La storia dell’agricoltura comincia circa 11.500 anni fa, attraverso il sistema della domesticazione delle piante. La ragione in cui si è sviluppata maggiormente è la Mezzaluna fertile, la culla della civiltà e delle prime oasi. I giardini di Babilonia, ad esempio, sono tra le meraviglie scomparse nel vortice della storia che più vorremmo visitare: questo ci fa capire come l’agricoltura urbana fosse parte integrante delle più splendenti civiltà. Per non parlare delle Ziggurat, che erano dei veri e propri terrazzamenti – o per essere più moderni dei “boschi verticali” – e di tutti i mosaici, gli oggetti e i dipinti che raffigurano gli esseri umani alle prese con le pratiche agricole in contesti urbani.
L’agricoltura urbana rappresenta una strategia complementare per ridurre la povertà urbana e l’insicurezza alimentare e migliorare la gestione ambientale urbana, contribuendo allo sviluppo economico locale. Ma che cosa si intende per agricoltura urbana? «Non è altro che l’insieme delle pratiche di coltivazione del suolo messe in atto in contesti urbani o peri-urbani, allo scopo di ottenere prodotti utili all’alimentazione dell’uomo e degli animali o materie prime. Generalmente si pratica in appezzamenti di massimo qualche centinaio di metri quadrati: aree di policoltura, coltivate direttamente da chi possiede, affitta o ha in gestione il terreno. Esistono diverse forme di agricoltura urbana: giardini privati, orti comunitari, orti scolastici, vertical farming o fattorie verticali, orti sui tetti e così via».
Attualmente sono praticate tre macrocategorie di agricoltura urbana nel mondo: classica, intensiva, orti sociali. Gli orti sociali a loro volta si distinguono in pubblici e privati, e sono generalmente costituiti da terreni suddivisi in “fazzoletti di terra” che variano da quaranta a centinaia di metri quadrati. Per poter coltivare orti privati occorre un contratto di affitto. Per quanto riguarda gli orti pubblici, invece, i Comuni varano appositi bandi e regolamenti al fine di identificare dapprima le aree idonee da destinare a tale scopo e poi i gruppi a cui affidarle attraverso il comodato d’uso.
Negli ultimi anni, gli orti urbani sono rinati diventando un vero e proprio fenomeno sociale di massa, specialmente nelle metropoli più consapevoli e illuminate. Parigi, ad esempio, si è posta l’obiettivo di diventare la città più verde d’Europa entro il 2030 con un progetto che prevede di arrivare a 100 ettari di verde in più su tetti e pareti verticali: questi lotti, dei veri e propri orti urbani chiamati Jardins Partagés, sono circa 50 in città, all’incirca uno per ogni quartiere.
La morale di questa favola storico-sociologica sta nel fatto che gli orti urbani sono da sempre una preziosa risorsa che abbatte la dicotomia “naturale-urbanizzato”: hanno attraversato la storia, le zone del mondo e le culture. Questi spazi apparentemente costretti e dimenticati sono spesso la casa delle più svariate forme di vita. Come scrive Matteo Meschiari in «Geoanarchia», «luoghi così profondi vanno custoditi, e i modi sono molti. Uno di questi è visitarli, non con un generico rispetto, ma con la disposizione totale a lasciarsi modificare da essi, ad accogliere in sé la metamorfosi fondamentale dei paesaggi».
Le oasi vegetali della bergamasca
Vediamo di restringere il nostro campo d’azione. Nella provincia di Bergamo, gli orti urbani sono un fenomeno ormai virale che tesse ragnatele che vanno dalla città alla periferia fino ad arrivare addirittura ai piccoli comuni. Iniziamo dalla versione meno estrema della questione: gli orti comunali condivisi privatamente, che sono piccoli appezzamenti di terra messi a disposizione dalle istituzioni per coltivare un orto ad uso personale. Se avete problemi di spazio, ma un’innata mentalità imprenditoriale domestica (niente scopo di lucro), questa soluzione vi fornirà la vostra isola felice.
Se invece non siete anime solitarie esistono altrettante iniziative verdi improntate sulla rigogliosa socialità. Il progetto « Bergamo Green », ad esempio, mette in rete mercati, produttori e orti sociali grazie alla collaborazione e al sostegno di rilevanti enti locali come il Comune di Bergamo e l’Università. Tra queste realtà vale la pena menzionare (anche solo per il nome audace) « Finché c’è orto c’è speranza », un Orto didattico, iniziativa dell’Associazione Amici di Aretè in collaborazione con Funky GAL, inaugurato nell’estate 2019 a Torre Boldone.
La Rete Sociale di Colognola, composta da diverse realtà associative e da cittadini in collaborazione con l’Amministrazione Comunale ha sviluppato un progetto riguardante la gestione di alcuni orti con finalità sociali e didattiche all’interno dello spazio verde in via Azzanella. Si tratta di un esempio calzante dell’ennesima potenzialità degli orti: la riqualificazione delle aree abbandonate e in pieno degrado.
Non si può non menzionare infine l’ Orto Sociale , che ormai è parte integrante dell’immaginario comune delle nostre amate mura, come dimostra lo slogan «Ai piedi delle mura si coltiva solidarietà». Si tratta di progetto in un certo senso veterano della solidarietà green (definiamolo ante Greta Thunberg), nato nel 2004 da un’idea della Cooperativa Sociale L’Impronta, che da 25 anni lavora sul nostro territorio per aiutare persone con disabilità a trovare la loro dimensione felice all’interno del tessuto sociale. All’interno di questa “oasi urbana”, ammirata quotidianamente da cittadini, studenti e turisti, ogni interessato può partecipare alle attività di orticoltura, come la semina, il trapianto, la manutenzione ordinaria, la cura delle piante, la raccolta e la distribuzione dei prodotti dell’orto.
Partendo dal motto «Mai da soli», LORTO si espande come in un coro a cappella che echeggia concretezza; infatti, da marzo 2022, la Cooperativa Sociale L’Impronta sta collaborando con l’Associazione Ortinsema nella cura dell’Orto Condiviso della bucolica Valle di Astino.
Le forme dell’orto: una poetica sinergia
La parola sinergia negli ultimi anni ha preso piede nella mentalità comune come una tendenza delle strategie aziendali degli ultimi anni. In realtà, non si tratta di nessuna opera di complessa ingegneria gestionale, ma del solito caro e semplice ritorno alla natura. Questa affascinante parola deriva dal verbo greco «cooperare». La Treccani la definisce «un’azione combinata e contemporanea, collaborazione, cooperazione di più elementi in una stessa attività, o per il raggiungimento di uno stesso scopo o risultato, che comporta un rendimento maggiore di quello ottenuto dai vari elementi separati».
Nella forma dell’ orto sinergico , l’orto urbano può diventare il francobollo di un nuovo mondo in cui sopra e sotto il suolo miracoli straordinariamente belli avvengono. Consiste in un metodo usato in permacultura, elaborato dall’agricoltrice spagnola Emilia Hazelip adattando l’agricoltura naturale di Fukuoka alle condizioni climatiche, culturali ed anche culturali europee. Si basa sul principio che è la terra a far crescere le piante, ma che sono le piante a determinare la fertilità del suolo attraverso le sostanze emesse dalle proprie radici durante la loro vita, i residui organici che lasciano alla loro morte e le intense relazioni che stabiliscono con gli altri esseri viventi del suolo. Promuove quindi meccanismi di auto fertilità del terreno, senza arature né concimi.
Evitare le lavorazioni ha effetti conservativi sulla sostanza organica del terreno, cioè crea le condizioni affinché il suolo possa godere di vantaggi come il mantenimento della struttura, una maggior capacità di trattenere l’acqua, una maggior disponibilità di tutti i nutrienti, una minor suscettibilità alle patologie del suolo, il mantenimento dell’equilibrio fra le popolazioni microbiche del terreno. Il principio che sta alla base è lasciar fare alla natura.
Le «consociazioni» nell’orto sinergico sono fondamentali perché, come dice lo stesso termine «sinergico», le piante, crescendo vicine, possono migliorare il loro stato di salute. Le consociazioni tipiche dell’orto sinergico sono per esempio: basilico e pomodoro oppure patate con fiori come le calendule.
Un orto di successo non dovrebbe contenere solo verdure. Dovrebbe essere uno schema di impianto diversificato che includa anche erbe e una gamma di fiori. L’aspetto floreale, spesso messo in secondo piano, non è solo un piacere estetico, ma anche un ingrediente fondamentale per la salute umana e vegetale. Ad esempio, i fiori in un orto possono attirare gli impollinatori, aiutare con i parassiti e fornire una serie di benefici ambientali. Ci basta pensare ai girasoli, le cui proprietà benefiche sono ben note: non solo forniscono semi e petali commestibili, ma servono anche come supporto oppure ombra per altre piante. Le loro fioriture grandi e allegre illuminano il paesaggio commestibile e danno altezza e struttura alle aree di piantagione. Circondare l’orto con un roseto invece, oltre che infondere un aspetto fatato, ci aiuterà a costruire un’efficace barriera protettiva segnaletica per afidi e parassiti.
L’orto sinergico dal contorto (ma meraviglioso) sottosuolo sprigiona una bellezza talmente potente che non può che ispirare e coinvolgere l’umanità. Parliamo di un luogo in cui si fondono inevitabilmente si fondono generazioni e culture, scienza ed arte: i vecchi rimedi della nonna convivono con sofisticati sistemi idroponici e la salvia cresce vicino alla menta marocchina.
«Molti filosofi parlavano di abitare la terra. Pochissimi la camminavano. Abitare lo spazio dell’albero significa mettere in discussione il mio spazio esistenziale, quasi sempre malato di qualcosa, quasi sempre abitato dal notturno, da falsi legami, immobile, sedentario. “Sono un viandante e uno che si inerpica sui monti – diceva Zarathustra al suo cuore – non amo il piano, né pare che io possa indugiare a lungo in un luogo”. E ancora: “È necessario imparare a distogliere lo sguardo da sé stessi per vedere molto: anche di questa durezza hanno bisogno tutti coloro che salgono le montagne”. L’albero apre uno spazio inedito. Uno spazio camminabile» (Matteo Meschiari, «Geoanarchia», 2017).