522 miliardi di euro. Il 15% del Pil. Questo, secondo l’Annuario dell’agricoltura italiana 2019-2020 del CREA, il valore economico del sistema agroalimentare italiano. Cifre enormi, difficili da quantificare, che nascondono anche un peso ambientale immenso, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Basti pensare che, come spiega il rapporto della campagna Food4Future del WWF, almeno l’80% della perdita di biodiversità globale è causata dal sistema agroalimentare globale.
Ma a voler andare più a fondo, la situazione si complica ulteriormente. Per esempio, benché attualmente il 40% delle terre emerse sia già sfruttato per l’agricoltura e l’allevamento, la prima causa di deforestazione mondiale è la creazione di nuove coltivazioni. Oppure: con circa il 24% delle emissioni di gas serra di origine antropica, l’agricoltura è uno dei principali responsabili del cambiamento climatico. Oppure ancora: il consumo di acqua dolce, che negli ultimi 50 anni è più che triplicato, è oggi destinato per il 70% all’irrigazione.
Il WWF, con Food4Future, si allinea agli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda Onu 2030. E noi? Nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa? Ferma restando la necessità di un’azione politica globale condivisa, la risposta è sì. Ecco alcuni consigli pratici.
Qualche dritta per iniziare
Costoso non significa sostenibile, è vero, ma è vero anche l’opposto, e cioè che spesso pagare poco per il cibo che si mangia significa permettere che costi nascosti si riversino sull’ambiente e sui lavoratori coinvolti nella filiera. Quindi no cibo da discount e sì cibo biologico, che tuteli la biodiversità, mantenga la fertilità dei suoli e sia rispettoso del benessere animale.
Altri due elementi essenziali: la stagionalità e la filiera corta. Differenziare la dieta stagione per stagione significa accedere a cibo più nutriente, richiedere meno necessità di interventi chimici all’origine e allinearsi ai cicli naturali non solo dell’ambiente ma anche del nostro organismo. Acquistare cibo a km 0 diminuisce inoltre la necessità di trasporto e aiuta a sostenere l’economia locale.
Per gli alimenti impossibili da reperire nella dimensione locale, è bene ricorrere all’equo e solidale per evitare di incappare in filiere complesse e poco sostenibili. Sapevi, per esempio, che la coltivazione della soia sta portando alla deforestazione e alla distruzione delle praterie del Cerrado, in Brasile? Oppure che oltre 120 milioni di persone in più di 70 Paesi si affidano alla filiera del caffè per il loro sostentamento e che senza il commercio equo e solidale non vedrebbero equamente riconosciuto il loro lavoro?
Prodotti freschi e dove trovarli
Frutta e verdura locale, di stagione e biologica. La Cooperativa sociale Areté di Torre Boldone coltiva dal 1987 ortaggi biologici, senza trascurare la fondamentale parte umana della sostenibilità. Al Villaggio degli Sposi Demetra si definisce un “Organismo Agricolo Rigenerativo Biologico”, che rispetta “i cicli della natura e la dignità dell’uomo”. La lista è lunga e conta una vera e propria rete di mercati a filiera corta presenti sul territorio bergamasco.
Uova da allevamento biologico all’aperto, latte e formaggi da produttori attenti al benessere degli animali. Mai sentite le galline “selvagge” dell’ Azienda Agricola Marco Rossi di Nembro, che vivono allo stato brado immerse nei boschi della Comunità Montana della Valle Seriana? Similmente, l’ Azienda Agricola Previtali Marco di Sant’Omobono Terme alleva vacche da mungitura a stabulazione libera, nutrite con erba fresca, fieno e cereali, e produce formaggio a latte crudo e certificato bio.
Consumo sostenibile di carne e pesce
Promuovere la pesca sostenibile è tra i primi obiettivi dei programmi ambientali internazionali, per gli effetti devastanti che causa alla fauna se praticata nel modo scorretto. Dal lato del consumatore, contribuire significa prediligere pesce di stagione, locale e pescato in modo artigianale. Sul lago d’Iseo, tra Bergamo e Brescia, l’ Agroittica Clarabella valorizza il pescato in modo sostenibile.
Ma veniamo alla carne. Visto il notevole impatto sull’ambiente, la sensibilità comune suggerisce di ridurre il consumo di carne e derivati, limitandosi all’acquisto presso allevatori locali, che adottano un approccio sostenibile e rispettoso del benessere animale. L’ Allevamento Highland Italia di Paglio di Dossena, per esempio, ha scelto di allevare i propri capi all’aria aperta, rispettando la loro crescita naturale e sottoponendoli a una dieta sana a base di erba e fieno.
Le insidie del dibattito sulla sostenibilità agroalimentare
Facciamo un passo indietro, dal piano concreto a quello concettuale. Se, infatti, l’alimentazione sostenibile viene spesso equiparata a una dieta priva di prodotti alimentari di origine animale, la realtà, a un maggiore livello di approfondimento, si rivela più complessa e aperta al dibattito.
Se è vero, per esempio, che per produrre 1 kg di carne bovina occorrono 15415 litri di acqua, bisognerebbe considerare anche che l’impronta idrica di una vacca è per il 94% composta dalla cosiddetta green water: l’acqua piovana evapotraspirata dal suolo e dalle piante coltivate, diversa dalla blue water, cioè l’acqua sottratta ai bacini o falde acquifere, e anche dalla grey water, l’acqua potenzialmente inquinata. Dei 15425 litri d’acqua consumati, in sostanza, solo il 6% è effettivamente sottratto, a diversi livelli, dal suo ciclo naturale.
Un altro punto spinoso è la percentuale di risorse agricole destinate all’alimentazione animale e quindi sottratte al consumo umano. Uno studio del 2017 di Anne Mottet (FAO) ha determinato che non possiamo mangiare l’84% di ciò che mangiano le mucche. Se, quindi, la stima comunemente nota, secondo la quale ci vogliono 25 kg di grano per fare 1 kg di manzo, va ridimensionata a 2,8 kg di cibo commestibile per gli uomini.
Inoltre, puntare il dito contro l’industria dell’allevamento, specialmente di bovini, rischia di far dimenticare che altri settori economici sono responsabile in maniera maggiore dell’impatto negativo sull’ambiente. Per esempio, l’agricoltura, di per sé, causa il 4,7% delle emissioni globali, mentre il bestiame il 3,9% e le mucche in particolare il 2%. Ma nei Paesi più sviluppati, la prima e maggiore causa di inquinamento è, per il 75%, l’utilizzo di combustibili fossili.
Arginare lo spreco alimentare
Una grossa piaga ambientale legata al settore agroalimentare è la quantità di rifiuti prodotta a ogni anello della filiera produttiva. Basti pensare che l’agricoltura produce già cibo sufficiente a sfamare 10 miliardi di persone, ma allo stesso tempo nel 2019 quasi 690 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la fame e l’IPCC prevede che entro il 2050 altri 183 milioni di persone si trovino a rischio fame. Il tutto mentre un terzo del cibo prodotto a livello mondiale non raggiunge nemmeno le nostre tavole.
Lo spreco non riguarda solo la filiera produttiva, ma anche il segmento che va dall’acquisto al consumo, che ha luogo nelle nostre case. Secondo una recente indagine Coldiretti/Ixè, nel 2020 ogni famiglia italiana ha gettato nella spazzatura cibo del valore di 4,9€ la settimana, per un totale di 6,5 miliardi.
Per concludere: ben venga la riduzione del consumo di carne e l’adozione di comportamenti di acquisto responsabili e sostenibili, ma se accompagnata da uno sforzo consapevole nella riduzione dei rifiuti alimentari. Nel pratico, significa ridurre gli imballaggi, fare la lista della spesa, comprare anche frutta e verdura dall’aspetto “brutto”, fare attenzione alle etichette e alle scadenze, congelare e riciclare gli avanzi.
Il cambiamento inizia a tavola!