Le installazioni verdi temporanee nelle città rappresentano un fenomeno affascinante e ambizioso: spezzano l’andamento monocorde del paesaggio urbano, aprendo varchi di colore e natura negli spazi costruiti. Questi giardini effimeri sono apparizioni fugaci, visioni che ci richiamano a ciò che spesso manca nelle città moderne: il verde, la vita, un contatto diretto con la terra. Non si limitano a ravvivare l’area circostante; mettono in discussione il nostro stesso modo di intendere la città.
Non si tratta solo di estetica; è una questione filosofica e culturale
Possiamo davvero considerare una città “completa” senza verde? Come possiamo vivere in un ambiente fatto di cemento, dove il verde è visto come un lusso occasionale? Questi interrogativi trovano parziale risposta nei festival del paesaggio e nelle installazioni di arte botanica che sempre più spesso trasformano le città, invitandoci a riflettere sulla nostra connessione con la natura.
Festival come il « Bergamo Landscape Festival » e « Flora » a Córdoba — che ho vissuto in prima persona — nascono per portare il verde nel cuore delle città, creando non solo pause visive, ma anche momenti di riflessione. Le loro creazioni effimere trasformano strade, piazze e parchi in luoghi d’incontro tra persone e natura con l’obiettivo (non sempre centrato) di favorire una riconnessione dell’uomo con la natura. Queste manifestazioni, insieme a opere evocative come «Il vostro cielo fu mare» di Adrian Paci, prossimamente in mostra al Mudec di Milano, sollecitano il nostro bisogno profondo di riscoprire l’intreccio inscindibile tra umano e natura.
Il «Bergamo Landscape Festival»: la natura come riflessione
Con il suo approccio innovativo, ogni anno il festival ridisegna il volto di Piazza Vecchia. Non vorrebbe solo decorare lo spazio urbano, ma interpretarlo, svelarne i limiti e smuovere le coscienze. Eppure, queste installazioni sono temporanee. Alla fine del festival, vengono rimosse, lasciando dietro di sé una sorta di nostalgia, un vuoto che la città non può colmare del tutto.
Questa effimerità ci obbliga a riflettere: la città moderna è davvero predisposta ad accogliere il verde come costante, o solo come un “momento speciale”? Forse, la risposta sta non solo nell’apprezzamento (o nella contestazione) di questi spazi temporanei, ma nella loro capacità di influenzare le politiche urbane, spingendo verso una visione in cui il verde diventi un diritto inalienabile.
«Flora» a Córdoba: il paesaggio come espressione d’identità e cultura
«Flora» a Córdoba trasforma invece il verde in un linguaggio artistico e culturale che riflette l’identità della città. Per una settimana, le piante diventano protagoniste di installazioni spettacolari, fondendosi con l’architettura storica e la vita quotidiana dei cittadini. Questo festival internazionale dimostra come il verde possa integrarsi con il contesto climatico e storico di una città, offrendo una visione unica del legame tra ambiente e cultura.
L’installazione di «This Humid House», ad esempio, ha creato un microcosmo tropicale in una città dal clima arido, stimolando una riflessione sul cambiamento climatico e sulla resilienza del verde. Ha mostrato come la natura possa adattarsi e persistere anche in contesti difficili. Ma anche qui, una volta concluso il festival, le installazioni svaniscono e la città ritorna alla sua quotidianità, privata di quel tocco di vitalità concesso solo temporaneamente. Mi chiedo se l’effetto effimero non riduca il potenziale del messaggio, rendendo l’esperienza troppo transitoria per lasciare un segno duraturo. È come se, con la rimozione delle installazioni, si tornasse a ignorare il potere trasformativo del verde.
Il verde come linguaggio introspettivo: «Il vostro cielo fu mare» di Adrian Paci
Mentre i festival del paesaggio celebrano il verde in maniera estroversa, opere come «Il vostro cielo fu mare» di Adrian Paci al Mudec di Milano offrono una riflessione più intima, in cui la natura diventa simbolo di trasformazione e migrazione. Paci non ci propone un’esperienza fisica di verde, ma una rappresentazione che evoca emozioni e ricordi collettivi, come a suggerire che la natura è sempre con noi, parte del nostro inconscio culturale. Opere come queste ci invitano a considerare la natura come specchio di esperienze umane universali, richiamando il nostro bisogno di contatto con essa. Tuttavia, mi chiedo se queste rappresentazioni simboliche siano in grado di incidere realmente sul nostro rapporto con il verde nella vita quotidiana. Rischiamo di relegare la natura al solo regno dell’arte, dimenticando la sua dimensione concreta e vitale?
Pocket gardens e l’arte di creare spazi di respiro
In un contesto urbano in cui ogni metro quadrato è calcolato, i pocket gardens, come il famoso Paley Park di New York , rappresentano una vera rivoluzione. Sono piccoli angoli verdi tra edifici e strade che offrono una pausa di tranquillità, dimostrando che il verde può integrarsi perfettamente anche nei contesti urbani più densi. Questi spazi non interrompono solo il ritmo frenetico della città: ci offrono un momento di quiete e riflessione.
Eppure, perché non ne vediamo di più nelle nostre città? Forse perché serve una visione che riconosca il valore umano e sociale del verde, capace di arricchire la qualità della vita oltre il profitto.
Verso una città verde: oltre l’effimero
Festival, installazioni e pocket gardens ci offrono una visione di città più inclusiva e sostenibile. Ma ci pongono una sfida: come possiamo fare in modo che il verde sia una presenza costante? È evidente che abbiamo bisogno di spazi verdi, non solo per migliorare l’estetica della città, ma per soddisfare un bisogno primordiale di connessione con la natura. Forse, la lezione più grande di queste installazioni temporanee è proprio questa: il verde non dovrebbe essere un’eccezione, ma una costante. Non dovremmo vederlo solo nei festival o nelle opere d’arte, ma dovremmo lottare affinché diventi parte integrante delle città, un diritto inalienabile e non un lusso.
Finalmente arriviamo al guerrilla gardening post litteram
Negli ultimi decenni, il verde urbano è divenuto una tela per azioni spontanee, tra cui il guerrilla gardening, che ha contribuito a dare voce a un sentimento diffuso di riappropriazione dello spazio cittadino. Fin dagli anni ‘70, negli Stati Uniti e in Europa, i cittadini comuni, con semi e volontà, hanno trasformato angoli dimenticati delle città in piccoli giardini improvvisati, colmando vuoti urbani senza chiedere permessi, in un atto di ribellione pacifica e rigenerazione sociale. Piantare clandestinamente su suoli incolti non è solo un gesto estetico, ma una protesta silenziosa contro il cemento che avanza, un modo di ridisegnare il paesaggio urbano in armonia con la natura, anche laddove non previsto.
Da atti spontanei a manifestazioni organizzate, la pianta diventa dunque simbolo di un desiderio condiviso: trasformare le città in luoghi in cui la natura non solo sopravvive ma fiorisce, restituendoci un ambiente più umano e vivibile.
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