Il mio paesino di alta montagna nel parco delle Orobie bergamasche quest’estate è stato invaso dalle api. Gli apicoltori nomadisti, cioè quelli che spostano le arnie per seguire le stagioni di fioritura delle piante autoctone, sembravano essersi messi d’accordo per colonizzare i nostri prati. Auto ricoperte di polline, orti brulicanti di preziosissimi impollinatori, arnie colorate disseminate in diverse zone del paese. Da profana quale sono, mi sono incuriosita e ho deciso di rivolgermi a qualcuno che di api ne sapesse ben più di me: Maurizio Moioli, di Ludrigno, che si occupa di api da una vita, e Daniele Bellini, di Villa d’Ogna, apicoltore da quattro anni. Entrambi non lo fanno di professione, quindi sono fuori da qualsiasi logica di mercato, lo fanno per pura passione. Ecco cosa mi hanno raccontato.
Ho scoperto innanzitutto dettagli curiosi sulla vita delle api. Per esempio, sapevate che in una colonia di api le femmine svolgono tutti i lavori, dall’accudire la regina al creare la cera, dal raccogliere il polline al difendere l’alveare, mentre i maschi si occupano solamente di fecondare la regina (e nel processo perdono i propri genitali e muoiono)? Ho imparato anche che le api per sopravvivere all’inverno si ammassano in un glomere, la regina al centro e un continuo ricambio di api tra interno ed esterno. Tramite un particolare movimento dell’addome, possono mantenere nell’arnia una temperatura 25°, anche se è sotto lo zero!
Questo universo affascinante e denso di scoperte, però, è minacciato da molti fattori, primo fra tutti la globalizzazione. Sì, perché insieme a persone e merci viaggiano anche semi, specie vegetali e parassiti, con una doppia conseguenza: da un lato, una diffusione dannosa di piante infestanti e specie alloctone invasive, che soffocano quelle autoctone; dall’altro, la comparsa di parassiti mortali per le api.
“Due delle maggiori minacce per le api oggi sono la varroa e la vespa vellutina, entrambe importate dal sud-est asiatico negli ultimi decenni – mi spiega Daniele – La prima è un acaro che attacca le larve, si posiziona dietro il collo dell’ape e fa collassare l’alveare. La seconda aspetta in volo le api fuori dall’alveare, le uccide e saccheggia il raccolto”.
“Non c’è una vera e propria cura per nessuna delle due – specifica Maurizio – Per la prima si fanno ogni anno due cicli di trattamenti con l’acido ossalico, che è un acido organico, presente anche nel miele, che disinfesta temporaneamente l’alveare. Per la seconda non c’è altra soluzione che distruggerne i nidi, ma fortunatamente per il momento non è ancora presente in bergamasca”.
Un’altra minaccia per le api è costituita dall’inquinamento. Le api sono bioindicatori del grado di inquinamento ambientale perché, nel prelevare nettare e polline, intercettano anche le sostanze inquinanti presenti nell’ambiente: una moria di api è un grido di allarme che va ascoltato. L’inquinamento agisce anche indirettamente: il riscaldamento globale e lo scombussolamento delle stagioni sono fonte di confusione per un alveare.
Come spiega Maurizio, “gli inverni sempre meno freddi portano le arnie già a febbraio-marzo ad avere famiglie troppo sviluppate, perché le temperature si sono rialzate ed è iniziata la covata. Questo crea squilibri nei mesi successivi, perché se ci sono ritorni di freddo la covata che è già fuori dall’alveare muore e il resto della colonia torna in glomere, interrompendo il raccolto”.
La maggiore minaccia per le colonie di apis mellifera, la nostra comune ape domestica, è costituita dai pesticidi utilizzati in agricoltura. Il glifosato, il pesticida più utilizzato al mondo, ha effetti devastanti sulle api: altera il loro intestino, esponendole a infezioni; causa disturbi neurologici, rendendole incapaci di distinguere i profumi e la dolcezza del nettare; le larve crescono più lentamente, rimanendo deboli e sottopeso.
Maurizio, che d’estate porta le arnie nella bassa bergamasca per la fioritura della robinia, mi racconta: “Due anni fa, mentre posizionavo le arnie di fronte a una spianata di frumento, ho visto arrivare un trattore con bracci enormi che distribuivano pesticidi: era uno spettacolo apocalittico. Ho deciso di lasciarle lì comunque, ma tante sono morte, ho avuto perdite importanti”.
“Sono le coltivazioni di mais ad attirare il maggior numero di parassiti e a necessitare quindi del maggior numero di trattamenti disinfestanti: a volte si usano direttamente semi trattati, così da prolungare la protezione durante tutto il ciclo di crescita della pianta”, spiega Daniele. I semi vengono oggi trattati con pesticidi neonicotinoidi, che agiscono sul sistema nervoso degli insetti e che sono settemila volte più tossici del DDT per le api: si è iniziato a usarli perché, essendo le sostanze presenti solo nei semi, non si pensava potessero raggiungere i fiori.
Ogni volta che un pesticida neonicotinoide viene vietato e ritirato dal mercato, viene presto sostituito da un altro pesticida che ha sostanzialmente la stessa natura e gli stessi effetti: questo perché i test si concentrano sulla tossicità immediata e non sulla tossicità cronica (l’80-90% del prodotto che riveste il seme non viene assorbito dalla pianta, rimane nel suolo per anni e per anni si scontano le conseguenze). Vale la pena dare un’occhiata a un interessante documentario di quest’anno per conoscere tutti i risvolti della questione.
Ma quali sono le conseguenze, se le api muoiono? Le api impollinano (e sono quindi fondamentali per il raccolto) la maggioranza delle piante di interesse agricolo e circa l’80% delle piante spontanee e selvatiche. Tra gli effetti della perdita di biodiversità dovuta a un’eventuale mancata impollinazione avremmo alluvioni, frane, riduzione delle zone produttive e compromissione della catena nutrizionale di numerose specie di animali selvatici. A livello quantitativo, il valore economico dell’impollinazione ogni anno nel mondo varia dai 160 ai 500 miliardi di €, di cui circa 15 solo in Europa.
Se poi prendiamo in considerazione il fatto che le api non sono le sole responsabili dell’impollinazione (ci sono anche bombi, farfalle e alcuni tipi di mosche e coleotteri) e che negli ultimi trent’anni la biomassa degli insetti volanti è crollata del 75%, lo scenario è a dir poco catastrofico. Nella regione del Sichuan, in Cina, per sopperire alla mancanza di api causata dall’utilizzo di pesticidi, sono gli operai a provvedere manualmente all’impollinazione, con un cotton fioc, un fiore alla volta, con una precisione che però non si avvicina nemmeno lontanamente al minuto lavoro di un’ape.
È dunque questo il destino che ci aspetta nei prossimi decenni? Per ora non possiamo saperlo, ma quel che è certo è che gli apicoltori bergamaschi hanno tutte le carte in regola per affrontare la crisi. Maurizio, negli ultimi anni, ha avviato all’apicoltura numerosi giovani intraprendenti, assicurandosi che si assumessero la responsabilità di rispettare le profilassi.
“Nel mondo dell’apicoltura c’è molta solidarietà, ci si aiuta a vicenda, perché ogni apicoltore ha interesse a che i suoi vicini facciano i trattamenti corretti – racconta Daniele – È sufficiente, ad esempio, che un’ape di un alveare non trattato, portatrice di varroa, venga in contatto diretto o indiretto con una delle tue api perché gliela passi e contamini quindi tutto il tuo alveare”.
In bergamasca ci sono 1090 attività di apicoltura, in gran parte convenzionali (ma con una non trascurabile percentuale di apicoltura biologica) e stanziali (solo un quarto sono nomadisti). E non mancano le associazioni, come ApiBergamo: secondo Maurizio, “far parte di un’associazione, sebbene non sia obbligatorio, è buona pratica, perché si rimane aggiornati e perché l’unione fa la forza: è solo così che si ottengono cambiamenti”.