Venerdì scorso cinque ragazzi e ragazze del gruppo di attivisti «Ultima generazione» si sono seduti in mezzo alla strada a pochi passi dal Colosseo bloccando il traffico. Con loro uno striscione «No gas e no carbone». Il mercoledì precedente nella National Gallery of Australia altri giovani del gruppo «Stop Fossil Fuel Subsidies Australia» si sono incollati al vetro protettivo di un’opera di Warhol. Monet, Van Gogh, Constable, Boccioni, Vermeer e Goya sono alcuni degli artisti “sotto attacco pacifico” di questi mesi, contro cui sono state lanciate zuppe e passate di pomodoro.
Atti dimostrativi che hanno creato scalpore, rivolti verso opere d’arte che l’opinione pubblica ritiene più preziose e importanti dell’ambiente, che subisce sfregi pesantissimi, ripetuti e quotidiani. E noi con lui. Questa l’opinione degli attivisti e delle attiviste ribadita durante i blitz, atti di «azione diretta nonviolenta», forme di protesta molto comuni ai diversi gruppi di lotta per il clima, che al di là del racconto dei media sono una realtà molto complessa e articolata: diverse visioni del mondo, diversi valori e metodi adottati, ma un unico obiettivo comune, la denuncia dell’emergenza climatica.
Le registe Maia Kenworthy ed Elena Sánchez Bellot hanno deciso di raccontare questo fenomeno dall’interno, seguendo per tre anni le attività di una di queste realtà, «Extinction Rebellion», un movimento nato in Inghilterra nel 2018. Il risultato è «Rebellion», un documentario equilibrato e onesto, che dal lancio dello scorso novembre ad oggi sta facendo il giro del mondo e che arriva al Cineteatro del Borgo giovedì 17 nell’ambito della rassegna di Internazionale «Mondovisioni» al Cinema Del Borgo di Bergamo.
Il film si apre nel 2018, alla fine della decade successiva alla crisi finanziaria, in cui il cambiamento climatico è finito in fondo all’agenda politica internazionale. «Extinction Rebellion» nasce proprio per riportare all’attenzione dell’opinione pubblica questo tema tanto urgente. Il mezzo che il nucleo originario londinese sceglierà per farlo sarà la disobbedienza civile di massa, «già utilizzata da Gandhi o dalle Suffragette e da altri movimenti per i diritti civili, che cercano di far luce sulle ingiustizie e che sono stati di grande ispirazione per gli attivisti» spiega Kenworthy.
Dopo un anno di proteste e arresti, per «Extinction Rebellion» arriverà una grande vittoria: il parlamento ascolterà le pressioni dei manifestanti e l’Inghilterra il primo maggio 2019 sarà il primo paese al mondo a dichiarare lo stato di emergenza climatica. Seguiranno Nuova Zelanda, Canada, Francia, Argentina e l’Italia, che lo sottoscriverà a dicembre.
«Quando il gruppo si è formato, la gente non utilizzava il termine “emergenza” per parlare di clima – spiega la regista – eppure lo è eccome. La scelta di passare da “cambiamento climatico” a “emergenza climatica” è guidata dalla volontà di fare luce su ciò che sta accadendo davvero. Lavorare sull’emergenza chiama ognuno di noi all’azione e agire ha permesso di trasformare la coscienza civile: oggi il tema della sostenibilità è ovunque, anche se c’è ancora molto da fare».
Le richieste di «Extinction Rebellion» ai governi in tutto il mondo sono tre e molto chiare: verità sulla situazione, perché i governi dichiarino l’emergenza climatica e ecologica; azione immediata per fermare la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità, accanto al raggiungimento dello zero netto per le emissioni di gas serra entro il 2025; infine andare oltre la politica, facendo in modo che il governo costituisca e sia guidato dalle decisioni di un’assemblea di cittadini e cittadine sulle misure da attuare e sulla giustizia climatica ed ecologica.
Un manifesto chiaro e condiviso a livello internazionale da tutti i gruppi del movimento, che le registe hanno incontrato a Londra: «abbiamo cominciato a conoscerli in occasione di uno dei loro workshop di “Azione diretta nonviolenta” – spiega Kenworthy – Molte persone si avvicinavano al gruppo per la prima volta, erano motivatissime all’idea di fare qualcosa, ma non erano per nulla consapevoli dei rischi che questo tipo di attivismo avrebbe potuto comportare. “Extinction Rebellion” organizzava a tal proposito questi incontri formativi in cui alle persone veniva spiegato tutto: cosa succede quando si blocca una strada per manifestare, come il pubblico può reagire, cosa succede se arriva la polizia o ancora, cosa fare se una persona viene arrestata. L’idea era dare strumenti agli attivisti: se non ti sei mai trovata in una situazione simile puoi spaventarti o non essere pronta».
Secondo il «Manuale per l’azione diretta nonviolenta» di Charles C. Walker, questa poteva consistere in azioni come «picchetti o veglie in luoghi simbolici, digiuni e scioperi della fame, non collaborazione, ossia ditte che rifiutano appalti per la costruzione di centrali nucleari, boicottaggi, occupazioni, cortei, marce, proteste e molto altro, che pur considerando la violazione della legge non doveva essere violento».
Nella storia di «Extinction Rebellion» acquista rilievo la figura di Farhana Yamin, un’avvocatessa ambientale con esperienza internazionale, già impegnata negli accordi di Parigi sul clima e disillusa dall’interferenza della «lobby intensiva dell’industria dei combustibili fossili e delle industrie finanziarie che l’ha supportata» nelle negoziazioni a livello di Nazioni Unite.
È lei una delle figure che si incontrano nel documentario, una donna che dopo anni di impegno civile frustrato decide di tentare una nuova via per ottenere «giustizia climatica» : la telecamera delle registe la riprenderà mentre decide di infrangere la legge, si incolla le mani fuori dalla Shell e viene arrestata.
«Come lei, tutte le persone che abbiamo incontrato in “Extinction Rebellion” erano preoccupate per quello che stava succedendo e per l’emergenza climatica – ricorda Kenworthy – avevano provato altri metodi, erano andati a manifestazioni e firmato petizioni, ma non c’erano stati risultati. La ribellione a un certo punto, per Farhana e molti come lei, è diventata l’unica possibilità, anche se ciò significava mettersi a rischio e poter essere arrestati, come è capitato a molti di loro» .
Come lo scrittore e attivista Sam Knights, l’agricoltore e ricercatore gallese Roger Hallam, Gail Bradbrook, tra le figure di spicco di «Extinction Rebellion» o la pr Sophie Cowen. E ancora Savannah Lovelock e Alejandra Piazzolla Ramirez, due ragazze della sezione giovani del movimento. «Abbiamo imparato molto facendo questo film, a partire dal mettere in discussione gli stereotipi che i media mainstream creano attorno a questo tipo di realtà e con cui descrivono gli attivisti, che sono persone diversissime tra loro, di ogni estrazione sociale, origine e genere – commenta la regista, che non ha mancato di riprendere anche momenti di tensione e fratture interne all’organizzazione – Inoltre, ci siamo rese conto di quanta umiltà ci volesse a muoversi insieme: perché non ci sono risposte semplici a questi problemi e le persone spesso non sapevano come comportarsi, quindi cercavano di fare del loro meglio e di trovare mediazioni e accordi tra loro per agire insieme».
Quattro anni dopo la sua fondazione, nel 2022, «Extinction Rebellion» è un fenomeno globale e insieme ad altre realtà porta avanti dal basso un’azione di pressione politica sui governi di tutto il mondo per ottenere giustizia climatica. «Siamo consapevoli di aver fotografato la nascita di un movimento, ma sappiamo anche che il nostro ritratto non sarà mai esaustivo, le cose si evolvono, ma ci sembrava interessante raccontare come è nato tutto». Oltre alle istanze sul clima, «Rebellion» racconta anche un’altra storia: «riflette sulla salute della nostra democrazia, davanti a tentativi di restringere il potere della protesta pacifica, attraverso un provvedimento governativo che minaccia di dare dieci anni di carcere a chiunque causi “seri disturbi” all’ordine pubblico. Quei momenti di libertà di protesta rappresentati nel film potrebbero presto non essere più possibili».