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Se gli zoo sono arche di Noè che tentano di salvare il Pianeta dall’estinzione

Articolo. Una chiacchierata sul ruolo dei parchi zoologici con il dott. Oltolina, direttore sanitario del Parco faunistico Le Cornelle, e con la prof.ssa De Mori, docente del Dipartimento di Biomedicina Comparata dell’Università di Padova

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Panda Minore (Parco Le Cornelle)

Non tutti lo sanno, ma i parchi zoologici hanno vissuto una metamorfosi radicale: da luoghi di svago, dove osservare da vicino animali esotici, si sono trasformati in baluardi per la conservazione della biodiversità, la ricerca e l’educazione. Diversamente da quanto accade altrove in Europa e nel mondo, mi spiega il dott. Maurizio Oltolina, direttore sanitario del Parco faunistico Le Cornelle, in Italia “la percezione che il pubblico ha del giardino zoologico rimane purtroppo ancora legata a una visione dello zoo come luogo di detenzione, di cattività”.

Nonostante sia lui stesso il primo a riconoscere che ciò sia dovuto anche all’incapacità delle strutture zoologiche di comunicare efficacemente il loro ruolo, Oltolina lancia un appello per una maggiore comprensione: “Non voglio dipingerci come dei santi o dei benefattori o addirittura dei salvatori del mondo, però la qualifica di carcerieri è altrettanto sbagliata”. Ho colto l’invito a dare un’occhiata sotto le apparenze: ecco cosa ho scoperto.

Il ruolo chiave degli zoo nella conservazione ha avuto origine nella seconda metà del Novecento, quando: “alcune specie erano ormai estinte in natura e i pochi animali superstiti erano ospitati all’interno dei parchi zoologici. L’esempio più famoso”, continua Oltolina, “è il bisonte europeo, un tempo diffuso in tutto il continente ma praticamente estinto dopo la Seconda guerra mondiale. Grazie agli esemplari presenti negli zoo, è stato possibile reintrodurlo”.

Da allora, la situazione non è migliorata: “per certe specie le strutture protette rimangono le uniche possibilità di sopravvivere sul Pianeta”. Sempre più spesso, infatti, “nei Paesi di origine mancano le condizioni affinché possano rimanere liberi e allo stesso tempo mantenere una popolazione stabile”. Entrano allora in gioco gli zoo, i quali “mantengono un pool genetico tale che, nel momento in cui, a livello naturale, torneranno le condizioni ideali, ci sarà la possibilità di reintrodurre la specie”.

Il loro ruolo non si limita a quello, appena descritto, di conservazione ex situ, ma comprende anche il finanziamento a progetti di conservazione in situ, che salvaguardano le specie in natura preservando gli ambienti dove vivono. Con importanti riconoscimenti: la prof.ssa Barbara De Mori, docente del Dipartimento di Biomedicina Comparata dell’Università di Padova, riporta che “la IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) riconosce il ruolo cruciale delle strutture zoologiche nel mantenimento di popolazioni vitali, specialmente nell’ottica di quello che è stato chiamato One Plan Approach, che vede un continuum tra la conservazione in situ e quella ex situ”.

Ci si potrebbe chiedere, allora, perché non privilegiare il primo tipo di conservazione, proteggendo gli animali in aree protette istituite nei loro habitat naturali e accessibili all’uomo solo a scopi di ricerca. La risposta breve è che a livello globale le aree naturali non antropizzate sono in drastica riduzione. Con una popolazione in costante crescita, le condizioni ideali per il mantenimento o la reintroduzione in natura di specie protette sono sempre più inesistenti. Bracconieri, mancanza di cibo e malattie sono solo alcune delle minacce mortali presenti.

De Mori riporta che è la stessa Jane Goodall, “simbolo della tutela della biodiversità in natura” e nota in tutto il mondo per gli studi sugli scimpanzé, a riconoscere che “senza le strutture zoologiche non ci sarebbe conservazione degli scimpanzé in natura e anzi, gli scimpanzé negli zoo sono più protetti che in natura”. Gli zoo, infatti, come fa notare Oltolina, sono sottoposti a standard precisi: “l’EAZA (European Association of Zoos and Aquaria) stabilisce rigide norme a cui i membri si devono attenere su condizioni sanitarie e benessere degli animali”.

Un altro obiettivo fondamentale degli zoo - che, come ricorda De Mori, in Italia sono tutti (tranne uno: il Bioparco di Roma) strutture private, dipendenti dagli introiti portati dai visitatori per assolvere alle loro funzioni - è quello di essere catalizzatori di attenzione. “Non è un lucrare”, specifica Oltolina, “è la possibilità di destinare parte dei fondi ad aprire un nuovo reparto, a migliorare le condizioni degli animali ospiti, a investire in un progetto di conservazione in situ e così via”.

De Mori riassume: “una struttura zoologica è una struttura di mediazione, con doveri sia verso gli animali che verso le persone, ed è proprio da questa mediazione che nasce il ruolo che può avere nella conservazione. Veicolare il primo momento di attenzione verso specie carismatiche come il panda”, spiega, “serve poi per raccogliere fondi e occuparsi anche di specie minori ma altrettanto a rischio, come l’avvoltoio calvo”.

Con conseguenze paradossali su quanto viene percepito all’esterno: “Si vede spesso solo la facciata, ma non tutto il lavoro che c’è dietro. La partecipazione delle strutture zoologiche europee ai progetti di conservazione è molto più ampia di quello che viene colta attraverso i media”.

De Mori cita come esempio rappresentativo il progetto internazionale Biorescue per la salvaguardia del rinoceronte bianco del nord, di cui fa parte in prima persona. Questa specie di rinoceronte è diventata un simbolo della perdita di biodiversità: rimangono solo due esemplari femmine, Najin e Fatu. “La specie”, spiega, “è stata annientata dalla caccia al corno del rinoceronte, dalle guerre civili, dalla distruzione degli habitat: se abbiamo ancora due esemplari lo dobbiamo agli zoo”. “C’è tutta un’intera rete europea di strutture zoologiche che sta partecipando al progetto. È questa tutta la parte che non si vede”.

Qualcosa che invece non è un segreto, sebbene sia spesso sottovalutato o non considerato nella sua interezza, è il ruolo degli zoo nell’educazione. Nonostante la tecnologia abbia fatto passi da gigante, tanto che c’è chi afferma che esperienze virtuali immersive possano senz’altro sostituire una visita di persona, sono più di 700 milioni i visitatori che ogni anno visitano gli zoo di tutto il mondo, di cui 140 solo in Europa. 140 milioni di opportunità di interessare le nuove generazioni alla salvaguardia della biodiversità e del pianeta.

Ci è voluta la pandemia”, osserva De Mori, “per ricordarci l’importanza del servizio sociale svolto da queste strutture, che si sostanzia in attività come l’impegno didattico verso le scuole, il sostegno alla disabilità o i campi estivi per bambini e ragazzi”. Ma non solo.

Gli zoo “sono il veicolo primo ed essenziale di sensibilizzazione delle persone”. Infatti, come spiega Oltolina, “attraverso la presentazione di un animale raccontano le problematiche della sua specie e del suo ambiente, che su larga scala sono le problematiche di tutto il pianeta. Molto spesso”, continua, “si pensa che la conservazione degli habitat abbia il solo fine della sopravvivenza delle specie animali: qualcuno potrebbe non sentirsi toccato da vicino. Il punto invece è che la salvaguardia degli ambienti è fondamentale alla sopravvivenza dell’uomo”.

Mai come nell’ultimo anno abbiamo compreso appieno l’importanza della biodiversità per la nostra salute, come abbiamo scritto tempo fa. Come riassume De Mori, “la pandemia ci ha aiutato a capire che se non cambiamo passo nella comprensione della nostra appartenenza all’ecosistema non possiamo più sopravvivere: siamo fragili e basta un attimo per cambiare gli equilibri”.

La speranza è che nasca un dialogo aperto e informato sugli zoo, che coinvolga non solo la comunità scientifica, ma anche e soprattutto l’opinione pubblica, per una maggiore consapevolezza, comprensione e volontà di impegnarsi.

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