliti operativi, la percentuale dei satelliti operativi che vengono lasciati in orbita dopo il fine vita, gli stadi superiori dei lanciatori (i componenti di un vettore spaziale, usato per inviare un carico utile nello spazio, ndr) e, per il maggiore numero, i frammenti causati dalle collisioni e dalle esplosioni in orbita. I satelliti possono rimanere in orbita per centinaia di anni: le loro strutture si danneggiano e i pezzi si staccano, ma si verificano anche esplosioni (dovute, per esempio, al fallimento delle batterie) e collisioni».
Le dimensioni del fenomeno sono enormi, ben oltre quanto ci si potrebbe aspettare. «Stiamo parlando di circa 35.000 oggetti regolarmente monitorati dalle reti di sorveglianza a terra, di dimensioni da 10 cm in su in orbita geostazionaria e da 5 cm in su in orbita bassa. Se invece consideriamo i frammenti più piccoli, siamo nell’ordine di circa 130 milioni di detriti».
Ciascuno di questi oggetti è monitorato da terra, da reti di sensori e telescopi distribuiti in tutto il mondo. Una necessità, quella di monitorare, che è nata «quando si è reso evidente che i detriti spaziali stavano diventando un problema, circa una ventina d’anni fa, a causa del loro numero sempre maggiore. Oggi in orbita ci sono 8.600 satelliti funzionanti, oltre alla mole di detriti: siamo a livelli tali che si è iniziato a parlare della necessità di implementare uno space traffic management, oltre all’air traffic management che vale a quote più basse per gli aerei».
La domanda sorge spontanea: come mai tutti questi oggetti si trovano ancora in orbita? Spiega Colombo: «Dal 1957, anno di lancio del primo satellite, ci sono stati 6.500 lanci circa, escludendo quelli falliti. Complessivamente, questi lanci hanno portato in orbita 16.000 satelliti, ma non tutti sono ancora nello spazio: quelli sotto i 700 km di altezza sono rientrati grazie alla resistenza atmosferica. Oltre, l’atmosfera si affievolisce: tutti i satelliti al di sopra di quella quota non rientreranno mai, oppure lo faranno ma tra 200 o 300 anni. I satelliti in orbita media o geostazionaria rimangono a tempo indefinito in orbita, a meno di usare propellente e togliere tempo utile alle operazioni per toglierlo dall’orbita prima del suo fine vita: una strada che, per gli ingenti costi, non viene mai percorsa».
Le criticità si sono rese più che mai evidenti negli ultimi anni, quando il numero di satelliti funzionanti presenti in orbita è passato da circa 4.000 a oltre il doppio: un incremento «da associare all’avvento delle grandi costellazioni di satelliti: “Starlink”, “Kuiper Systems”, “OneWeb”. Questi sistemi contano tra i 1.000 e i 2.000 satelliti a costellazione per fornire i propri servizi, come la connessione internet a banda larga o il monitoraggio della superficie terrestre. Per fare un confronto, basti pensare che, prima della loro comparsa, le missioni spaziali erano composte al massimo da 20 satelliti».
Una crescita esponenziale, che, se non mitigata, rischia di causare impatti difficili da assorbire. Come sottolinea Colombo, «la regolamentazione dello spazio è molto complessa. In passato era gestito da enti pubblici, adesso si sta man mano privatizzando ed è quindi soggetto alla competizione. L’unico tipo di regolamentazione esistente è quella che riguarda le licenze per le frequenze: l’Unione internazionale delle telecomunicazioni definisce e dà le licenze ai satelliti per lanciare in una determinata zona e usare una certa frequenza. Tuttavia, al momento, il numero di richieste è così alto che non basterà più allocare lo spazio in base alle frequenze, dovranno essere messe in atto regolamentazioni più strutturate del traffico spaziale».
Uno degli ambiti in cui la regolamentazione si è resa sempre più necessaria e sempre meno rimandabile è, appunto, quello dei detriti spaziali. Qui «esistono linee guida del Comitato internazionale delle agenzie spaziali e delle Nazioni Unite, ma, in quanto linee guida, non costituiscono obbligo per gli Stati. Per diventarlo, dovrebbero essere inserite all’interno delle leggi nazionali, ma per ora siamo solo agli albori: la Francia l’ha fatto, l’Italia si è mossa per farlo, ma ci sono interi continenti che non ci stanno neanche pensando».
Si tratta comunque di un fronte su cui, a parere di Colombo, l’Europa sta dimostrando una grande capacità di fare da aprifila. Per esempio, «ci sono lavori in corso dell’Agenzia spaziale europea e italiana per modificare la procedura di disegno delle missioni inserendo il fine vita come fase necessaria. Questo significherebbe avere l’obbligo di definire il fine vita e la manovra di recupero di ogni oggetto lanciato nello spazio». Oppure, «sempre a livello europeo, l’ESA promuove il design for demise: progettare i satelliti perché funzionino per tutta la durata della missione e poi si disintegrino e si dissolvano una volta raggiunto il proprio scopo. Inoltre, l’ESA ha annunciato di recente la propria zero debris policy: l’obiettivo di eliminare la produzione di detriti spaziali nelle orbite importanti entro il 2030».
Fuori dall’Europa, il progresso nel campo della gestione dei detriti spaziali è molto limitato, anche a causa di fattori strutturali intrinsechi al settore spaziale: «il primo è che l’evoluzione dell’attività spaziale è partita molto dopo, in linea con il relativo sviluppo tecnologico. Il secondo è che tutto ciò che è nello spazio è territorio internazionale, con tutte le complicazioni del caso. Il terzo, infine, è che è difficile definire le responsabilità di una missione spaziale: chi è da ritenere responsabile del suo impatto? La nazione che lancia? La nazione che costruisce il satellite? La nazione che lo opera? E cosa succede in caso di collisione?».
Domande a cui è molto difficile dare risposta. Così come è difficile far valere le istanze della sostenibilità ambientale contro i «forti interessi economici» che si stanno attualmente riversando nella ricerca spaziale. La speranza di Colombo è che «Paesi e operatori scelgano di andare nella direzione della sostenibilità anche solo per una questione di immagine, per figurare meglio agli occhi degli investitori, così da avere comunque un effetto positivo nel lungo termine».
Colombo e il suo gruppo di ricerca stanno lavorando per «creare un modello complesso di tutto l’ambiente dei detriti spaziali, evolutivo e predittivo . Il risultato finale sarà un complesso sistema dinamico capace di supportare la definizione di linee guida, leggi e regole a livello internazionale. Così come per il clima ci sono oggi modelli che permettono di capire di quanti gradi dobbiamo abbassare la temperatura globale ed entro quale orizzonte temporale, allo stesso modo noi cerchiamo di capire quali cambiamenti di approccio nel progettare, lanciare e manovrare i satelliti dobbiamo mettere in atto per assicurare lo sviluppo sostenibile delle attività spaziali».
Il messaggio sottostante, che è più culturale che altro, e che per questo è complicato da trasmettere, è che «lo spazio è un bene comune, e come tale va tutelato» . Una nuova frontiera della sostenibilità ambientale, da integrare presto nelle politiche nazionali e, soprattutto, internazionali.