Un anno fa partivo dall’Italia alla volta della foresta Amazzonica, nel nord-est del Perù. Tra i vari progetti del servizio civile ne avevo scelto uno che prevedeva di lavorare con alcune comunità indigene amazzoniche. Oltre al desiderio di visitare un ambiente magnifico e ricco di biodiversità, volevo entrare in contatto con gruppi umani che, secondo la mia visione forse un po’ romantica, rappresentano uno degli ultimi esempi di società in armonia con il loro ambiente. Atterrai così a Tarapoto, centro nevralgico della regione di San Martín. Da lì, salii su un pulmino stracolmo di persone, banane e sacchi di riso, che, al ritmo della cumbia, superò la Cordillera Escalera per inoltrarsi nella selva bassa, un’infinita distesa di alberi e fiumi che dalle propaggini orientali della catena andina si estende fino all’oceano Atlantico. In poco più di tre ore giunsi a Yurimaguas, piccola e tranquilla cittadina situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Shanusi e Paranapura, che sarebbe stata il mio campo base durante la permanenza nella selva. Qui la strada asfaltata termina e, per continuare il viaggio verso oriente, bisogna salire a bordo di una delle tante imbarcazioni che si addentrano nella foresta verso il Rio delle Amazzoni.
La diocesi di Yurimaguas, presso la quale lavoravo, comprende le province di Alto Amazonas e Datem del Marañon, che insieme coprono un’area di circa 65.000 chilometri quadrati (poco meno dell’Irlanda per intendersi). Questo angolo di foresta ospita circa 170.000 persone distribuite in una dozzina di città e più di 800 villaggi, per lo più indigeni dei gruppi etnici Shawi, Achuar, Kukama-Kukamilla, Awajun, Quechua, Candozi, Chapra, Wampis, Shiwilu e Chamicuro. Il progetto in cui lavoravo prevedeva di intervenire in alcune comunità Kukama affinché potessero proteggere in maniera più efficace il proprio territorio, anche attraverso il rafforzamento del loro patrimonio culturale. Ho avuto così l’opportunità di vivere qualche tempo con i Kukama situati a ridosso della Riserva Nazionale di Pacaya-Samiria.
Il villaggio
La prima volta che andai in un villaggio Kukama erano già trascorsi diversi mesi dal mio arrivo in Perù e dunque già sapevo che l’Amazzonia era un mondo a parte, diverso da tutto ciò che c’era al di là della Cordillera e dell’oceano Atlantico. A parte qualche sporadico incontro con qualche indigeno in città, non ero ancora stato nelle comunità native e non sapevo bene cosa aspettarmi.
Salpammo una mattina da Yurimaguas a bordo di una lancia diretta a Iquitos; con me c’era una volontaria italiana e due colleghi peruviani. Dopo cinque ore di navigazione, stipati come sardine, arrivammo a Lagunas, capitale del distretto omonimo e da lì montammo su un motocarro che dal porto attraversò pascoli e bananeti in direzione della foresta primaria. Giungemmo così all’ingresso della Riserva di Pacaya-Samiria nella comunità nativa di Emanuel Varadero de Tibilo.
Ad accoglierci Raul, il capo villaggio, e gli sguardi dei bambini incuriositi da quel gruppetto assortito in cui spiccavano due figure un po’ troppo alte e pallide. La comunità, formata da una novantina di persone, comprende quindici case poste sulle rive del torrente, un campo da calcio e le scuole materna ed elementare. Vi sono infatti una quarantina di bambini in età scolare; in un paesino italiano delle stesse dimensioni sarebbero al massimo un paio. Il villaggio non ha né luce né acqua corrente ma dispone di qualche pannello solare e del torrente Tibilo che serpeggia verso la riserva.
Non fu difficile entrare in contatto con le persone della comunità, anche per un gringo come me bastarono qualche parola dei colleghi e una mia veloce presentazione in cui specificavo che non ero un pelacara (un malintenzionato) ma un volontario del progetto. In poco tempo conoscevo metà villaggio e gli appellativi formali quali «Mister» e «Ingeniero» che mi rivolgevano i primi giorni lasciarono presto il posto ad un più semplice e piacevole «Lucas».
I bambini
La prima persona che provò a rompere il ghiaccio con me fu Vlondy, una vivace bambina di sette anni che un pomeriggio si presentò nella mia stanza invitandomi a visitare la sua chacra , l’appezzamento di terra dove viveva. Per prima cosa mi mostrò la pelliccia di leopardo che il suo papi stava facendo essiccare, poi mi condusse nel giardino e mi mostrò varie piante. «Questa con i fiori gialli – disse – è la malva e si prende quando si ha mal di pancia. Questa invece è la “sangre de grado” che si usa per le ferite». Mi descrisse almeno una quindicina di specie e il loro impiego. Io, gerani a parte, non saprei nemmeno il nome delle piante che ho in casa, figuriamoci l’uso.
Venne il momento della pallavolo e del nascondino, poi Vlondy si congedò ed entrò in casa dandomi appuntamento per l’indomani. Le abitazioni sono molto semplici e spoglie: consistono in una tettoia rialzata, divisa in due stanze, con la copertura di foglie di irapay (una palma locale) intrecciato e il pavimento di corteccia di topa (un albero ad alto fusto). Una stanza è adibita a cucina e solitamente ospita un braciere, qualche utensile, un tavolo, una panca e un’amaca. La seconda stanza, invece, comprende un tavolato coperto dalle zanzariere e qualche filo teso dove sono stesi i vestiti. Il bagno non c’è, si va nel bosco.
Il pomeriggio seguente, Vlondy portò con sé altri amici che, con il passare dei giorni, aumentavano. L’abitazione dove alloggiavo divenne così lo spazio ricreativo del doposcuola: giocavamo a biglie, a pallone, sfogliavamo qualche libro che avevamo portato e poi, la sera, prima che il sole calasse, tutti al fiume a fare il bagno. L’intrattenimento preferito, però, erano i fogli e pennarelli che loro normalmente non avevano. I bambini chiedevano suggerimenti su cosa disegnare, ma la scelta ricadeva sempre su qualche pianta o animale, alle volte accompagnate dal fiume, da una canoa, una capanna e qualche marmocchio che giocava tra gli alberi. Nessun edificio in cemento, auto e oggetti tecnologici: tutto questo è estraneo ad un bambino della selva. Tra i vari disegni che mi hanno regalato, quello di Vlondy raffigura un albero di arance, animali selvatici, una bambina che pesca e una capanna in riva al fiume. Sul tetto la bandiera dell’Italia e la scritta «Bienvenidos».
Il cacao
Il progetto che seguivo prevedeva la promozione di una agricoltura diversificata che migliorasse il sostentamento delle famiglie e preservasse la foresta.
I Kukama sono conosciuti per la loro grande abilità di pesca, alla quale affiancano la caccia e la coltivazione del platano (banana verde) e della yuca (mandioca). Tuttavia, negli ultimi tempi, a causa del sovrasfruttamento delle risorse, dell’inquinamento e del cambiamento climatico, le battute di caccia e pesca sono sempre più magre e per il sostentamento del villaggio è diventato necessario dedicarsi all’agricoltura. Questa però richiede una conoscenza e un tipo di approccio che le comunità amazzoniche tradizionalmente non possiedono. Nel villaggio, così come nel resto dell’Amazzonia lo status economico è di extrema pobreza: a parte la maestra, infatti, il resto delle persone non riceve un salario e vive alla giornata procacciandosi il cibo nella selva.
Organizzammo così una mattinata di lavoro comunitario per insegnare l’innesto del cacao, approfittando del fatto che Sergio, un signore del villaggio, mesi prima aveva piantato un mezzo migliaio di piantine in un campo ricavato in mezzo al bosco. Il cacao è una pianta endemica amazzonica che produce frutti tutto l’anno e si vende molto bene; dunque, se ben coltivato e curato quotidianamente, può costituire una buona fonte di reddito. Riunimmo una decina di persone interessate e ci imbarcammo su piccole canoe per raggiungere il campo di Sergio, dove trascorremmo la mattinata innestando le piante fruttifere con l’aiuto di alcuni tecnici provenienti dai villaggi vicini. Nel frattempo, le donne si occupavano del pranzo accendendo un grande fuoco e mettendo a bollire l’acqua brunastra del torrente.
Terminato il lavoro ci sedemmo insieme per condividere il pranzo: riso e stufato di majas (un roditore) servito su foglie di platano e accompagnato dal mazato, la tipica bevanda di yuca fermentata. Altro che boy scouts!
Donne artigiane
Nel tempo libero, noi civilisti giravamo per il villaggio, ci intrattenevamo con i bambini e scambiavamo qualche parola con i loro genitori. Essendo interessati alla cultura locale, chiedevamo se sapessero costruire qualche oggetto e se potessero insegnarci. Conoscemmo Zarela, una donna artigiana vigorosa, con lo sguardo dolce e profondo, quarantasette anni, dieci figli e una nipote di sette. Con lei andammo in cerca della chambira, una palma utilizzata per realizzare amache, reti, borse e ventagli. Con qualche colpo di machete ben assestato Zarela abbatté la pianta e ci mostrò come ricavare le fibre che nei giorni successivi imparammo a intrecciare e tessere.
Con noi c’era anche Joysi, una giovane artigiana che si dedica maggiormente alla fabbricazione dei ventagli. Joysi ed io abbiamo la stessa età, trent’anni, solo che lei è nata e vissuta nella foresta, ha il diploma elementare e quattro splendidi bambini. Io, invece, sono nato dall’altro lato dell’Oceano, in città, ho viaggiato un po’ per l’Europa, ho terminato l’università e non ho famiglia. Joysi è molto ironica. Un giorno mi chiese se guidassi la moto, le risposi di no, che in Italia alle volte andavo in auto, al che mi replicò che lei invece preferiva muoversi in elicottero. Proseguì chiedendomi come mi sembrava il Perù e la selva; le risposi che era un paese molto bello, soprattutto per le persone, e che la foresta era estremamente affascinante anche se molto dura. Mi domandò quali fossero le piante che si coltivano in Italia e rimase un po’ interdetta quando le dissi che per procurarmi il cibo non andavo a caccia.
Continuammo la conversazione parlando delle rispettive famiglie. Lei non vede i suoi genitori e i suoi fratelli da dieci anni: ora che ha figli non ha i soldi per tornare al suo villaggio d’origine, situato sulle rive del Rio Napo, al confine con l’Ecuador. Alzando le spalle disse che li sentiva al telefono qualche volta.
Il delfino rosa
Un giorno ci accordammo con Mauro per recuperare del tamshi, una liana con la quale si realizzano le ceste utili per trasportare la yuca, la cacciagione e il pesce. Ci imbarcammo su una lunga canoa, ricavata dal tronco di catahua, lui remava davanti mentre il timone era lasciato a due bambine: Liz e Yuri. In due non fanno vent’anni, ma sono perfettamente in grado di condurre una canoa. Ci addentrammo nella riserva e in poco tempo giungemmo ad un grande albero da cui pendevano diversi fasci di liane.
Mauro è uno degli anziani della comunità, è nato e cresciuto dentro la riserva, a diversi giorni di canoa dal villaggio. Si muove nel fitto bosco come se fosse casa sua, sa sempre in che direzione andare e di tanto in tanto si ferma per mostrare qualche pianta medicinale. Nel tragitto mi raccontò delle storie e miti Kukama in cui ricorrono spesso divinità acquatiche, lavoratori di caucciù e avventurieri gringos che non sempre hanno buone intenzioni. La leggenda più famosa narra che nelle notti di luna piena un delfino rosa si trasforma in un bel giovane, vestito di bianco che seduce le giovani fanciulle e le porta nel fondo del fiume.
Con l’aiuto di Mauro realizzammo due piccole ceste di tamshi e raccogliemmo le leggende della comunità in un piccolo libricino arricchito dai disegni dei bambini.
La partenza
Venne il giorno della partenza, mi alzai con il sorgere del sole e andai a salutare Joysi, Zarela e le altre famiglie del villaggio. Stranamente non vedevo nessun bambino scorrazzare tra le case, così mi recai a scuola e li trovai sparpagliati per il giardino, intenti a tagliare il prato con il machete. Era il giorno del lavoro comunitario per cui la scuola iniziava due ore prima per la manutenzione degli spazi comuni. Provai a immaginare cosa sarebbe successo in un qualsiasi istituto italiano se un bambino di sei anni si fosse presentato a scuola con un machete in mano, pronto a falciare l’erba: probabilmente isteria collettiva, intervento delle forze dell’ordine e dei servizi sociali.
Salutai i bambini e l’insegnante e, con questi pensieri, montai sul cassone del motocarro diretto al porto. Alle mie spalle, il villaggio che mi aveva accolto con tanta spontaneità si riduceva a un puntino lontano, mentre il sole, ormai alto nel cielo, incendiava nuovamente la foresta Amazzonica.
(Tutte le foto sono di Luca Bonacina)