Professore ordinario di sociologia economica all’Università di Torino ed esperto di sviluppo delle aree marginali e innovazione sociale, Filippo Barbera è intervenuto martedì 4 marzo al teatro di Boccaleone nell’incontro pubblico «Per un futuro senza (R)impianti» organizzato da OrobieVive, ApeBergamo e TerreAlt(r)e.
Lo spopolamento di vaste aree montane, i mutamenti territoriali causati dall’abbandono dell’uomo e dal cambiamento climatico e la presenza di nuovi progetti di turismo di massa che vorrebbero rilanciare lo sviluppo di piccoli comuni di montagna impongono una riflessione sul ruolo delle Terre Alte e delle aree interne nella politica nazionale e sulla possibilità di ideare progetti di innovazione sociale che possano dare un futuro a questi luoghi. In questa cornice abbiamo chiesto a Filippo Barbera, professore ordinario di sociologia all’Università di Torino, di aiutarci ad analizzare queste tematiche da una prospettiva sociologica.
LB: Professore, quanto pesano le Terre Alte a livello Nazionale?
FB: Come scriveva il politico italiano Meuccio Ruini «Se il mare, alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la valle padana, l’Italia sarebbe una sola e grande montagna» a ricordare che effettivamente la montagna ricopre una quota importante del paese. Circa metà del territorio nazionale si trova al di sopra dei 600 metri s.l.m, un’area che comprende circa il 43% dei comuni. Si tratta per lo più di aree interne e dunque caratterizzate da una certa marginalità.
LB: In che senso le aree interne sono aree marginali?
FB: La strategia nazionale per le aree interne (SNAI), voluta nel 2013 dal ministro per la coesione sociale Fabrizio Barca, classifica il territorio nazionale in base all’accessibilità alle infrastrutture essenziali, valutata come il tempo necessario per raggiungere in auto i “poli” dei servizi di cittadinanza ovvero l’istruzione (un’offerta scolastica secondaria superiore articolata), la sanità (almeno un presidio ospedaliero di I livello) e il trasporto pubblico (almeno una stazione ferroviaria medio-piccola). Le aree interne sono definite come quei territori distanti più di 30 minuti dai poli. Questa classificazione restituisce una distribuzione delle ingiustizie territoriali poiché è evidente che un territorio in cui un’ambulanza impiega 40 minuti ad arrivare o in cui i ragazzi devono farsi 1 ora di bus per raggiungere la scuola è più svantaggiato
LB: E che estensione assume questa marginalità?
FB: Quasi il sessanta percento del territorio nazionale ricade in area interna, si tratta di circa 4000 comuni, più della metà del totale. Complessivamente ci vivono 13.4 milioni di persone ovvero quasi un quarto della popolazione, non proprio una quota trascurabile. La maggior parte di queste aree si concentra sulle Alpi e sugli Appennini ma esistono comuni periferici anche sulle coste e all’interno di aree metropolitane di grandi città come Roma e Torino. Si tratta di una condizione che ostacola lo sviluppo delle comunità e una vera e propria limitazione dei diritti di cittadinanza.
LB: Dunque l’orografia non determina il destino delle comunità?
FB: La morfologia del territorio impone dei vincoli, ma è l’organizzazione pubblico-privata dei servizi che influisce in modo determinante. Nel corso degli anni, le aree marginali hanno registrato una continua decrescita demografica, con un tasso di spopolamento nell’ultimo decennio che è stato più che doppio rispetto alla media nazionale. Dal dopoguerra, le periferie hanno visto un progressivo spostamento della popolazione verso i centri urbani, in risposta a una politica che ha privilegiato i grandi poli urbani e un modello economico basato sull’accentramento delle attività produttive. A questo si è aggiunta una contrazione dei servizi, come ospedali, scuole e trasporti, e una progressiva riduzione delle risorse e del ruolo degli enti locali, portando a una contrazione istituzionale che ha accelerato il fenomeno.
LB: Si riscontrano però delle differenze significative nei vari territori montani.
FB: Sì, naturalmente è importante considerare le specificità di ciascun territorio. Ad esempio, le medie valli lombarde hanno mostrato una resistenza maggiore rispetto a quelle piemontesi, grazie alla popolazione più numerosa e alla presenza di attività produttive. In presenza di bacini di potenziale consenso elettorale, è chiaro che la politica debba tenerne conto in qualche modo. Regioni interamente montane quali la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige hanno saputo costruire una maggior coesione territoriale tra i poli dei servizi e le periferie che ha fatto sì che il declino demografico sia in parte più attenuato.
LB: Ma ci sono persone che desiderano rimanere nelle Terre Alte oppure lo spopolamento è inevitabile?
FB: L’antropologo Vito Teti ha chiamato la propensione attiva a restare nel proprio territorio “restanza”. Questa volontà riguarda la maggior parte della popolazione residente nelle aree interne del Paese, come abbiamo mostrato nel volume «Voglia di Restare», pubblicato dall’editore Donzelli. Più del 60% delle persone che abitano nelle aree interne vorrebbero rimanerci e molte che se ne vanno ma rimarrebbero se ci fossero le condizioni per farlo. Dunque, c’è desiderio di abitare questi territori del margine, lo spopolamento non è inevitabile nella misura in cui il territorio è in grado di rimanere attrattivo anzitutto per chi vi abita con regolarità.
LB: E c’è anche chi dalla città si sposta verso la montagna.
FB: Negli ultimi anni, cresce la propensione delle persone a trasferirsi in montagna e nelle aree interne. Accanto alla “restanza” si afferma anche la “tornanza”, con pensionati che tornano nei luoghi di origine, persone stanche della vita urbana che possono permettersi modelli insediativi multipli, neorurali e nuovi montanari che scelgono la montagna come luogo di vita e lavoro. Ci sono anche pendolari e multiresidenti che trascorrono parte dell’anno o della settimana in montagna, favorendo nuove migrazioni verso questi territori.
LB: E quale è il ruolo del turismo per la sopravvivenza del territorio montano?
FB: Il turismo è un’attività complementare che funziona in territori dove anzitutto è ben solida “l’abitabilità quotidiana”, fatta di servizi e lavoro. A un giovane o a un anziano non servono nuove seggiovie o piste da downhill, ma un medico di base e una scuola vicina. In assenza di questi, è probabile che lascino il territorio. Lo spopolamento delle aree interne è causato proprio dalla carenza di servizi, in un circolo vizioso che si auto-rafforza: meno persone, meno servizi, e meno servizi meno persone.
LB: Eppure negli ultimi anni nelle Alpi e negli Appennini vengono proposto vari progetti presentati come ultima possibilità di rilancio del territorio, pensiamo agli impianti sciistici del Monte Terminillo (Lazio), Corno alle Scale (Emilia-Romagna), Abetone (Toscana), Campo Felice (Abruzzo), Val d’Ayas (Valle d’Aosta), San Primo (Como), Colere-Lizzola (Bergamo).
FB: A prescindere dai grandi progetti sciistici, il turismo viene spesso visto come la risposta più immediata per lo sviluppo di un territorio, per due motivi principali. In primo luogo, nel gioco del consenso politico, le risorse destinate al turismo sono tra quelle più facilmente utilizzabili anche a fini di comunicazione pubblica. È facile comunicare che “investire in turismo” porterà nuovi posti di lavoro, un argomento che richiama un modello economico degli anni ’60 che la gente conosce bene. Promuovere invece attività imprenditoriali alternative, basate sulle risorse e competenze locali, è più difficile, poiché sono progetti nuovi che non suscitano lo stesso riconoscimento immediato. Inoltre, la politica spesso privilegia il consenso a breve termine e non è interessata a sostenere progetti che richiedono tempi più lunghi. In secondo luogo, l’attuale classe politica fatica a sviluppare progettualità e innovazione sociale. Di fronte a un futuro incerto, gli amministratori locali, spaventati e frustrati per essere stati ignorati per anni, si rifugiano in progetti obsoleti, sperando che possano rappresentare la soluzione.
LB: E invece non lo sono.
FB: No senz’altro, anzi spesso si rivelano una condanna proprio per le comunità locali. Questo accade perché sono cambiate le condizioni ambientali e climatiche dei territori di montagna, oltre alla situazione economica del paese. Gli impianti da sci costruiti negli anni ’60 funzionavano perché c’era abbondanza di neve e si rivolgevano ad un’utenza ampia che includeva un ceto medio benestante ma non necessariamente ricco. Con la mancanza di neve, le temperature in aumento e gli aumenti del costo dell’energia nuovi impianti richiedono risorse enormi e attraggono un turismo elitario, peraltro supportato da ingenti sussidi statali. È evidente che le condizioni del prossimo futuro non saranno quelle di cinquant’anni fa, ma vedranno un’accelerazione dei cambiamenti climatici, economici e politici di questi ultimi anni. È necessario uno cambiamento radicale: dobbiamo abbandonare definitivamente il modello di sviluppo anni ’60 e costruire strategie di adattamento sostenibili, popolari, giuste; purtroppo, la classe politica ha perso la capacità di progettare in tal senso.
LB: Ha perso, nel senso che prima era in grado di farlo?
FB: Si, decisamente. La crisi dei partiti, la fine della intermediazione politica, la contrazione della politica organizzata hanno portato ad un’erosione della capacità di elaborazione della classe dirigente. Negli anni in cui i partiti erano organizzazioni vere, che selezionavano e formavano la classe dirigente insieme ad altre componenti della società quali gli intellettuali, i centri di competenza, il sindacato, la ricerca e i lavoratori, erano in grado di pensare ad un modello di società da realizzare nel futuro. Questa capacità di organizzazione è venuta meno. Quali sono i centri di pensiero che hanno un’influenza sulla classe politica e sulla sua capacità di progettazione attualmente? Fatico a vederne. O, meglio, quelli che esistono – come il Forum Diseguaglianze e Diversità e l’Associazione Riabitare l’Italia producono idee e progetti di ottimo livello, cui spesso la politica non presta attenzione.
LB: E dunque che si fa?
FB: Bisogna ricostruire l’intermediazione politica e un modo è quello di far lavorare quello che rimane dei partiti insieme ad associazioni, sindaci, filiere dei servizi e cittadini per l’innovazione istituzionale. Bisogna fare dei partiti quello che Charles Sabel nel suo saggio «Il parafulmine e il sismografo» definisce come “partito-progetto”, cioè un’infrastruttura per la rigenerazione dell’azione pubblica. Un esempio concreto potrebbe essere la costruzione di innovazione istituzionale nelle alte valli bergamasche, dalle scuole, alla mobilità, alla sanità.