Recovery Fund, Next Generation EU, Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): la ripartenza post-Covid (ma si può davvero parlare di un “post”?) parla un linguaggio sfaccettato, che rende spesso difficile tenere il passo e capire cosa sta succedendo. Specialmente quando si parla di cifre astronomiche come i 191,5 miliardi di euro assegnati dall’Ue all’Italia per avviare il rilancio del Paese. Cerchiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza.
“Innanzitutto va chiarito che il Pnrr è il piano che il governo italiano ha presentato per accedere alle risorse straordinarie che la Ue ha disposto attraverso il Next Generation EU, un programma di spesa aggiuntiva giustificata dalla pandemia che fa parte del Bilancio Europeo”: introduce così l’argomento Stefano Lucarelli, professore associato del Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università degli Studi di Bergamo, intervistato per fare luce sulla questione.
Emerge subito un punto chiave: “Il Next Generation EU traccia una cornice strategica in cui la così detta svolta green assume un ruolo centrale ”. Infatti, ogni Stato membro, per ottenere parte degli investimenti, ha dovuto preparare piani e progetti nazionali, poi sottoposti alla valutazione del Consiglio europeo, che comprendessero obiettivi e costi stimati e, in particolare, destinassero il 37% della spesa all’economia verde.
Il piano presentato dall’Italia, dal suggestivo quanto ormai sciupato nome Piano nazionale di ripresa e resilienza, è stato presentato lo scorso 30 aprile, sullo scadere del termine utile, e approvato con Decisione di esecuzione del Consiglio europeo il 13 luglio. Le falle sono evidenti, secondo Lucarelli: “Basta leggere il Pnrr per rendersi conto che i riferimenti alla green economy sono tanto frequenti quanto sconnessi fra loro”.
Ma quali sono questi riferimenti? Li elenca lui stesso: “Le scelte del Pnrr sulla ‘transizione ecologica’ sono delineate dopo un veloce riferimento dei principali problemi da affrontare: esposizione ai cambiamenti climatici; ritardi nella riduzione delle emissioni climalteranti, in particolare nel trasporto a causa della prevalenza di quello privato, della vetustà della flotta autoveicoli, dell’uso insufficiente della ferrovia; inquinamento urbano, del suolo e delle acque; mancanza di una strategia nazionale e disparità regionali in materia di economia circolare; scarsità di investimenti in infrastrutture idriche; vulnerabilità idrogeologica e sismica”.
Lucarelli passa poi in rassegna tutti gli interventi previsti per fare fronte a queste problematiche, che vanno dall’“introduzione di ‘sistemi avanzati’ e integrati di monitoraggio e analisi per migliorare la capacità di prevenzione di fenomeni e impatti” al “miglioramento della gestione dei rifiuti e dell’economia circolare, l’adozione di soluzioni di smart agriculture e bio-economia, la difesa della biodiversità e il rafforzamento della gestione delle risorse naturali, a partire da quelle idriche”. Sono 59,4 i miliardi di euro previsti dal Pnrr per la transizione verde, oltre ad altri 31,5 miliardi assegnati alle “infrastrutture per una mobilità sostenibile”.
Un piano apparentemente ricco ed esaustivo dal punto di vista ambientale. Tant’è che l’analisi della Commissione europea, relativamente alle tematiche ambientali affrontate nel Pnrr, conclude: “ci si aspetta che il Piano per la ripresa e la resilienza fornirà, in larga misura, un contributo significativo alla transizione verde per affrontare le sfide che ne derivano”.
Tuttavia, è la stessa Commissione europea a riscontrare diverse debolezze. Puntualizza, per esempio, come “la transizione verde in Italia avrebbe ricevuto un ulteriore impulso dalla rapida eliminazione graduale dei sussidi ai combustibili fossili individuati nel PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030, ndr)”. Oppure fa notare come, dopo il raggiungimento, già nel 2014, dell’obiettivo 2020 della quota del 17% di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo, “ negli ultimi anni la quota di energia da fonti rinnovabili in Italia ha registrato sostanzialmente una stagnazione ”.
Oppure, ancora, ricorda come “nei confronti dell’Italia risultano aperte tre procedure di infrazione in relazione alle direttive UE in materia di qualità dell’aria, in particolare nella pianura Padana”. Fa infine notare (ma la lista sarebbe ancora lunga) che “ l’Italia è in ritardo nell’introduzione di veicoli a emissioni zero e delle relative infrastrutture [...], così come nel fornire infrastrutture ciclistiche adeguate nelle città”.
Gli appunti critici sono molti, ma la conclusione è univoca: afferma Lucarelli che l’elenco degli interventi previsti per affrontare i principali problemi ambientali individuati “ non è accompagnato da nessun dato, né si definiscono compiti e programmi che su questi temi delicati dovrebbero vedere coinvolte specifiche istituzioni governative. Manca una visione di insieme”, conclude, “manca una matura consapevolezza di ciò che significa transizione ecologica”.
La mancanza, secondo Lucarelli, spicca ancora di più se si confronta l’Italia con il resto del continente: “Altri Paesi europei stanno puntando da tempo – prima della pandemia – sulla creazione di nuovi settori strategici per una riconversione ecologica della produzione industriale. E lo stanno facendo dando un ruolo rilevante alla presenza diretta e indiretta del settore pubblico in questi progetti. A me pare che il Pnrr italiano non vada in questa direzione”.
Il modo in cui “il Pnrr persegue gli obiettivi ambientali previsti dal NGEU” e “incide sulla catena del valore in Europa” fa sì che, come riporta Lucarelli citando recenti interventi dei colleghi Roberto Romano e Mario Noera, “ non venga a realizzarsi una politica industriale sostenibile, così come definita dalla Commissione Europea già nel 2008”.
Lucarelli fa riferimento con ciò al Piano d’azione “Politica industriale sostenibile” della Commissione europea, che prevedeva diverse iniziative, tra cui “prescrizioni minime per i prodotti aventi impatti ambientali significativi”, “etichettatura relativa alla progettazione ecocompatibile” e “una serie di altre iniziative per arrivare a consumi più intelligenti”.
“Emergono quindi dei dubbi”, continua Lucarelli: “il Pnrr pone le basi per fare dipendere ancor più l’economia italiana dal sapere e dal saper fare di altri Paesi europei. È una scelta consapevole o è un vincolo?”, si chiede.
Per l’Italia, che tra tutti i Paesi europei è quello che si è visto assegnare la maggiore fetta di fondi, la prospettiva al momento non è delle più rosee: dopo la prima tranche da 25 miliardi arrivata nel mese di agosto, sono ancora 42 gli obiettivi da raggiungere entro la fine dell’anno per accedere al prossimo stanziamento, tra cui 24 riforme. Se si sfora il cronoprogramma, si perdono i fondi.
Secondo Legambiente, il Pnrr è un passo in avanti, ma rimane “ancora debole rispetto agli obiettivi europei”. Prevede, per esempio, che l’Italia consegua, entro il 2030, il 33% di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra rispetto al 2005. Un timido traguardo se paragonato alla prospettiva europea di ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, per fare dell’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.
È, del resto, una questione di terminologia. Come puntualizzato in un articolo cofirmato da Lucarelli, la parola “resilienza”, in ecologia, indica “ la capacità di un sistema di ritornare al suo stato iniziale dopo una perturbazione ”. Affrontare la crisi ambientale non può voler dire ritornare allo status quo, bensì richiede uno sforzo attivo per immaginare un mondo diverso.
“Temo che quella parola sia stata utilizzata in modo frettoloso”, sottolinea Lucarelli, “e che rischi di avviare mere campagne di marketing in un sistema economico che risulta troppo dipendente dalla fornitura estera e dalle tecnologie estere per affrontare una transizione ecologica reale”.