Negli ultimi tempi ci siamo imbattuti spesso in articoli relativi al rischio percepito in merito alle problematiche più disparate. In questi giorni l’accoppiata Coronavirus e surriscaldamento globale tiene banco a livello mediatico e l’ago della bilancia del senso di pericolo punta (prevedibilmente) verso il primo.
La preoccupazione ci sembra comunque legittima in entrambi i casi, ma è forse meglio canalizzarla in modo da impiegare le nostre energie per attività positive. Magari unendo l’utile al dilettevole contro le circostanze spiacevoli. In altre parole è il momento di sfruttare il tempo (più o meno forzato) in casa per dare il via a un cambio di stagione anticipato. Green e funzionale.
Ma cosa hanno a che fare i nostri armadi con tutto ciò? Che l’industria dell’abbigliamento rappresenti una delle principali fonti di inquinamento del pianeta non è un mistero.
Nel 2018 l’UNECE (United Nations Economic Commission for Europe) ha evidenziato che il 20% delle acque reflue e il 10% delle emissioni globali di carbonio sono prodotte dall’industria del fashion.
La variabilità delle mode, la vita sempre più corta dei vestiti che indossiamo, la disponibilità di capi a prezzi accessibili e spesso di qualità inferiore, insieme al dispiegamento di una logica usa-e-getta (complice un immaginario che rende poco desiderabile indossare lo stesso capo più volte di fila) hanno creato un circolo vizioso che inevitabilmente crea una quantità enorme di scarti ed emissioni inquinanti.
Non dobbiamo relegarci al ruolo di attori impotenti soggiogati dall’industria della moda: le nostre scelte possono influenzare le logiche del mercato. I segnali positivi sembrano dare ragione a questa prospettiva: il report “Year in Fashion 2019” di Lyst riguardante i brand più desiderati e i trend più gettonati ha registrato una crescita del 75% delle ricerche di argomenti inerenti alla sostenibilità. Accompagnata a un incremento delle parole chiave relative ai materiali sostenibili come l’econyl e il cotone organico. Tendenza che si è riflessa nel lancio di iniziative legate alla sostenibilità da parte di molti brand, oltre a un’attenzione crescente ai materiali utilizzati nelle collezioni e progetti di donazione e investimenti nel re-commerce.
Scegliere in maniera più oculata i materiali, rinunciare ad acquistare l’ennesima maglietta, recuperarne una che nemmeno ricordavamo di avere, affidare i vestiti che non usiamo più ad associazioni o enti predisposti al ritiro, produrre pratiche di scambio: sono tutte azioni che nel nostro piccolo possono attivare circoli virtuosi. Ma da dove partire? Ecco alcuni spunti.
Prima di iniziare, una confessione
Sono una sorella minore. E come tale, ho sempre ricevuto periodici sacchi di abiti scartati da spulciare per recuperare vestiti carini. Inevitabilmente sono andati a sommarsi a quelli acquistati in negozio. Il problema principale è emerso perlopiù nell’incapacità di separarmi da capi che obiettivamente non usavo da tempo. Questo ha prodotto un gran disordine e una perdita di consapevolezza non solo di come sfruttare al meglio i capi in buono stato, ma anche di quali (e quanti) vestiti fossi già in possesso.
Ci sono dei presupposti base da cui possiamo partire per disintossicarci. Applicare il detto “prevenire è meglio che curare” in questo caso significa rendersi conto che lo spreco comincia nel momento in cui acquistiamo ciò che non ci serve. Capita a tutti, ma cambiare questa modalità di acquisto non è un’impresa impossibile.
In secondo luogo, lasciare andare un oggetto può essere doloroso. È una reazione naturale del cervello. Ma se non usiamo più quel vestito da uno o due anni, mettiamoci il cuore in pace: non ne sentiremo la mancanza. Ripetiamo insieme: un capo inutilizzato equivale a un capo buttato.
Infine è fondamentale smaltire nel modo giusto. Per farlo può essere utile dividere gli abiti in gruppi: da salvare, da donare, da vendere o da dichiarare irrecuperabili. Una volta fatta questa operazione è possibile agire di conseguenza.
Minimalismo, decluttering e riordino
Due concetti utili che procedono lungo binari simili sono quelli di minimalismo e decluttering. Il primo consiste in una ricerca attiva e consapevole di ciò che porta felicità nella nostra vita liberandoci di tutto il resto. Uno stile di vita ispirato alla filosofia zen e volto all’eliminazione della dipendenza da oggetti in nome della sobrietà e dell’ordine.
Utili per cominciare sono le risorse gratuite offerte dal blog The Minimalists di Joshua Fields Millburn e Ryan Nicodemus (la loro storia è disponibile anche su Netflix nell’interessante documentario “Minimalism: A Documentary”) dove è possibile scaricare anche un libretto con sedici regole da seguire per vivere meglio con meno. Ne citiamo alcune:
• prendete un abito e chiedetevi: lo avete usato negli ultimi novanta giorni? In caso la risposta sia no, lo userete nei prossimi novanta giorni? Se la risposta è ancora no, liberatevene;
• rimuovete tutto ciò che continuate a tenere ripetendovi “non si sa mai”: nella maggior parte dei casi non vi serve e occupa solo spazio;
• per evitare lo shopping d’impulso, per acquisti superiori a 30$ (o euro nel nostro caso) aspettate almeno trenta ore: un intervallo che vi permetterà di capire se quella nuova camicia darà davvero un valore aggiunto al vostro outfit. O se invece è meglio rinunciare;
• divertente anche la regola dell’autocombustione: se quel maglione a losanghe prendesse improvvisamente fuoco, vi sentireste sollevati? Se la risposta è sì, liberatevene.
Più estrema è invece la regola del “1 in, 10 out”, ovvero per ogni nuovo oggetto acquistato (in questo caso abito) dobbiamo rinunciare ad altri dieci. Uno stratagemma che si avvicina al decluttering, riassumibile come l’arte di liberarsi del superfluo, dicendo addio ai tanti oggetti per fare spazio.
Cercate un aiuto extra? Consigliamo l’ormai famosissimo libro “Il magico potere del riordino” di Marie Kondo, per tanti spunti su come ottimizzare lo spazio nel vostro armadio semplicemente piegando i vestiti. Se seguite alla lettera queste indicazioni, vi aiuteranno anche ad evitare il temuto cambio di stagione.
Swap, mercatini, donazioni
Cosa fare una volta deciso di cosa liberarci? Le alternative non mancano: se avete capi in buono stato, potete cominciare con uno swap party, ovvero uno “scambio” dove barattare i vostri abiti con altri accessori, scarpe o abbigliamento. Potete approfittare di quelli periodicamente organizzati sul territorio (Upperlab ne ha proposto uno giusto lo scorso dicembre sotto il nome di Swapperlab). Oppure pianificare uno swap in casa invitando amici o conoscenti: il WWF dà qualche indicazione stuzzicante in proposito.
Se invece volete donare gli abiti in beneficienza, non mancano enti e onlus predisposti al ritiro: dai contenitori dell’Humana (per sapere dove si trova il più vicino a voi è sufficiente scaricare l’app o consultare il sito), al servizio “Cambia stagione” della Caritas diocesana bergamasca con ben 350 cassonetti gialli per il deposito. Un’attività realizzata, in quest’ultimo caso, dalla Cooperativa Sociale Padre Daniele Badiali, dalla Cooperativa Sociale Berakah e dalla Cooperativa Ruah, che si occupa della raccolta, selezione e igienizzazione degli abiti depositati poi rivenduti nel negozio Rivestiti o presso il Laboratorio Triciclo. Sempre sul nostro territorio abbiamo La Terza Piuma, che dal 2014 organizza periodicamente mercatini dell’usato.
Infine potete scegliere tra la vendita nei negozi online o sui gruppi social (ne esistono diversi su Facebook) o il riciclo creativo, come quello attuato da L’Isola del Tesoro di Gorle della Cooperativa Biplano (Marta Semperboni ne ha parlato qui).
Insomma, i modi per dare nuova vita ai nostri vestiti non mancano. È venuto il momento di metterli in pratica.