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La rivoluzione (o forse no) della spesa locale

Articolo. A un anno dal primo lockdown e dalla riscoperta di una dimensione “di quartiere”, ecco perché dovremmo continuare a sostenere le attività locali – ma anche essere consapevoli delle potenziali derive negative

Lettura 4 min.
Illustrazione Tricon Infotech

Ogni venerdì mattina, alle 9,30, un clacson vigoroso mi avvisa che Massimo, con il suo furgoncino di ortofrutta, è arrivato davanti a casa mia. Nel mio paesino di montagna di cento anime scarse, lo spiazzo di asfalto di fronte alla mia porta d’ingresso è quanto più si avvicina a una piazza, a un centro. L’arrivo di Massimo è un appuntamento fisso, che vede me e la mia vicina di casa, pensionata, a fare a gara a chi esce per prima con la lista della spesa in mano (spoiler: vince sempre lei).

Una consegna a domicilio ante litteram, che si è rivelata quanto mai provvidenziale nel corso del primo lockdown, un anno fa, quando fare la spesa sembrava quasi diventato un lusso. Una di quelle comodità date per scontato, che sono diventate ancora più preziose di fronte al rischio concreto di doverne fare a meno.

Lo sappiamo: a salvarci dal collasso e dagli estremi ritardi dei grandi servizi di delivery all’inizio dell’emergenza sanitaria sono state le piccole attività locali. L’alimentari all’angolo. Il panificio sotto casa. L’azienda agricola in fondo alla strada. L’auspicio è stato, fin da subito, che questo nostro tornare a rivolgerci a quelle realtà da sempre sotto i nostri occhi innescasse un cambiamento strutturale, viste le evidenti debolezze del paradigma corrente di fronte all’emergenza.

Le azioni sul campo non sono di certo mancate. Come spesso accade, l’iniziativa ha avuto origine nei grandi centri, per poi diffondersi a macchia d’olio nel resto del territorio. A Milano è nato, prima come pagina Instagram e poi come sito web, Shop Local Milan: una piattaforma che segnala le possibilità a portata di mano con l’obiettivo di aiutare le attività di quartiere a sostenere la pressione dei grandi marchi e dello shopping online.

La città dei Mille non si è fatta di certo mancare nulla. Compra Vicino, iniziativa di Ascom Confcommercio Bergamo in collaborazione con i Distretti del commercio e con le Amministrazioni, prima sito e poi web app multipiattaforma, è nata con l’intento di raccogliere i negozi che si offrivano di consegnare la spesa a domicilio gratuitamente a chi ne facesse richiesta via telefono.

Bergamo a domicilio è scaturita invece da un progetto inizialmente sviluppato a Cremona, che quattro ragazzi della provincia di Bergamo, “con tanti interessi in comune e un forte amore per il territorio”, hanno deciso di adottare. Il portale permette di effettuare la spesa o un ordine da un ampio numero di realtà locali e riceverli a casa.

Altre iniziative sono state sviluppate a partire da progetti nati pre-pandemia e hanno subito un’ovvia accelerazione nei primi mesi del 2020. Un esempio è Bergamo Smart Shopping, un servizio che permette di ricevere la spesa a domicilio nel perimetro della città e in 19 comuni limitrofi. L’unico costo per il commerciante è il fatturato di Poste italiane, che si occupa delle consegne, su mezzi elettrici e ibridi. Per il consumatore, la consegna standard è gratuita e avviene entro mezza giornata. Esiste anche la consegna instant, al costo di 6 €, che garantisce un tempo record di 90 minuti.

Pensato per il settore alimentare è invece RistoraBergamo, un servizio completamente gratuito per i ristoratori, che organizzano autonomamente la rete di delivery. Al consumatore non resta che selezionare il menu che preferisce e attendere la consegna.

La provincia non è stata da meno. Da segnalare Clusu, la piattaforma sviluppata da un gruppo di ragazzi di Clusone per supportare le attività locali: sul sito è possibile acquistare buoni che hanno come valore l’importo pagato maggiorato di una percentuale offerta dall’esercente. Progetto derivato è Ol Penserì, nato in occasione del Natale, che consente di acquistare una gift card da spendere nei negozi del posto.

Le iniziative che si sono proliferate in questo periodo storico eccezionale devono ancora superare la prova brutale del calo dell’hype, del ritorno alla piatta normalità. Qualcosa che, però, si spera ci abbiano insegnato è che comprare locale non significa solo fare una buona azione. Oltre a consolidare i legami di comunità, vestigia di un passato prossimo, riscoprire le attività commerciali sotto casa significa anche riportare in circolo linfa vitale per l’economia locale, reinvestire sulla città e sulle famiglie che ci lavorano. Favorire lo sviluppo di un’economia circolare e sostenibile.

Bisogna dire che fare la spesa sotto casa non è più come me lo ricordo io (e non torniamo indietro più di vent’anni), quando i due alimentari del paese conservavano libretti colorati con la spesa di ciascuna famiglia e il saldo avveniva a fine mese. Le piccole e micro imprese – italiane e bergamasche – non hanno perso la corsa contro l’avanzamento tecnologico e si sono reinventate in tempo zero.

Secondo un’indagine di Ascom Confcommercio Bergamo relativa all’impatto del covid sull’organizzazione aziendale, le imprese bergamasche con e-commerce hanno visto una crescita a tre cifre, pari al + 134%; il 57% afferma che continuerà ad utilizzare le vendite online a emergenza finita. Incremento paragonabile a quello del servizio di consegna a domicilio, cresciuto del 143% e visto come una possibile integrazione definitiva dal 62% delle aziende intervistate.

Le premesse per un nuovo modello di sviluppo delle piccole attività locali ci sono. Solo i primi quattro mesi del 2020 hanno portato online due milioni di nuovi consumatori in Italia, con un aumento del 31% nell’e-shopping e per un valore totale degli acquisti online in Italia alla fine del 2020 di 30,6 miliardi di euro. Dei 5,5 miliardi di euro di incremento totale, 1,1 miliardi sono stati realizzati solo dal settore Food&Grocery.

Tuttavia, le premesse possono non portare necessariamente a conseguenze felici. Per quanto il commercio locale sia una via altamente sostenibile da percorrere, non bisogna dimenticare che ciò che conta è proprio la dimensione locale e non la sua evoluzione digitale. In altre parole, se l’unica via di sviluppo è il delivery, la competizione con i grandi marchi online, il rischio è quello di inglobarne anche le esternalità negative.

Uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha calcolato che l’impronta ambientale dell’e-commerce, data da rifiuti di plastica, inquinamento da trasporti e non solo, già nel 2019 ammontava a 44,4 milioni di tonnellate di CO2, quasi quanto quella dell’intera Svezia. Il tutto considerando che meno del 14% dei quasi 86 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica prodotti a livello globale ogni anno viene riciclato.

Secondo uno studio dell’associazione ambientalista Oceana, nel 2019 Amazon ha prodotto oltre 210 mila tonnellate di rifiuti plastici difficili da smaltire. La multinazionale americana ha smentito tali conclusioni, affermando di essere responsabile di circa 52 mila tonnellate l’anno.

Tuttavia, anche solo considerando quest’ultimo quantitativo, si tratterebbe comunque di un’enorme quantità di rifiuti di plastica; abbastanza, secondo Oceana, per girare un film di millebolle intorno alla Terra più di cento volte.

Le previsioni ci dicono che è improbabile che la traiettoria ascendente dello shopping online possa invertire presto la propria rotta. È sicuramente una dimensione con cui dovremo continuare a fare i conti e, per molte realtà, potrebbe rappresentare l’unica ancora di salvataggio. Si tratta di un settore con moltissime potenzialità, nonostante le soluzioni di imballaggio sostenibili e riciclabili siano ancora una realtà di nicchia e nonostante l’impatto ambientale degli spostamenti che ne costituiscono il fulcro sia una questione ancora tutta da affrontare.

Comprare locale non è una rivoluzione: è un ritorno a una normalità nemmeno troppo lontana. Ricordiamocene e facciamone tesoro.

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