Pensare al proprio guardaroba in ottica di sostenibilità – per l’ambiente e per i lavoratori – non è limitante o punitivo, ma è un esercizio di creatività che può dare estrema soddisfazione (e anche aiutarci a vestire meglio). Ne abbiamo parlato con Alberto Saccavini, che lavora con designer, aziende, associazioni e scuole alla scoperta di fornitori, prodotti, processi e percorsi sostenibili nel mondo della moda.
Saccavini sarà uno dei protagonisti della sesta edizione della rassegna culturale delle biblioteche bergamasche “Tierra!”, che quest’anno si tiene online. Il video-incontro “Moda e sostenibilità” con lui si potrà seguire gratuitamente sul canale Youtube della rassegna, giovedì 3 dicembre alle 20.30.
Dove finiscono i nostri vestiti usati?
Partiamo dalla fine: “Un camion di vestiti al secondo finisce in discarica o nell’inceneritore”, spiega Saccavini. Se vogliamo essere sostenibili è qui che bisogna cominciare a intervenire: consumando meno e riciclando.
Pensiamo a cosa facciamo quando vogliamo disfarci di un capo di abbigliamento: o lo buttiamo nell’indifferenziato o nel cassonetto della raccolta della Caritas (o altre associazioni umanitarie). “Il sistema si evolverà – assicura Saccavini – entro breve i Comuni dovranno occuparsi di ritirare il tessile urbano, come si fa con la carta e l’umido. Non cambierà la filiera a valle, solo chi la gestisce”.
Cosa succede ai nostri vestiti una volta infilati nel cassonetto giallo? “Se le organizzazioni che si occupano di vestiti usati avessero così tante persone bisognose da vestire, sarebbe un disastro umanitario”. È quindi perfettamente logico che solo una minima parte, i vestiti migliori, vadano in beneficienza. Il resto è affidato al mercato internazionale di abiti usati, che ha una sua filiera: c’è chi separa i vestiti per colore e per fibra, chi rimuove bottoni ed etichette.
“Qualcosa va sul Sud del mondo, ma in Africa hanno vietato l’importazione di abiti usati per tutelare la produzione locale e l’import di vestiti nuovi”. C’è poi il mondo del riciclo. Non bisogna dimenticare, però, che i vestiti usati sono rifiuti e che il traffico dei rifiuti in Italia è terreno ideale per le infiltrazioni criminali (qui uno studio di Humana per approfondire). Quindi la trasparenza della filiera ha la massima importanza.
Il riciclo
Riciclare i tessuti non è un’operazione semplice e le sfide tecniche cambiano a seconda delle fibre utilizzate. Ad esempio, il filato più comune (un mix di poliestere e cotone) è molto difficilmente riutilizzabile.
“Uno dei tessuti più adatti al riciclo è la lana, ma rappresenta solo l’1% delle fibre globali più utilizzate. Prato è un polo per europeo per il riciclo della lana. Quando si ricicla un capo si spezza la maglia e si ottengono fibre molto più corte di quelle originali, quindi il filo sarà più grosso o sarà mescolato a altri materiali. Un problema che esiste anche per il cotone, che si ricicla meccanicamente ma ha una fibra molto corta, quindi nelle produzioni tessili ci può essere al massimo il 50% di cotone riciclato”.
Il riciclo è il settore di innovazione tessile che riceve più fondi a livello globale: “Tutti ci investono, ma non ci sono ancora soluzioni efficienti e scalabili a livello industriale. Ad esempio il Gruppo Radici ha sviluppato un sistema per riciclare il nylon”.
Naturalmente, la stragrande maggioranza di vestiti usati non diventa “altri vestiti”, ma ovatta, imbottiture, stracci. Si tratta, però, di “downcycling”, e significa che il materiale riciclato è di qualità e funzionalità inferiori rispetto al materiale originale. “L’obiettivo del riciclo invece è mantenere un valore simile o uguale. Anche perché con il downcycling si ricicla una volta sola”.
I tessuti naturali non sono per forza eco
Cominciamo a parlare di scelte del consumatore: se compro una maglietta in cotone invece che in poliestere (il tessuto che rappresenta il 53% del mercato, derivato dal petrolio) sono più “virtuosa”? La risposta è no. “Il poliestere convenzionale è più sostenibile del cotone convenzionale: si tinge facilmente, non serve molta acqua per produrlo, si lava a temperature basse e si asciuga subito. Al contrario, il cotone (la seconda fibra più usata, pari al 24% della produzione) è estremamente pesante per l’ambiente in termini di consumo di acqua, pesticidi e fertilizzanti”.
Che fare quindi? “Privilegiare i tessuti riciclati, il cotone e la lana biologici. Se devo comprare una giacca tecnica, meglio che sia di poliestere riciclato e che non contenga PFC (perfluorocarburi)”.
Quanto spendere?
Diciamolo subito: se la nostra idea di shopping è comprare ogni mese dieci magliette a due euro l’una, non possiamo pensare di essere sostenibili. “Se un capo costa troppo poco è inevitabile che ci sia un costo nascosto: quello della vita delle persone che lo hanno prodotto e quello della distruzione dell’ambiente. L’industria della moda è estremamente inquinante, basti pensare alla tinteggiatura dei tessuti e all’inquinamento delle acque”.
Non serve però spendere “tanto”, ci sono molti prodotti di fascia media che sono sostenibili, sempre tenendo presente che la scelta non è mai fra bianco e nero, ma al massimo fra più sostenibile e meno sostenibile. Ad esempio: “Una t-shirt della Coop di cotone fair trade, bio ed equosolidale va bene e ha un buon prezzo, certo è un capo basico e non fancy. Ma ci sono anche tanti marchi del fast fashion che hanno introdotto collezioni sostenibili, pensiamo alla Conscious collection di H&M. Paradossalmente, marchi di sportsware come Puma, Nike, Adidas che negli anni ’90 sono stati travolti dagli scandali – pensiamo ai bambini che cucivano palloni da calcio in Pakistan – sono ora più attenti a questi temi che non i marchi del lusso”.
Lo stesso vale per giganti come Zara o H&M, sempre esposti alla gogna mediatica. L’arma più forte è la pressione dell’opinione pubblica. “Il ’Green washing’ (ecologismo di facciata) oggi è facilmente smascherabile e quindi c’è effettivamente un progresso verso un livello maggiore di sostenibilità”.
Documentarsi prima di comprare
La cosa migliore è evitare lo shopping “impulsivo”, ma documentarsi prima o rivolgersi a rivenditori specializzati. Una buona pratica è scegliere filiere corte: “Se compro un vestito confezionato attorno a Bergamo il rischio che ci siano problematiche sociali legate al lavoro manifatturiero è più basso rispetto al comprare made in Bangladesh. Informarsi prima aiuta a scegliere meglio il prodotto. Ad esempio, se un bergamasco vuole acquistare dei jeans ne può trovare di molto vicini a lui: penso a Par.Co Denim, che ha una con filiera molto localizzata e presta grande attenzione alla qualità della fibra tessile”. Qui altre idee per vestire responsabilmente a Bergamo e provincia.
Purtroppo, non basta comprare “Made in Italy” per stare tranquilli: “A causa della nostra legislazione basta che un passaggio, anche solo l’etichettatura, avvenga in Italia per avere un capo made in Italy. Per assurdo, comprare negli Usa un vestito fabbricato in Italia avrebbe più senso, perché lì la regolamentazione è più stringente”.
Come fare, quindi, ad avere informazioni? È sufficiente basarsi su ciò che dicono i marchi? “Uno degli strumenti più interessanti è la App Good on you, che ha sviluppato un sistema di valutazione dei marchi sulla base di diverse categorie e serve a dare una prima idea. Si può consultare anche il Fashion revolution transparency indexcreato da Fashion Revolution, organizzazione internazionale nata come gruppo di pressione dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh (1.129 vittime, il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia ndr). O, in italiano, la campagna Abiti puliti, focalizzata in particolare sul tema dei diritti dei lavoratori”.
Pratiche di non acquisto
Il vestito più ecologico è quello non comprato. Ma limitare lo shopping può essere comunque un’occasione per divertirsi ed essere creativi. Alberto Saccavini è autore di libri quali “Sarto Subito! Manuale essenziale di taglio e cucito. Abiti fai-da-te e upcycling per uno stile etico e no waste” e “La gonna che visse due volte”, che aiutano anche i meno dotati di capacità manuali a rinnovare i vestiti nel proprio armadio. “Si possono fare le cose più svariate con i vestiti nel proprio armadio, l’unico limite è la propria immaginazione”.
Alcuni interventi sono possibili “anche senza sapere cucire: pensiamo alle applicazioni. Il colletto di una camicetta banale può essere pimpato con perline o strass”. Poi si può fare un corso di taglio e cucito, sempre utile per acquisire competenze base. A volte basta cambiare i bottoni a una giacca per renderla più appetibile, non serve essere sarti abilissimi.
Aprire il proprio armadio e vedere cosa si usa poco e potrebbe avere nuova vita, con semplici tocchi di inventiva o con l’aiuto di un sarto, può dare molta soddisfazione. Così anche scambiare i capi fra amici, mettendo a disposizione ciò che per gusto o per taglia non va più bene per noi.